Affrontare il problema della ripresa post-epidemia diminuendo l’input di lavoro senza adoperarsi per una significativa crescita degli altri fattori produttivi determinerebbe un calo della produzione e nessun miglioramento della produttività: un esito catastrofico
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Numero 68 di Mercato del Lavoro News, Bollettino della Fondazione Kuliscioff, a cura di Claudio Negro, pubblicato anche su Firstonline l’8 maggio 2020 – In argomento v. anche Lavorare meno lavorare tutti: sogno o realtà?, articolo di Cyprien Batut, Andrea Garnero e Alessandro Tondini, pubblicato sul sito lavoce.info il 16 aprile 2o19; inoltre il mio editoriale telegrafico del 24 aprile 2017: ivi ulteriori riferimenti a studi sull’argomento
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L’indicazione della Ministra del Lavoro Catalfo di ridurre l’orario a parità di retribuzione per salvaguardare l’occupazione nel dopo crisi sembra venire da un altro pianeta. Pare non tenere conto di una realtà italiana assai lontana dall’immagine che ne hanno molti operatori della politica. In Italia nel 2019 si sono lavorate 28 miliardi 959 milioni 790 mila ore (28.959.790.000), che divise per i 23.300.000 occupati (media annuale 2019) ci dà una media di 1.242 ore lavorate pro capite di fatto, al netto degli episodi di Cassa Integrazione e compresi gli straordinari. L’orario annuale medio di un lavoratore dipendente, tenendo conto di ferie, festività ma senza straordinari, sarebbe di 1.723 ore.
Naturalmente non si tratta di assenteismo fuori controllo o di lassismo individuale: il punto è la larga diffusione del part time (18,6%) che abbatte il dato delle ore lavorate pro capite. Esso è soprattutto femminile e diffuso soprattutto in quei settori particolarmente colpiti dal lockdown e nei quali l’occupazione è più a rischio: commercio al dettaglio, servizi alle persone, turismo, ristorazione. Ma è chiaro che prospettare a questi lavoratori una riduzione di orario sarebbe incomprensibile, tenuto anche conto del fatto che la maggioranza dei part time in questo settore sono involontari (imposti dall’azienda). Peraltro, se vogliamo vederla in modo un po’ più generale, affrontare il problema della ripresa post covid diminuendo l’input di lavoro senza operare per una significativa crescita degli altri fattori produttivi determinerebbe un calo della produzione e nessun miglioramento della produttività: un esito catastrofico!
Osserviamo i seguenti dati (i più recenti di cui si dispone): nel periodo 2014-2018 la produttività del lavoro (rapporto tra ore lavorate e valore aggiunto) è aumentata mediamente di 0,3% annuo (ma nel 2018 è scesa dello 0,3%). La produttività del capitale è cresciuta di 1,3% all’anno. Nel 2018 la produttività totale dei fattori è cresciuta di 1,2%, per effetto di un calo della produttività del lavoro, un aumento di quella del capitale, e un apporto nullo degli altri fattori. Ed è proprio sugli altri fattori produttivi che si gioca in gran parte la capacità di ripresa del sistema Italia: gli investimenti in informatizzazione, l’efficienza del Mercato del Lavoro, l’efficienza del Settore Pubblico, che sono le autentiche palle al piede della produttività delle imprese italiane. Senza operare su questi fattori il salvataggio di posti di lavoro porterebbe solo a occupazione assistita o a dilazionare la disoccupazione.
Peraltro anche sul piano del provvedimento di emergenza l’idea lascia molto a desiderare: la partecipazione a “corsi di formazione” ricorda molto l’escamotage usato ai tempi per utilizzare i fondi FSE per pagare i lavoratori sospesi dall’Alfa Romeo. Perché serva a qualcosa, la formazione deve essere personalizzata per l’azienda e/o i lavoratori, e non essere semplicemente declamata. Fare o non fare formazione, quale, quanta, può essere soltanto frutto di concertazione a livello di impresa. Se non serve e c’è un’esigenza di ridurre le ore lavorate molto meglio e meno costoso ricorrere ai normali Contratti di Solidarietà, in cui tutti lavorano e lavorano un po’ meno e l’Inps integra la differenza. E per chi ha davvero bisogno di fare formazione sarebbe assai utile coinvolgere i Fondi Interprofessionali, che sono istituiti a questo scopo e che potrebbero in questi casi essere coinvolti (occorrerebbe però qualche aggiustamento normativo) anche nel pagare almeno in parte la retribuzione dei lavoratori per quelle ore.
Tutto questo potrebbe essere utile a seconda delle diverse realtà, ma sarebbe illusorio pensare di aver fatto la trovata universale che mette assieme il salvataggio dell’occupazione e la riqualificazione del capitale umano. Men che meno di realizzarla intervenendo ope legis sui contratti collettivi di lavoro: certe cose o le concordano le Parti sociali o hanno l’efficacia delle gride manzoniane, e tutto ciò che produrrebbero sono costi assistenziali certi a carico del debito pubblico. Come la povertà, anche la disoccupazione non si abolisce per legge.
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