LA SINDROME DI BARBIANA E I LICENZIAMENTI

Alle radici culturali del Jobs Act e di alcuni orientamenti giurisprudenziali a esso drasticamente opposti: il mensile Mondoperaio pubblica un inedito di Giorgio Pecorini

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Articolo di Giorgio Pecorini risalente al 2012, ma rimasto inedito, in corso di pubblicazione sul numero di febbraio 2020 di
Mondoperaio, con la nota redazionale qui sotto riportata e la mia lettera inviata in risposta all’Autore – Nel testo dell’articolo i link alle mie interviste del novembre 2012 citate, nonché della lettera di don Lorenzo Milani a mio padre dell’11 maggio 1959, essa pure citataAl mio rapporto con il Priore di Barbiana è dedicato il quinto capitolo de La casa nella pineta.
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Nota redazionale di Mondoperaio – Giorgio Pecorini [qui a sinistra nella foto], giornalista laico ma vicinissimo a don Lorenzo Milani e curatore dei suoi scritti, oggi nonagenario, ha inviato questo suo articolo inedito, scritto all’epoca in cui era in gestazione il Jobs Act, a Pietro Ichino, che gli ha risposto con un breve commento. Pubblichiamo l’inedito e la risposta, come contributo al dibattito sulle radici culturali di quella riforma e sulle radici culturali, al tempo stesso, di alcuni orientamenti giurisprudenziali ad essa drasticamente opposti.

LA SINDROME DI BARBIANA E I LICENZIAMENTI

La sindrome di Stendhal, spiega Wikipedia, «è il nome di una affezione psicosomatica che provoca tachicardia, capogiro, vertigini, confusione e allucinazioni in soggetti messi al cospetto di opere d’arte di straordinaria bellezza»: e avverte che c’è anche una «sindrome di Gerusalemme, simile ma rapportata all’àmbito religioso, consistente nella manifestazione improvvisa di appassionati sentimenti e di un impulso a profferire espressioni visionarie». Bene. Ma l’enciclopedia più consultata al mondo va aggiornata d’urgenza, registrando pure «una sindrome di Barbiana rapportata all’àmbito sociale, e consistente – in soggetti messi al cospetto di comportamenti umani straordinari per impegno civile e coerenza etica – nella manifestazione improvvisa di appassionati sentimenti sindacali e di un impulso a profferire visionarie ipotesi educativo-pedagogiche». Esattamente quel che è accaduto ai due fratelli Pietro e Andrea Ichino annusando l’aria di Barbiana soffiata loro addosso dai genitori.

La pieve di Barbiana

La loro madre, Francesca Pellizzi, e Lorenzo Milani s’erano incontrati ragazzi al Liceo statale Manzoni di Milano negli ultimi anni trenta del 900. Divisi dalla guerra e dalle scelte di vita, s’erano ritrovati nel 1958 per via di Esperienze pastorali, il libro che Milani, fattosi prete e già confinato a Barbiana, aveva pubblicato quell’anno: e di cui Francesca, laureatasi in legge, si fa appassionata propagandista assieme all’avvocato Luciano Ichino, sposato nel ’46 e subito cooptato nello studio legale paterno. Nel giro di cinque anni nascono i primi tre figli, Maria Paola, Pietro e Giovanna. Andrea arriverà dieci anni dopo, quarto e ultimo.

Ecco perché nell’aprile del ’59 don Lorenzo chiede a Francesca di aiutarlo a organizzare il viaggio con cui vuol portare i primi sei ragazzi della sua scuola a scoprire Milano e il mondo. Lei mobilita un’amica, Elena Pirelli, che pur non essendo in città in quei giorni mette a disposizione un pulmino per gli spostamenti del gruppo e procura una visita al cantiere del grattacielo dell’azienda di famiglia, in costruzione. Durante quella visita i barbianesi leggono un cartello in cui si annuncia il licenziamento di un operaio che avendo acceso un fuoco in un lavandino ha rischiato di provocare un incendio pericolosissimo. Il fatto sconcerta i ragazzi, che la sera, guidati dal loro prete, ne discutono con gli Ichino nella cui casa sono ospiti; e alla discussione assiste anche Pietro, pressappoco loro coetaneo.

Autunno 2012: sono passati 53 anni, Pietro ne ha compiuti 63. È ormai un prestigioso docente giuslavorista, dopo un impegnato tirocinio da dirigente sindacale della Fiom e della Cgil durato un intero decennio, una prima esperienza parlamentare nell’VIII legislatura e una seconda nella XVI. Dal giorno dopo l’assassinio di Marco Biagi vive sotto scorta per le minacce di morte rivolte anche a lui dalle Br, dall’inizio della legislatura (2008) è parlamentare critico del Pd, di cui è cofondatore. Esperto autorevole e insieme accorto politico, sente il dovere di intervenire nell’aspra polemica sulla gestione Fiat di Sergio Marchionne. E lo fa con ben tre interviste nello stesso giorno, 3 novembre, a tre quotidiani: Il Secolo XIX, Europa, Il Foglio (da questa prendo i virgolettati), più una quarta su l’Unità, undici giorni dopo. Vuole mettere in evidenza la contraddizione probabilmente insanabile tra la realtà delle relazioni sindacali italiane e le leggi che le regolano.

