COME LA PAURA PER LA PRIVACY HA PRODOTTO UNA APP INUTILE

Il paradosso è che, usando tutti i giorni il gps, consentiamo tranquillamente di conoscere tutti i nostri spostamenti alle grandi multinazionali, ma non lo consentiamo, neppure se i dati sono rigorosamente anonimizzati, al nostro Governo per difenderci da una pericolosa malattia

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Articolo di Elena Tebano tratto dalla
Rassegna Stampa del Corriere della Sera del 3 maggio 2020Tutti gli altri articoli, interviste e interventi sul tema della pandemia pubblicati su questo sito sono raccolti nel portale La politica, l’economia, il lavoro (e qualcos’altro) all’epoca della pandemia .
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Elena Tebano

C’è un enorme fraintendimento nel dibattito in Italia (e in gran parte d’Europa) sulla privacy nell’uso delle app, cioè dell’intelligenza artificiale, per monitorare la diffusione del nuovo coronavirus Sars-Cov-2. A rimetterci saranno la nostra salute e la nostra libertà di movimento. Ovvero una delle libertà fondamentali dal tempo dell’Habeas corpus. Perché l’app, alle condizioni alla quale verrà adottata in Italia, sarà del tutto inutile e quindi dovremo rimanere chiusi in casa a lungo.

Una premessa. Il tracciamento dei contatti è fondamentale, perché consente di isolare solo le persone effettivamente contagiose e permette a tutte le altre di muoversi con pochissime restrizioni: se fatto bene è altrettanto efficace della chiusura totale, il lockdown, nel contenere l’epidemia, ma con il vantaggio di avere danni molto minori sull’economia e di non limitare le libertà fondamentali delle persone (qui la simulazione mostra come, ne avevamo già parlato a marzo, qui). Perché funzioni è necessario che la app sia accompagnata da test mirati su chiunque sia a rischio di contagio, e dall’assistenza alle persone in quarantena: cose che in regioni molto colpite come la Lombardia e il Piemonte finora si sono viste poco.

Per funzionare, inoltre, la app deve poter rilevare un numero adeguato di incontri a rischio contagio e individuare i possibili focolai di infezione. È proprio qui che si innesta il dibattito sulla privacy, che è sacrosanto, ma al momento ha perso di vista il nocciolo della questione. Quello che noi stiamo facendo con la app, infatti, è l’equivalente di avere un aereo e di usarlo per spostarsi a ruote sulle strade, per paura che se voliamo possa cadere. Invece di interrogarci su come migliorare al massimo la tecnologia perché voli in sicurezza, lo teniamo a terra. E non ci muoviamo abbastanza velocemente per acchiappare l’epidemia.

Il primo freno tecnologico riguarda la decisione, caldeggiata dalla Commissione europea, di non usare il gps per rilevare i movimenti delle persone. Il gps è lo strumento di geolocalizzazione che permette per esempio a Google Maps, o a una qualsiasi app di car sharing, o a Whatsapp, di dirci dove siamo e come ci muoviamo. Se chiedete al vostro telefono dove avete parcheggiato ve lo dice perché avete il gps attivato. Grazie al gps la app di tracciamento potrebbe registrare in modo anonimo i movimenti di una utente, per esempio Antonia, identificata come X35b. Se X35b a un certo punto scopre di essere positiva può sbloccare la app che le fa vedere dove è stata nei 15 giorni precedenti (fase in cui si ritiene che possa essere stata contagiosa): se a casa, in ufficio, al supermercato, a portare i figli dalla babysitter, etc.. A quel punto un addetto al tracciamento può contattare ognuno di quei luoghi e sottoporre a test le persone che possono averla incontrata, senza dover rivelare l’identità di X35b. Se anche altri avessero la app, sapremmo con ancora più certezza se si trovavano in uno di quei luoghi quando c’era X35b. L’app italiana, che inizialmente aveva anche il gps, non userà la geolocalizzazione per decisione del governo. In molti, infatti, compresa la Commissione europea, hanno raccomandato di non adottarlo ritenendo che conoscere gli spostamenti di una persona, anche se in forma anonima, mettesse a rischio la riservatezza. L’app norvegese e quella sudcoreana, al contrario, si basano sul gps.

In alternativa è stato deciso di usare il bluetooth low energy, che rileva la potenza dello stesso strumento negli altri smartphone (se è attivato) e la usa per misurare la distanza tra i due dispositivi, e così tra le due persone che li portano con sé. Se la distanza tra due individui è minore di due metri per un periodo di almeno 15 minuti e uno dei due risulta positivo al virus nei successivi 15 giorni, la app segnala il rischio contagio (la positività deve essere notificata volontariamente da chi ha scoperto di essere infetto). In questo modo sappiamo se la persona risultata positiva X35b ha incontrato altre persone, per esempio Y76r (un codice identificativo di cui non abbiamo il corrispondente nome, cognome e indirizzo) in contatti a rischio, ma non dove. Significa, per esempio, che non possiamo andare a sanificare il supermercato dove ha fatto la spesa, perché non sappiamo che c’è andata. Nella migliore delle ipotesi possiamo invece contattare Y76r e dirgli di fare un test. Ma sempre per una questione di privacy, la cosa è ancora più limitata.

