LA POLITICA DEL LAVORO NECESSARIA PER USCIRE DALLA CRISI

Far funzionare bene l’incontro fra domanda e offerta serve non soltanto per mettere a frutto i giacimenti occupazionali oggi non utilizzati, ma anche per rendere il Paese più attrattivo per il meglio dell’imprenditoria mondiale, così aumentando la domanda di lavoro

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Intervista a cura di Matteo Rigamonti, pubblicata sul numero di luglio 2020 del mensile
Tempi – Le altre interviste e recensioni relative al libro L’intelligenza del lavoro sono raggiungibili attraverso la pagina web dedicata al libro
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Chissà chi avrebbe scelto come guru il governo Conte se gli Stati generali dell’economia si fossero tenuti nella Grecia di Esopo. Se nei comitati di esperti ci sarebbe stato un seggio d’onore per la spensierata cicala e se la previdente formichina avrebbe avuto diritto di parola oppure no. Chi invece potrebbe ascoltare oggi il presidente del Consiglio, senza pericolo di sbagliarsi, è Pietro Ichino, autorevole giuslavorista e profondo conoscitore del mercato del lavoro da ben prima del coronavirus, nonché ex dirigente sindacale Fiom-Cgil, avvocato, politico (prima con Pci e poi Pd), autore di diversi libri e saggi per addetti ai lavori ma non solo. Ichino, in questi giorni in cui gli italiani si dividono tra chi già non arriva a fine mese, chi immagina come ripartire – ormai a settembre – e chi valuta come spendere il bonus vacanze e quello per i monopattini, ha preso parola in più di una intervista. “Impreparati, senza alcuna organizzazione… non per colpa loro, ma quella non è una politica attiva del lavoro seria!”, ha detto dei navigator alla Verità. “Nella maggior parte dei casi è stata solo una lunga vacanza pressoché totale”, ha detto a Libero dello smart working della pubblica amministrazione, dove “il lockdown si è enormemente dilatato in modo irresponsabile”. Ne sanno qualcosa i docenti della scuola statale, per inciso. Ma la sua analisi è molto più radicata dentro i gangli della nostra società e cultura di quanto non lascino trasparire simili e forti frasi e concetti.

Per chi vuole approfondirla, Ichino ha appena dato alle stampe con Rizzoli la sua ultima fatica intitolata L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore. Qui gli abbiamo chiesto come vede l’oggi e cosa ne pensa della temuta recessione che l’autunno sembra destinato a far esplodere.

Professore, nel suo ultimo libro lei parla dello “scandalo dei giacimenti occupazionali inutilizzati”. A cosa si riferisce esattamente?
Al fatto che da anni ormai vengono censiti parecchio più di un milione di posti di lavoro qualificato o specializzato rimasti durevolmente scoperti per mancanza di persone capaci di ricoprirli e informate della loro esistenza. Ce ne sono in tutti i settori e in tutte le fasce professionali. Qualsiasi persona interessata potrebbe trovare, fra questi, un posto raggiungibile con un corso di formazione mirata, o di addestramento, di durata non superiore a sei mesi. A scorrere le tabelle che riporto nel primo capitolo del libro, del resto, si vede che restano a lungo scoperti anche posti di lavoro non qualificato.

Quali sono gli impieghi che più di tutti rimangono scoperti?
Il settore più colpito da queste situazioni di skill shortage è quello artigiano: non si trovano falegnami, sarti, elettricisti, idraulici, antennisti, panificatori, macellai e diverse altre figure. Ogni anno chiudono circa 20mila imprese artigiane per raggiunti limiti di età del titolare, senza che la nuova generazione subentri: con la conseguente perdita non solo di opportunità occupazionali, bensì anche dell’avviamento commerciale. Ma non si trovano neppure gli operai necessari per l’industria della meccatronica, lungo la via Emilia, gli addetti ai banconi delle gastronomie o le celle frigorifere dei supermercati, gli analisti informatici, gli ingegneri, i medici, gli infermieri, i braccianti agricoli, le badanti, e l’elenco potrebbe continuare a lungo.

