Perché a Francesco Santoro Passarelli e a Luigi Mengoni viene condonato, e a Ludovico Barassi no, il nitido fondamento civilistico e contrattualistico sul quale hanno ricostruito l’ordinamento del rapporto di lavoro?
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Lettera di Vincenzo Ferrante (nella foto qui sotto), professore di Diritto del lavoro nell’Università Cattolica di Milano, pervenuta l’11 marzo 2020, in riferimento alla mia recensione del libro di Umberto Romagnoli, Un libro sui maggiori giuristi del lavoro del ‘900 .
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portavo con me, oramai da molti giorni, la tua recensione al volume di Umberto Romagnoli, sperando di trovare il tempo per leggerle in santa pace. La sospensione delle lezioni me ne ha dato ora la possibilità.
Ti scrivo però per dire che il pezzo non mi è piaciuto (e lo dico avendo piena consapevolezza di trovare in te un interlocutore, attento e rigoroso, e dotato di una instancabile capacità di cercare il dialogo con tutti).
Capisco la giusta necessità di evitare toni conciliatori quando le differenze ci sono e non vanno messe fra parentesi. E mi piace, e mi colpisce molto per la sua nettezza, la tua richiesta di chiarezza in ordine alla convivenza fra contrattualisti e non (anche io nel titolo della mia monografia ho messo il “contratto di lavoro”, chiedendone un’autorizzazione preventiva e ricevendone poi lode da Mazzotta e da Romagnoli stesso).
Non condivido però le critiche alla concezione stessa del volume, che è – dichiaratamente – una raccolta di precedenti saggi. Raccolta che impone, a mio modo di vedere, la pubblicazione nella loro interezza degli scritti, di modo che sarà il lettore a valutare quanto resta di essi a distanza di anni. In questa luce mi pare coraggioso il caveat iniziale, che per essere eliminato avrebbe richiesto la riscrittura di tutto il volume (cosa però che temo esuli dalle forze dell’Autore).
Per il resto, non mi pare che definire “giuslavorista della Lucchesia” il professor Pera sia una mancanza di riguardo (si utilizza nel saggio varie volte l’espressione “il giurista lucchese”, di modo che questa mi pare una correzione dell’ultima ora, per evitare una ripetizione). Ho visto pure la citazione di Barassi come borghese “piccolo piccolo” e non mi pare troppo irriverente (il punto in esame era il ruolo del sindacato nella disciplina del rapporto che, mi sembra innegabile, non trova lo spazio che merita nel pensiero di B. , quando oramai si trattava di un fenomeno sociale diffuso e radicato anche in Italia).
In conclusione, mi pare che una rivisitazione dell’opera della Riva Sanseverino (anch’ella “sparita dai radar” dopo il pensionamento, al pari di Barassi) sia auspicabile, ma temo che debba essere piuttosto tu ad occupartene, per il ruolo che rivesti e per la tua storia accademica.
Con i miei più cordiali saluti
Vincenzo
Ringrazio il collega Vincenzo Ferrante per queste osservazioni critiche sulla mia recensione del libro di Umberto Romagnoli: è il segno di un dialogo vero in seno alla comunità accademica. Per nulla scontato, questo dialogo; perché troppo spesso si ha la sensazione che nella nostra accademia all’esplicitazione dei dissensi, faticosa in quanto implica l’onere di argomentarli mostrando di avere letto e capito ciò da cui si dissente, si tenda a preferire il molto più comodo ignorare le tesi non condivise.
