PERCHÉ LA RIVOLTA DEI RICERCATORI CONTRO LA VALUTAZIONE È SBAGLIATA

Esistono due soli modi per valutare la ricerca e la didattica: il “modello USA” nel quale la valutazione è fatta dagli studenti scegliendo l’università, e il “modello europeo”, nel quale è lo Stato a decidere i criteri da utilizzare per la valutazione e l’erogazione dei fondi – Rifiutarli entrambi non ha senso

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Articolo di Andrea Ichino pubblicato sul quotidiano
Il Foglio il 19 febbraio 2020 – In argomento v. anche, dello stesso A.I., Scappano i giovani che rifiutano l’appiattimento .
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Andrea Ichino

Alcuni professori universitari italiani, soprattutto delle discipline umanistiche, denunciano, in un appello apparso su www.roars.it, l’eccesso di burocratizzazione delle procedure di valutazione della ricerca universitaria previste dall’Anvur, l’agenzia che di questa valutazione si deve occupare. Hanno tutte le ragioni a combattere l’inutile macchinosità delle procedure che affogano il sistema universitario e l’Anvur farebbe bene ad ascoltarli. Ma il sospetto è che quello che a loro dà veramente fastidio sia essere valutati, indipendentemente dal modo.

Antonio Scurati, ad esempio, sulle pagine del Corriere lamenta “l’asservimento di ricerca e insegnamento a logiche di mercato”, afferma essere una menzogna (per “tutti noi docenti”) la “presunta” possibilità di un “sistema di valutazione oggettivo della conoscenza prodotta” e auspica un ritorno al principio Costituzionale secondo cui: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”.

Sono un professore universitario anch’io e non mi riconosco in queste affermazioni. Credo vi siano molti altri colleghi che la pensano come me ed è quindi opportuno, in primo luogo, avvertire l’opinione pubblica che non tutti i professori universitari sono d’accordo con Scurati e con i firmatari dell’appello contro l’Anvur, almeno per quel che riguarda l’opportunità di una valutazione.

Il motivo è semplice: siamo pagati dalle tasse dei cittadini e non vedo per quale motivo dovremmo essere liberi di fare ricerca che interessi solo a noi o che incrementi in modo insignificante l’ammontare di conoscenze che interessano a chi ci paga. O peggio, per quale motivo dovremmo poterci permettere di non fare alcuna ricerca e di non andare a far lezione, come purtroppo spesso accade nell’università italiana. A maggior ragione se le risorse non sono infinite (una premessa che forse quelli di Roars non condividono) e quindi se queste risorse possono essere utilizzate per costruire ospedali o creare nuovi posti di lavoro invece che per i nostri stipendi. Chiedo ai firmatari dell’appello se davvero pensano che a noi professori universitari possa essere concesso il diritto di fare quel che più ci piace senza alcun controllo e a spese di chi paga le tasse. Credo (o per lo meno spero) che non lo pensino, e quindi il problema non è se valutare, ma come valutare.

Che io sappia, esistono al mondo due sole modalità per valutare la ricerca. Quello che per semplicità possiamo chiamare il modello “USA” nel quale la valutazione è fatta dagli studenti, che scelgono le diverse università in base alla qualità percepita pagando le corrispondenti tasse universitarie, e dagli erogatori di fondi di ricerca, che decidono a chi darli in base a criteri da loro liberamente stabiliti. L’altro modello è quello “europeo”, nel quale è lo Stato a decidere i criteri da utilizzare per la valutazione e l’erogazione dei fondi.

Insieme a Daniele Terlizzese, nel nostro libro “Facoltà di Scelta” (Rizzoli) abbiamo espresso una preferenza ragionata per il “modello USA” (in cui le università possono anche essere pubbliche, come accade in California), proprio perché è difficile mettere tutti d’accordo sui criteri che lo Stato dovrebbe utilizzare nel “modello europeo”. I firmatari dell’appello di Roars, ad esempio, si scagliano contro l’utilizzo dei criteri bibliometrici per la valutazione della ricerca, ossia i criteri basati sulle citazioni ricevute dai libri e dagli articoli, oppure, nel caso degli articoli, sulle citazioni ricevute dalla rivista su cui l’articolo è uscito. Più in generale rifiutano il sistema della “peer review” anonima per valutare i prodotti di ricerca. Chi la pensa come me, invece, ritiene che questi sistemi, per quanto imperfetti, funzionino sufficientemente bene e che comunque una misurazione, per quanto imperfetta, di ciò che noi docenti facciamo sia necessaria a tutela della credibilità del sistema universitario stesso.

Anche perché non è chiaro in base a quale evidenza scientifica l’appello di Roars possa affermare che i sistemi bibliometrici sono “numeri e misure che di scientifico, lo sanno tutti, non hanno nulla e nulla garantiscono in termini di qualità della conoscenza”.  Ad esempio Régibeau and Rockett (“Research assessment and recognized excellence: simple bibliometrics for more efficient academic research evaluations”, Economic Policy, 2016), comparano con diversi metodi di valutazione un dipartimento di economia fittizio fatto solo di Premi Nobel, alcuni dipartimenti leader nel mondo e alcuni dipartimenti di università britanniche. La loro conclusione è che i metodi bibliometrici funzionano bene e soprattutto costano molto poco.

Se però è impossibile trovare un accordo su quali criteri lo Stato debba utilizzare per valutare la ricerca, abbandoniamo allora il sistema “europeo” di valutazione e passiamo a quello “USA”.  Se i colleghi di Roars vedono altre soluzioni le propongano, ma non possono continuare a criticare senza mai fare proposte alternative. Soprattutto non possono pensare di avere i vantaggi di un sistema universitario statale che li mantiene a vita, senza che chi paga possa sindacare su quel che fanno (o non fanno).

 

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