A chi o che cosa è possibile attribuire la responsabilità di una tale disgrazia?
Alla mancanza, nel mercato del lavoro, dei servizi di informazione, orientamento professionale capillare, formazione mirata agli sbocchi effettivamente esistenti, quindi organizzata in collaborazione con le imprese interessate. E la cui qualità sia controllata rigorosamente, mediante un sistema di rilevazione sistematica del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi. Occorre istituire un’anagrafe della formazione professionale, analoga a quella scolastica già operante presso il Miur, e incrociare i dati di questa anagrafe con quelli delle Comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro, delle iscrizioni agli Albi ed elenchi professionali, delle liste dei disoccupati, eccetera. Qualche cosa di questo genere lo fa la Fondazione Agnelli con l’Osservatorio Eduscopio, e funziona benissimo, ma – per quel che ne so – lo fa solo per gli istituti scolastici di Piemonte e Lombardia.

Il sistema di istruzione italiano deve farsi un esame di coscienza e cambiare qualcosa?
Altro che qualcosa! Occorre un grande investimento per l’ammodernamento delle strutture. Ma occorre soprattutto responsabilizzare fortemente i dirigenti scolastici per i risultati, come accade per esempio in Gran Bretagna, al tempo stesso attribuendo loro le prerogative gestionali indispensabili. E sarebbe importantissimo anche introdurre – sulla scorta di alcune esperienze straniere molto positive – la possibilità per gli istituti scolastici e universitari, anche pubblici, che intendono scommettere sulle proprie capacità, di svincolarsi dalle procedure di reclutamento del personale docente e amministrativo, finanziandosi con le rette di iscrizione degli studenti, coperte da prestiti d’onore perché tutti possano iscriversi. Naturalmente, con la clausola inderogabile per cui se mancano le iscrizioni l’istituto chiude.

Un’altra delle tesi che espone nel suo libro è che sia il lavoratore a potersi scegliersi l’imprenditore e non solo il contrario. È vero anche in Italia?
Nella maggior parte dei casi è già così: il lavoratore sceglie l’impresa dove lavorare quando limita la propria ricerca a una determinata zona, o a un determinato settore produttivo; talvolta anche ficcandosi in un vicolo cieco per difetto di informazione e orientamento. O quando si indirizza verso l’impresa artigiana piuttosto che verso quella di dimensioni medie o grandi; oppure decide di spostarsi dove trova delle imprese che gli offrono delle condizioni migliori. Il problema è che una parte della forza-lavoro, di fatto, non ha questa possibilità di scelta.

Appunto. Per questi potersi scegliere l’imprenditore, come dice lei, sembra piuttosto un’utopia.
Se si considerano i giacimenti occupazionali inutilizzati di cui abbiamo parlato all’inizio ci si convince che non è un’utopia. Basterebbe attivare i servizi e i percorsi che consentono di accedere a quei posti. D’altra parte, questa visione del mercato del lavoro che propongo nel libro, come luogo dove sono – devono essere – anche i lavoratori a potersi scegliere l’imprenditore, è l’unica compatibile con l’articolo 4 della Costituzione. Dove si legge che la Repubblica deve fare tutto quanto necessario affinché ogni cittadino possa esercitare il proprio diritto al lavoro “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”.

Quello che dice vale anche quando il lavoro scarseggia e alle selezioni su Linkedin o ai concorsi pubblici concorrono migliaia di persone per una sola posizione aperta?
Quell’affollarsi di candidati per pochi posti, quando si verifica, è l’effetto di un grave difetto di informazione e orientamento professionale. Nei Paesi nei quali i servizi al mercato del lavoro funzionano, queste ammucchiate di disperati non si verificano.