Ma veniamo al merito del dissenso. La mia impressione è che, dopo un secolo intero nel quale la storia del pensiero giuslavoristico è stata segnata profondamente dalla dialettica tra contrattualisti e a-contrattualisti, oggi stia diffondendosi la tendenza a sminuire l’importanza di quella contrapposizione, fin quasi a indicarla come una sorta di falso problema, a sostenere che, in realtà, fin dagli anni ’50 e ’60 a ben vedere gli uni e gli altri sostenevano la stessa cosa, ovvero la limitazione dell’autonomia negoziale individuale in materia di lavoro, sia pure con sottolineature diverse. Non è così: la teoria germanica della eingliederung (inserimento organico) nell’impresa come fatto da cui trae origine il rapporto di lavoro, per il resto pressoché interamente soggetto al regolamento emanato unilateralmente dall’imprenditore o contenuto nel contratto collettivo o nella legge statale, ha avuto nella nostra dottrina un notevolissimo spazio, e numerose reinterpretazioni, in una contrapposizione a tratti assai aspra con la concezione contrattualistica del rapporto stesso, fino all’incirca alla metà degli anni ’80. Ecco, mi sembra che i dissensi rispetto alla mia recensione dell’ultimo libro di Umberto Romagnoli (mi riferisco qui anche al peraltro interessantissimo scritto di Oronzo Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione, in corso di pubblicazion nel primo numero del 2020 di Labor, § 4) siano in qualche modo espressione della tendenza alla svalutazione di quella contrapposizione.
Ciò che mi sono proposto di evidenziare nella recensione contestata è la contraddizione, che obiettivamente emerge nel libro di Umberto Romagnoli (ed è suo merito non secondario averla lasciata emergere con questa raccolta di propri saggi), fra la drastica e sferzante svalutazione di Ludovico Barassi, per ragione del fondamento schiettamente civilistico e contrattualista della sua costruzione, e il trattamento diametralmente opposto riservato ai civilisti e contrattualisti posteriori di mezzo secolo Francesco Santoro Passarelli e Luigi Mengoni. Grandi giuristi entrambi, certo; ma la domanda che pongo è: perché a loro viene condonato, e a Barassi no, il nitido fondamento civilistico e contrattualistico sul quale hanno ricostruito l’ordinamento del rapporto di lavoro? Vincenzo Ferrante giustifica questa differenza di trattamento in considerazione dello spazio pressoché nullo che ne Il contratto di lavoro di Barassi viene attribuito al ruolo del sindacato e della contrattazione collettiva nella regolazione del rapporto di lavoro; ma quel libro è stato scritto alla fine del secolo XIX e pubblicato nell’anno 1900, quando ancora il movimento sindacale muoveva i primi passi e la disciplina collettiva del rapporto di lavoro era di fatto limitata a pochissimi contratti aziendali “di tariffa”. Neppure all’epoca della seconda edizione, uscita nel 1917 (l’anno di Caporetto!), la contrattazione collettiva nazionale era ancora nata; e quel pochissimo di contrattazione aziendale che si era attivato ai primi del secolo era stato spazzato via dagli eventi bellici.
Detto questo, che Ludovico Barassi fosse sensibile ai valori promossi dal Corriere della Sera diretto dal borghesissimo Luigi Albertini molto più che a quelli promossi da l’Avanti! è fuori discussione; ma non mi sembra una ragione sufficiente per squalificare l’opera del primo padre del diritto del lavoro italiano con i toni sprezzanti usati da Umberto Romagnoli.
Quanto all’espressione “giuslavorista della lucchesia” utilizzata per indicare Giuseppe Pera, oltretutto nell’ambito di in uno scritto molto severo nei suoi confronti, credo che a nessuno sfugga la sua sfumatura di significato diversa rispetto a “giuslavorista lucchese”. Anche Umberto Romagnoli, credo, coglierebbe una stonatura se Francesco Santoro Passarelli venisse indicato come il “civilista del barese” perché è nato ad Altamura, o Luigi Mengoni come il “civilista del trentino” perché originario della provincia di Trento. Del resto, quanti colleghi giuristi gradirebbero di essere citati come il “costituzionalista del lodigiano”, o “il processualista del frusinate”, o oppure ancora “l’internazionalista del varesotto”? Ma questo è davvero l’ultimo dei problemi. (p.i.)