Apple e Google, i due maggiori produttori al mondo di sistemi operativi per cellulari – che di fatto da soli controllano la totalità del mercato -, hanno preparato una modifica dei protocolli bluetooth dei loro telefoni che li fa comunicare in modo più preciso e senza interferire con il normale funzionamento del telefono. È necessaria per far funzionare bene il tracciamento bluetooth low energy. Però, come spiega l’Economist, con la modifica hanno imposto ai governi la condizione che i dati di contatto siano raccolti e memorizzati solo sui telefoni degli utenti, e non sui server dei singoli governi che introducono le app per monitorare il diffondersi dell’epidemia. Anche quelli, come la Germania, che volevano centralizzare la raccolta dei contatti per avere una stima delle infezioni potenziali, hanno dovuto rinunciare. E questo nonostante i «contatti» nella app italiana fossero anonimizzati e riportassero solo un codice numerico per individuare i telefoni, senza identificarne in nessun modo i proprietari. Significa che solo Y76r sa se ha incontrato una persona positiva. E quindi solo Y76r può decidere se farsi il test oppure no. Se stare in quarantena oppure no.

Non solo, l’uso del bluetooth riduce moltissimo l’efficacia della app perché può monitorare i contatti solo se entrambe le persone che si incontrano hanno l’applicazione attiva. Significa che se la usa il 30% della popolazione – il tasso di adozione che si ha di solito con app volontarie – verranno monitorati solo il 9% degli incontri. Così non servirà a nulla: si stima, come spiega Tomas Pueyo su Medium, che per contenere l’epidemia bisogna tracciare subito un po’ più del 50% dei contatti delle persone positive (è il motivo per cui il tracciamento umano non basta: è troppo lento e incerto). Al contrario con il gps basterebbe una percentuale molto più bassa di persone che usano la app per identificare possibili focolai e allertare chiunque li abbia frequentati nei giorni a rischio.

Alla fine sono state due multinazionali a imporre il modo in cui devono essere raccolti i dati per una politica di sanità pubblica. Lo hanno fatto in nome della privacy, dell’argomentazione condivisa dall’opinione pubblica che la raccolta centralizzata dei dati avrebbe potuto portare ad abusi da parte di governi illiberali. Ma, come nota l’Economist, in questo modo decisioni importanti per la vita dei cittadini sono state prese “al di fuori dei meccanismi decisionali della democrazia”, da imprese private che lavorano a scopo di lucro. E che hanno ottenuto un risultato importante da un punto di vista della loro immagine: si sono mostrate pronte ad aiutare nella lotta alla pandemia, mentre mantenevano di fatto il controllo assoluto sui dati, evitando che istituzioni pubbliche vi avessero accesso. Queste aziende, però, come anche le società telefoniche, prendono continuamente i dati sui nostri spostamenti: grazie al gps, se non lo disattiviamo, e ai wifi con cui ci colleghiamo, agli altri dispositivi con cui interagiamo, o alle cose che postiamo sui social, taggando luoghi e locali. In più sono in grado di associare dati da app e fonti diverse con una precisione che quella di tracciamento non avrebbe mai avuto.

Il paradosso è che abbiamo paura della app governativa ma non delle aziende private. Temiamo che il governo ci venga a prendere e ci rinchiuda al minimo sospetto di positività – nelle settimane scorse sono girate su Whatsapp fake news che mettevano in guardia da questo supposto pericolo se avessimo scaricato le app -, molto meno di poter essere influenzati nelle nostre scelte da Cambridge Analytica, o da qualunque altra società che sa tutto di noi. Il modello di abuso di potere che abbiamo in mente è ancora quello novecentesco, delle dittature politiche. Non è così, oggi è più pericolosa l’enorme concentrazione di dati che permette un controllo “soft” sui comportamenti delle persone, senza che queste spesso neppure se ne accorgano: basta che Facebook pubblichi sul social network la funzione «io ho votato» per far aumentare enormemente l’affluenza a un’elezione. Quanto alla app di tracciamento, sarebbe bastato istituire un controllo chiaro e democratico sulla gestione dei dati, con limiti di tempo e di uso. Avremmo avuto uno strumento prezioso per contenere l’epidemia e recuperare un minimo di normalità nelle nostre vite. Purtroppo non sarà così.

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