Che idea si è fatto della cultura politica dell’attuale classe dirigente?
Posso parlare soltanto del settore nel quale ho qualche competenza: quello delle politiche del lavoro. Qui mi colpisce molto negativamente che si stiano stanziando decine di miliardi per le politiche passive, cioè per il pur necessario sostegno del reddito di chi ha perso il lavoro o ne è stato sospeso, e non si trovi neppure una lira da investire per le politiche attive, cioè per i servizi di informazione, orientamento e formazione di cui abbiamo parlato all’inizio.

Mentre di tagliare le tasse e ridurre la burocrazia non ne parla mai nessuno. Non crede si stia immoralmente caricando di debito il futuro dei giovani, senza peraltro coltivare il terreno su cui fiorisce l’economia?
Su questo punto sono totalmente d’accordo con lei. Questo modo di fare debito pubblico spensieratamente, come se nessuno poi dovesse ripagarlo, e di farlo non per investimenti in infrastrutture scolastiche o sanitarie, o di altro genere essenziale, ma per finanziare soltanto aumenti di spesa corrente, costituisce una gravissima iniquità commessa dalla mia generazione e da quella immediatamente successiva, nei confronti dei nostri figli e nipoti.

Dai sindacati – che nel libro lei colloca lungo una linea continua che va dal prototipo “alfa” al prototipo “omega” – viene qualche proposta utile?
Quella che propongo è la contrapposizione tra il prototipo di sindacato “alfa”, quello tradizionale, che si considera “tutt’altro rispetto all’impresa”, e quello del sindacato “omega”, che invece ha come proprio obiettivo, dove possibile, quello di guidare i lavoratori nella negoziazione della scommessa comune con l’imprenditore sul piano industriale innovativo. Ma non mi spingo a dire che quest’ultimo sia di per sé un sindacato più intelligente del primo: dipende dalla qualità dell’imprenditore che si ha di fronte. Ogni imprenditore ha il sindacato che si merita.

Le associazioni di categoria fanno parte del problema o della soluzione a esso?
Anche qui non generalizzerei: ci sono quelle che stanno svolgendo una funzione straordinariamente positiva per aiutare la ripresa, e quelle che sanno soltanto chiedere incentivi, sussidi ed esenzioni fiscali.

Cosa pensa che succederà a settembre quando i licenziamenti congelati dalla cassa integrazione saranno scongelati?
È inevitabile che ci sia un’ondata di licenziamenti. Speriamo non uno Tsunami; ma più si prolunga il blocco più l’ondata è destinata a ingrossarsi. D’altra parte, anche la proroga dell’integrazione salariale incondizionata, indispensabile per la proroga del blocco dei licenziamenti, ha delle conseguenze indesiderabili, in termini di addormentamento della ricerca della nuova occupazione e di aumento del lavoro nero.

Senza contare che il Pil precipiterà e le casse dell’Inps piangeranno miseria. Ci aspettano tempi duri?
Nel medio termine una riforma delle pensioni sarà comunque necessaria, anche indipendentemente dagli effetti del Covid-19. Perché da tempo peggiora in modo continuo il rapporto tra attivi e pensionati: ogni anno la popolazione italiana si sta riducendo di circa 300 mila unità. Certo, la necessità di questa riforma può essere accelerata dagli effetti del Covid-19, se l’epidemia porta con sé una contrazione permanente della base produttiva.

Come si rilancia l’economia italiana in un simile contesto?
Usando bene l’enorme quantità di denaro che l’Unione Europea ci sta mettendo a disposizione, quasi del tutto gratuitamente. Potrebbe essere la grande occasione per ammodernare e potenziare la nostra scuola, il nostro sistema sanitario, il nostro sistema dei trasporti, il nostro sistema delle telecomunicazioni, e, non ultimo, il nostro sistema dei servizi al mercato del lavoro. Ma per questo occorrerebbe avere le idee chiare su ciò che in ciascuno di questi campi occorre precisamente fare; e la capacità di mettersi subito a farlo. Il rischio è che, come è accaduto troppo spesso fin qui, quei soldi non siamo capaci di spenderli.

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