I (grandi) MERITI E I (pochi) LIMITI DEL LAVORO AGILE

L’esplosione dello smart work durante la pandemia è stata un evento di straordinaria importanza per il futuro delle nostre vite e dell’economia; ma proprio per questo è scorretto mascherare da smart work quella che, nel settore pubblico, è stata nella maggior parte dei casi soltanto una sospensione del lavoro

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Intervista a cura di Francesco Bertolino pubblicata su
MF-Milano Finanza il 25 giugno 2020, a seguito della mia presa di posizione sull’indebita qualificazione in termini di “smart working” della sospensione dal lavoro della maggior parte dei dipendenti pubblici e sui gravi ritardi delle amministrazioni pubbliche dopo la riapertura.
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Quale valutazione dà di quello che è stato definito il più grande esperimento di lavoro da remoto della storia?
È stato un evento di grande rilievo: un’accelerazione improvvisa nella diffusione della capacità di utilizzo delle nuove tecnologie, che ha in parte cambiato faccia al tessuto produttivo

Quale riscontro ne ha avuto dalle società che segue nei suoi incarichi professionali?
Complessivamente un riscontro positivo: nella maggior parte dei casi le persone per le quali questa forma di organizzazione del lavoro è stata attivata sono riuscite a svolgere la propria prestazione con risultati analoghi a quelli del periodo precedente.

Lei, però, nei giorni scorsi ha espresso una valutazione negativa sull’esperienza dello smart working nel settore pubblico. Perché?
Non è così: Ciò su cui ho espresso una valutazione negativa – e con me, credo, la grande maggioranza degli italiani – non è lo smart working, ma il chiamare “smart working” il letargo che ha caratterizzato gran parte delle amministrazioni pubbliche nei mesi scorsi. Ci è stato detto che quasi tutti i dipendenti pubblici erano impegnati nel lavoro da casa, ma abbiamo avuto sotto gli occhi le amministrazioni inaccessibili e le pratiche rinviate sine die in tutti i settori, da quello tributario alla Motorizzazione civile, alle sovrintendenze, alle conservatorie, agli ispettorati, agli uffici giudiziari, alla polizia urbana, ai musei. Anche nella scuola abbiamo constatato che una parte soltanto degli insegnanti si è attivata per la didattica a distanza; mentre il personale tecnico e amministrativo è per la maggior parte rimasto a casa senza alcun compito da svolgere.

La ministra della  Funzione pubblica (qui a sinistra nella foto – n.d.r.) sostiene invece che la produttività delle amministrazioni è addirittura aumentata.
In alcuni casi sì: è accaduto che chi ha lavorato da casa abbia fatto persino di più di quel che faceva prima in ufficio. Ma la ministra sa benissimo che questo è accaduto soltanto in una parte minoritaria dei casi. Negli altri casi il lavoro è stato semplicemente sospeso. Non per colpa dei dipendenti, ovviamente. Ma occorre chiamare le cose con il loro nome: una cosa è lo smart work, un’altra è la sospensione del lavoro. Anche per non attribuire allo smart work colpe che esso non ha.

Dunque non la sorprende la volontà di alcune grandi imprese di prolungare questa esperienza oltre la pandemia e, in casi limite, per sempre.
Questo non solo non mi sorprende, ma lo ritengo una conseguenza logica di quanto è accaduto nei mesi scorsi. Il “lavoro agile” può consentire alle aziende di ridurre i costi fissi, alle persone che lavorano di ridurre il tempo dedicato agli spostamenti, alle città di ridurre l’inquinamento e la congestione del traffico nelle ore di punta. Attenzione, però: non tutti hanno una abitazione che consenta di lavorarci bene. Occorre che si diffonda capillarmente l’offerta di luoghi adatti per lo smart work, qualche cosa di più di un Internet Café.

Se, come sembra, l’esperimento dovesse proseguire anche oltre l’emergenza sanitaria, occorrerà metter mano all’impianto normativo? Come?
Le sole cose che occorre fare sul piano normativo sono due. Innanzitutto eliminare l’obbligo, imposto all’imprenditore dalla legge n. 81 del 2017, di consegnare alla persona interessata e al Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza un documento di valutazione del rischio specifico inerente al lavoro da remoto: non esiste alcun rischio, in questa forma di organizzazione del lavoro, che non sussista anche nello svolgimento della stessa prestazione in azienda. In secondo luogo eliminare la qualificazione come infortunio in itinere, coperto dall’INAIL, dell’infortunio accaduto nel percorso compiuto dalla persona interessata per raggiungere il luogo da essa stessa prescelto per svolgere la propria prestazione: una norma illogica e irrazionale, che costituisce un assurdo invido alla frode.

Vede il rischio di un controllo eccessivo dei datori di lavoro sui dipendenti mediante la tecnologia o, all’opposto, ritiene lo smart working un pericolo per la produttività?
Occorre un ripensamento della struttura di un rapporto nel quale, con il “lavoro agile”, la prestazione non è più misurata dal tempo. Se la prestazione “agile” dovrà essere misurata in riferimento ai compiti eseguiti, cioè ai risultati, questo avvicinerà notevolmente la struttura del rapporto di lavoro dipendente a quella del lavoro autonomo. In ogni caso, l’applicazione delle nuove tecnologie informatiche e telematiche aumenterà sia la possibilità di controllo da parte dell’impresa sull’attività della persona che con essa collabora, sia la libertà di quest’ultima nel determinare le modalità dell’intreccio fra tempi di vita e tempi di lavoro. L’esito complessivo dipenderà in gran parte dalla qualità di ciascuna delle parti.

Quali altri rischi comporta questa rivoluzione nella prestazione lavorativa?
Il rischio di un eccesso di lavoro effettivo. Da questo punto di vista è importante, ma non di per sé sufficiente per risolvere il problema, una buona regolazione del diritto alla disconnessione.

Il lavoro da remoto potrebbe finire per ridurre la forza contrattuale dei sindacati?
Può ridurla, se essi non sono in grado di utilizzare le nuove tecniche di comunicazione a distanza. Altrimenti può anche aumentarla.

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