Non si tratta di contesa giuridica ma di scontro culturale: e in sostanza etico

Comincia spiegando che nei due anni precedenti la Fiom aveva fortemente demonizzato il piano industriale proposto e poi attuato da Marchionne alla Fiat sulla base di un accordo aziendale sottoscritto invece dalla Fim-Cisl e dalla Uilm e ratificato dal referendum tra i lavoratori interessati. Gli attacchi della Fiom-Cgil – a suo avviso del tutto infondatamente – denunciavano in quel piano industriale la violazione di diritti fondamentali dell’uomo e pericoli gravi per la salute dei lavoratori; i militanti della Fiom-Cgil che Marchionne ora vuole licenziare hanno bruciato o impiccato in piazza pupazzi che lo raffigurano. In quel contesto, quest’ultimo sceglie di applicare con rigore la norma (articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori) che gli consente di non riconoscere alla Fiom-Cgil di costituire una rappresentanza sindacale in azienda, non essendo firmataria di alcun contratto collettivo applicato nell’azienda stessa; e probabilmente pratica anche qualche discriminazione ai danni dei cassintegrati iscritti alla Fiom-Cgil, privilegiando gli altri nel richiamo in servizio.

La scelta di Marchionne di non assumere lavoratori iscritti alla Fiom – sostiene Pietro Ichino – se «sul piano giuridico non la si può considerare una rappresaglia», è tuttavia «illegittima in quanto discriminazione nei confronti dei singoli lavoratori». Per altro verso, aggiunge, «la lettera dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori ammette che in fabbrica siano riconosciuti soltanto i sindacati firmatari del contratto collettivo applicato in azienda accettato dalla maggioranza dei lavoratori [senza che occorra verificare se lo abbiano fatto sotto ricatto, aggiungo io]. Marchionne non viola la legge quando cerca di praticare il modello di relazioni industriali “all’americana” che l’articolo 19 consente. Marchionne vuol far rispettare questa legge, la cultura italiana lo respinge […] e tende a espellerlo come un corpo estraneo».

Insomma, se capisco giusto, non si tratta di contesa giuridica ma di scontro culturale: e in sostanza etico. Ostinarsi a discuterne razionalmente è quindi inutile, come lo sarebbe illudersi di conciliare il dogma cattolico dell’indissolubilità del matrimonio col diritto civile al divorzio. La sola via percorribile resta quella di un compromesso serio fra le due visioni, col leale impegno reciproco a non tentare imposizioni, a non rivendicare legittimità esclusive. Tanto più nella contesa Fiat-Fiom, in cui «come sempre in questi casi ciascuna delle parti ha qualche ragione per accusare l’altra di qualche nefandezza»: la Fiom denuncia la discriminazione dei propri iscritti, la Fiat il rifiuto pregiudiziale e la criminalizzazione del proprio piano industriale.

Che fare concretamente, allora, per comporre la lite, nella nostra realtà politico-sindacale? Ichino lo sa: «Se fossi il ministro del Lavoro convocherei le parti per un tentativo di voltar pagina rispetto alla situazione assurda che si è determinata. E farei tutto il possibile per indurre la Fiom a firmare gli accordi aziendali di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, cessando le ostilità e ottenendo il riconoscimento dei propri rappresentanti in azienda. E per indurre la Fiat a rinunciare al licenziamento collettivo, risolvendo il problema con un contratto di solidarietà in attesa della congiuntura positiva». Ma Pietro Ichino non è il ministro del Lavoro (rifiutò quel posto quando gli venne offerto da Silvio Berlusconi nel 2008; fu invece il suo stesso partito, il Pd, per bocca di Matteo Orfini, a porre il veto quando Mario Monti lo propose nel novembre 2011): può dunque soltanto dare saggi consigli cavati dall’esperienza e fondati su intriganti ricordi.

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All’autobiografia esemplarmente ampia ed esplicita inserita nel suo sito manca tuttavia un episodio lontano, utile a far intendere meglio la sua proposta. Un episodio che rischia di far catalogare il senatore Ichino fra i giovani sessantottini traviati da quel mascalzone di don Milani [1]. Un episodio da lui stesso raccontato con disarmata sincerità nel 2001 sul n. 3 della Rivista italiana di diritto del lavoro. Per intenderlo bene occorre una sintetica premessa.

L’8 febbraio del 2001 la Sezione lavoro del Tribunale di Milano, applicando il famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, sentenzia non potersi licenziare per giusta causa un infermiere pur riconosciuto responsabile d’aver consigliato alcuni pazienti a rivolgersi a un altro ospedale più affidabile, e di averlo fatto in modo platealmente urlato. Il commento tecnico del giuslavorista Pietro Ichino, intitolato Il diritto opinabile, comincia così: «Questa sentenza del giudice milanese del lavoro non è né giusta né sbagliata: condividerne o no il contenuto dipende soltanto dal grado di disvalore che si attribuisce all’atto del licenziamento».

