In Italia il peso dei contratti collettivi nazionali nella determinazione delle retribuzioni tende a renderle omogenee sul territorio; ma il costo della vita varia da luogo a luogo: lavorare nelle città comporta dunque una penalizzazione salariale in termini reali
Articolo di Marianna Belloc, Paolo Naticchioni e Claudia Vittori pubblicato sul sito lavoce.info il 3 marzo 2020 – In argomento v. anche, su questo sito, l’articolo di Tito Boeri del 18 luglio 2019, Legare gli standard retributivi al costo della vita è equo e necessario .
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Salari reali di chi lavora in città
La letteratura di economia regionale ha evidenziato che lavorare nei centri urbani è associato in media a un premio salariale, per motivi economici e per differenze nella qualità della vita a livello locale.
In un nostro recente lavoro, utilizzando i dati nell’ambito di un progetto VisitInps e altri dati dell’Agenzia delle entrate sui costi delle case, abbiamo studiato se il risultato rimane valido anche quando si guarda all’effetto combinato di due importanti caratteristiche del nostro sistema economico. Infatti, da un lato, la forte diffusione della contrattazione collettiva nazionale, a parità di contratto nazionale e inquadramento, tende a livellare i salari nello spazio, tra città di diversa dimensione. Dall’altro, il costo della vita (metodo di Enrico Moretti, 2013) varia significativamente sul territorio e cresce all’aumentare della densità urbana, con differenze che arrivano anche a 30-40 punti percentuali.
La figura 1 mostra l’andamento dei salari nominali di dipendenti e autonomi (collaboratori, sempre legati a una impresa) e dell’indice dei prezzi a livello locale rispetto alla densità urbana del sistema locale del lavoro (Sll) di riferimento.
I due gruppi non hanno a priori diverse preferenze per la qualità della vita, ma differiscono per le modalità con cui sono fissati i loro salari: quelli del primo gruppo sono determinati dalla contrattazione collettiva, quelli del secondo no. I redditi da lavoro dei collaboratori e l’indice del costo della vita hanno andamenti molto simili: il più alto costo della vita nelle aree ad alta densità tende a essere compensato da salari più alti. L’andamento dei salari dei dipendenti è, invece, decisamente più piatto, e ciò si traduce in penalizzazioni salariali in termini reali nelle grandi città e rendite nei centri meno agglomerati. Per i dipendenti, a parità di caratteristiche individuali e di impresa e a parità di contratto collettivo nazionale, i salari si riducono del 2,2 per cento al raddoppiare della densità urbana. Quindi, tra un sistema locale del lavoro di 100 mila abitanti e uno di 500 mila (1 milione) si osserva mediamente una riduzione dei salari in termini reali del 10,8 per cento (21,6 per cento).
Figura 1 – Andamento di redditi da lavoro di dipendenti e collaboratori e dell’indice del costo della vita rispetto alla densità di popolazione (per Sll)
Nota: Le variabili sono variazioni rispetto alla media nazionale imposta uguale a zero e sono depurate da caratteristiche di lavoratori e imprese.
Questioni di equità e di efficienza
Questa evidenza richiama l’attenzione su questioni di equità: lavoratori che svolgono lo stesso lavoro in luoghi diversi sono remunerati, in termini reali, in misura anche molto differente. Dal nostro studio si ricava anche che per i lavoratori delle città la penalizzazione salariale reale non è compensata da una maggiore probabilità di occupazione, a differenza di quanto si evince dal lavoro di Andrea Ichino, Tito Boeri, Enrico Moretti e Johanna Posch del 2019 con riferimento alle macroregioni italiane. Né si sta parlando di gabbie salariali, in quanto i differenziali salariali sono rilevanti anche all’interno della stessa provincia.
Ci sono poi questioni di efficienza: così com’è il sistema sembra poter limitare la distribuzione efficiente delle risorse, la mobilità e le sue stesse prospettive di crescita. Niente impedirebbe alle imprese più produttive delle grandi città di riconoscere salari più alti di quelli previsti dal contratto nazionale: la nostra analisi mostra però che ciò in media non accade.
Se l’interpretazione economica del fenomeno risulta relativamente chiara, molto più complicata è l’analisi normativa finalizzata all’introduzione di meccanismi volti a mitigare gli effetti perversi del sistema attuale, in termini sia di equità sia di efficienza.
Da anni si discute su come far tornare a crescere una produttività stagnante e di come legare salari e produttività. La diffusione del secondo livello di contrattazione “in melius” è cresciuta nel tempo, ma non molto. Quella “in peius”, invece, non è consentita. Su questo punto, le parti sociali sono allineate nel mantenere lo status quo e, tra le varie argomentazioni, vi è la questione della rappresentanza sindacale: in aree svantaggiate l’accordo del sindacato locale potrebbe siglato da controparti non rappresentative. L’argomento è molto rilevante considerando l’incidenza di piccole imprese caratterizzate da scarsa presenza sindacale. Sul tema della rappresentanza si registrano passi in avanti attraverso gli accordi tra Inps e parti sociali per misurare il dato associativo ed elettivo e attraverso il tavolo Inps-Cnel per individuare i contratti maggiormente rappresentativi. Ma la questione dovrebbe comunque riallacciarsi alle tematiche analizzate nel nostro lavoro, favorendo una discussione fra governo e parti sociali che tenga conto congiuntamente delle questioni di equità e di efficienza.