LO SMART WORKING NON È QUESTO

Se molti dipendenti pubblici non hanno potuto lavorare non è colpa loro; ma occorre chiamare le cose con il loro nome: nella maggior parte dei casi sospensione dal lavoro, non smart working – Chiamar le cose con il loro nome serve anche per evitare di imputare allo smart working delle colpe che non ha


Intervista a cura di Alessandro Pirina, pubblicata dal quotidiano la Nuova Sardegna il 23 giugno 2020: si possono anche scaricare le due pagine del servizio completo, con l’intervista all’economista Vittorio Pelligra, in formato pdf – In argomento v. anche Sette domande alla ministra della FP sullo smart work pubblico.
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Scarica la prima pagina del servizio (con l’intervista all’economista Vittorio Pelligra) in formato pdf

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Scarica la seconda pagina del servizio (con la mia intervista) in formato pdf

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LA MIA INTERVISTA

Le sue posizioni fanno spesso discutere, soprattutto a sinistra, nonostante quella sia da sempre la sua area politica. E anche in epoca post-covid le parole di Pietro Ichino, giuslavorista tra i più apprezzati e politico piuttosto eretico, hanno destato scalpore. Il suo affondo sullo smart working ha fatto gridare allo scandalo i sindacati e ha costretto la ministra Fabiana Dadone a intervenire a difesa dei dipendenti pubblici. Ma lui, Ichino, da quelle posizioni non si muove.

Professor Ichino, hanno fatto discutere le sue parole sullo smart working.  Partiamo da una domanda secca: lei è favorevole o contrario?
Ma come si fa a essere contrari a questa forma nuova di organizzazione del lavoro? Chi può essere contrario all’evoluzione tecnologica, a Internet, alla telematica? Ciò a cui sono contrario – e con me, credo, la grande maggioranza degli italiani – è il chiamare “smart working” il letargo che ha caratterizzato gran parte delle amministrazioni pubbliche nei mesi scorsi.

Nell’intervista a Libero ha detto che durante il lockdown, a suo avviso, lo smart working è stato per la maggior parte dei dipendenti pubblici una lunga vacanza pagata. Su che base lo ha affermato?
Ci è stato detto che quasi tutti i dipendenti pubblici erano impegnati nel lavoro da casa, ma tutti abbiamo avuto sotto gli occhi le amministrazioni inaccessibili e le pratiche rinviate sine die in tutti i settori, da quello tributario alla Motorizzazione civile, alle sovrintendenze, agli ispettorati, agli uffici giudiziari, alla polizia urbana, ai musei. Come facevano a “lavorare da remoto”, per esempio, i vigili urbani, i custodi dei musei, gli operatori ecologici, gli usceri? Anche nella scuola tutti abbiamo constatato che una parte soltanto degli insegnanti si è attivata per la didattica a distanza e il personale tecnico e amministrativo è per lo più rimasto a casa senza alcun compito da svolgere.

La ministra della Funzione Pubblica Fabiana Dadone

Ma la ministra Dadone, sul Corriere, sostiene che durante la pandemia sia aumentata la produttività della pubblica amministrazione.
In alcuni casi sì: è accaduto che chi ha lavorato da casa abbia fatto persino di più di quel che faceva prima in ufficio. Ma la ministra sa benissimo che questo è accaduto soltanto in una parte minoritaria dei casi. Negli altri casi il lavoro è stato semplicemente sospeso.

I sindacati le obiettano che non è colpa dei dipendenti se è stato ordinato loro di rimanere a casa.
Certo che non è colpa loro. Ma occorre chiamare le cose con il loro nome: sospensione dal lavoro.

Cosa cambia?
Se di sospensione dal lavoro si tratta, si pone il problema della disparità di trattamento fra pubblico e privato: perché nel privato i lavoratori sospesi si sono visti ridurre la retribuzione, nel settore pubblico no. Chiamar le cose con il loro nome serve anche per evitare di imputare allo smart working delle colpe che non ha. Ed è il presupposto per una domanda alla quale la ministra Dadone non risponde: perché la ripresa del lavoro nel settore pubblico tarda tanto più a lungo rispetto al settore privato?

A che cosa si riferisce, precisamente?
Al fatto che soltanto il 19 giugno scorso al ministero della Funzione Pubblica c’è stato un incontro con i sindacati per la negoziazione del protocollo per il ritorno al lavoro, peraltro con esito negativo. Nelle aziende private questi incontri avvenivano ad aprile, in funzione della riapertura ai primi di maggio.

Lo smart working viene da più parti auspicato come una nuova modalità di lavoro più sostenibile. Può avere un futuro in Italia?
Può eccome; e lo avrà di sicuro. Il “lavoro agile” può consentire alle aziende di ridurre i costi fissi, alle persone che lavorano di ridurre il tempo dedicato agli spostamenti, alle città di ridurre l’inquinamento e la congestione del traffico nelle ore di punta. Però non tutti hanno una abitazione che consenta di lavorare bene da casa: occorre che si diffonda capillarmente l’offerta di luoghi adatti per lo smart working, qualche cosa di più di un Internet Café. E occorre un ripensamento della struttura di un rapporto di lavoro nel quale la prestazione non è più misurata dal tempo.

Siamo all’interno di una crisi economica forse senza precedenti. Che cosa si può fare per arginare i danni?
Imparare a spendere bene e in fretta l’enorme quantità di denaro di cui lo Stato dispone per fronteggiare la crisi. E innervare il mercato del lavoro dei servizi indispensabili per mettere in comunicazione la domanda e l’offerta: in Italia, su questo piano, siamo ancora all’anno zero.

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