“[…] Devo ringraziare il covid-19 che mi ha regalato il tempo per leggere La casa nella pineta: mi sono emozionata molto in diversi passaggi, dalla morte di tuo padre all’incubo delle BR, al rapporto tra la tua famiglia e don Milani […] ho riso e pianto insieme al tema del suo allievo sulle ‘operaie senza testa’ della Siemens […]”
.
Lettera pervenuta il 27 aprile 2020 – Le altre lettere, i commenti, le recensioni relative al libro La casa nella pineta sono facilmente reperibili mediante la pagina web dedicata al libro .
.
Carissimo Pietro, scusa l’intimità, ma quando si legge un autore e si è amato il suo libro, questo diventa parte della tua vita. Dunque è il tuo destino essere un po’ di tutti coloro che hanno apprezzato La casa nella pineta.
Pur nello stile asciutto del tuo testo, io mi sono emozionata molto in passaggi molto diversi tra loro: naturalmente la morte del papà così intensamente descritta e partecipata; il dispiacere di avere vissuto il brutto incubo delle BR e di esserne stato un bersaglio; le lotte che hai dovuto fare all’interno della sinistra per battaglie di civiltà non comprese.
Soprattutto, tra questi, il part-time in azienda, non compreso e temuto come ghetto “rosa” in cui avrebbero collocato le donne lavoratrici. Purtroppo in tutta la storia dei movimenti femminili italiani si palesa il conflitto tra tutela delle donne e parità/uguaglianza di diritti in nome della quale si rifiutano riforme migliorative della nostra condizione. Già Anna Maria Mozzoni e Anna Kuliscioff litigarono su questo a proposito delle lavoratrici madri.
Il tuo testo è rimasto sulla pila di libri da leggere da quando è stato pubblicato e devo ringraziare questo terribile virus che mi ha regalato tempo per leggerlo. E mi hai regalato una storia, come ho scritto nella prima pagina, “da un altro pianeta” rispetto al mio, naturalmente.
Ho provato la grande distanza che separa la mia storia dalla tua e poi ho ringraziato il Cielo della meravigliosa sintonia che dona l’amore per lo studio, per il lavoro, per la cultura.
Provengo da una umilissima famiglia del Sud, mai un libro in casa, tanto lavoro semi-schiavistico e tanta sub-cultura maschilista. L’emigrazione al Nord, a Milano nel ’62 e la mia scelta di studiare contro tutti. Non ho fatto alcuna carriera, senz’altro per limiti miei più che per il mercato del lavoro. Io davvero avevo “uno spirito rinunciatario”; non tuo papà – credo che lui desse di sè un giudizio non coerente alla sua persona, al suo stile di vita, ai suoi comportamenti. Io evidentemente non mi ritenevo all’altezza di partecipare a un mondo cui non ero abituata e non pensavo di meritarlo.
Mi consola il fatto che il mio unico figlio, oggi valido medico trentenne, pur conoscendo le nostre ristrettezze, non si sia fatto intimidire dall’asprezza di questo mondo e stia combattendo per difendere il suo lavoro così precario ancora per la legge italiana. E che ami leggere, soprattutto di storia moderna e contemporanea. Che sappia chi era Don Milani. Oggi posso raccontargli meglio anche chi erano coloro che hanno aiutato Don Milani. A questo aspetto, fino al tuo racconto, non avevo dato il giusto peso.
A proposito dei ragazzi del Don e dei temi, ho riso e pianto insieme al tema di Silvano Salimbeni con le sue “operaie senza testa”! che meravigliosa descrizione della alienazione! Marx non avrebbe saputo dire meglio.
Scusa se ti ho portato via tempo ma ho sentito irrestibile il desiderio di scrivere così a ruota libera senza un come e un perchè. Ti ringrazio moltissimo,
Antonietta Longo Necchi
.