Poi, riassunti i fatti emersi nel processo e valutate le motivazioni con cui si dispone il ritorno al lavoro dell’infermiere licenziato, ripesca il remoto episodio autobiografico: «Io credo di capire bene lo spirito nel quale questa decisione è maturata, per avere vissuto con grande coinvolgimento personale l’epoca e la temperie politico-culturale nella quale sono nate le norme qui applicate dal giudice (l’art. 3 della legge 604 e l’art. 18 Statuto lavoratori). Un documento straordinariamente significativo di quell’epoca e di quella temperie – che per questo mi sembra utile segnalare qui pur trattandosi di un documento di natura privata – è una lettera che don Lorenzo Milani scrisse nel 1959, riferita a un episodio dei cui esiti ero stato diretto testimone insieme a lui e ai sei ragazzi della scuola di Barbiana che egli aveva portato in viaggio di istruzione a Milano: qualche giorno prima era stato licenziato un operaio che aveva imprudentemente acceso un fuoco in un lavandino, in un ambiente pieno di materiale molto infiammabile. Di quel licenziamento don Lorenzo aveva discusso con mio padre, il quale aveva messo in rilievo anche le ragioni dell’azienda. La lettera, dell’11 maggio ’59, si riferisce a quella discussione».

Il problema è che come ministro del Lavoro sarebbe troppo scomodo a tutti

Chi voglia leggersela quella lettera, davvero “documento di natura privata”, la trova in molti dei libri di e su Milani, e ora nella raccolta dei suoi scritti pubblicata nei Meridiani Mondadori nel 2017 (pp. 651-658). Qui bastano alcune delle righe trascritte da Ichino nel suo commento: “Il licenziamento del lavandino resta per me uguale a prima. Un atto feudale […] Ma ora son passati venti secoli e il nostro senso della fraternità evangelica è stato raffinato da Dio in mille maniere. Per cui oggi p. es. la pena di morte che S. Tommaso giustificava non trova più diritto di cittadinanza né nel nostro cuore né nel nostro cervello […] Ecco perché in un processo sommario come è ogni licenziamento io e i miei ragazzi siamo col licenziato e non udiamo ragioni”.

Quando gli tocca di assistere all’accesa discussione sul licenziamento tra il babbo e quel prete spalleggiato da sei ragazzetti di poco più grandi e tanto diversi da lui, Pietro Ichino ha compiuto 10 anni da un mese: ma l’impatto è tanto forte da segnarlo per la vita. È lui stesso a dirlo, e proprio nel commento a quella sentenza: «Nella concezione di don Milani, certamente condivisa dalla grande maggioranza del movimento sindacale, la gravità del licenziamento è quasi parificata a quella di una pena di morte […] Si devono trovare altri deterrenti contro [le più gravi] mancanze, altre sanzioni; ma togliere il lavoro a un operaio significa mettere alla fame una famiglia: è un atto incivile, a priori inaccettabile. Il legislatore del 1966 e del 1970 non ha fatto propria del tutto questa concezione del licenziamento, poiché altrimenti lo avrebbe vietato drasticamente. Ma la maggior parte dei sindacalisti a quell’epoca condivideva quella concezione; e tra essi mi colloco anch’io, che proprio per l’influsso esercitato su di me, fin da bambino, dall’insegnamento del priore di Barbiana entrai a vent’anni, non ancora laureato, nella Fiom-Cgil come sindacalista e per il sindacato lavorai a tempo pieno per dieci anni. Da quella concezione non poteva non essere profondamente influenzato anche il diritto del lavoro».

Neppure l’attenzione con cui il piccolo Pietro aveva seguito l’accesa discussione poteva sfuggire al priore di Barbiana: «Pietro mi è piaciuto moltissimo ed è piaciuto ai ragazzi per la schietta ammirazione e direi quasi invidia con cui li guardava», scrive agli Ichino il 26 aprile, due giorni dopo il ritorno da Milano. E ripete l’invito fatto a voce prima di partire: mandarlo un po’ alla sua scuola, dove il lavoro manuale in ogni forma ha la stessa dignità dello studio e fra una lezione e un còmpito si provvede a costruire gli arredi e alla manutenzione della casa. In cinque successive lettere don Milani insiste perché Pietro venga mandato a Barbiana, fin che glielo accompagnano per la prima volta, nel dicembre del ’61.

Sufficiente comunque a confermare il condizionamento del figliolo. Il quale oltre mezzo secolo dopo séguita a riconoscere insanabile il contrasto tra l’etica sociale insegnatagli dal Priore e il contenuto delle leggi che regolano i rapporti sociali concreti. Ma. nell’impossibilità di comporre il conflitto che ne deriva, suggerisce quel compromesso [Fiom firmi, Fiat non licenzi, ndr] che gli pare l’unico possibile e onesto; e che senza dubbi proporrebbe, se diventasse ministro del Lavoro. Nell’attesa, deve contentarsi di raccomandarlo, con tre interviste in un sol giorno. Perché, ribadisce, «quando un sistema delle relazioni industriali va in tilt è rarissimo che un provvedimento giudiziale abbia l’effetto di sbloccarlo. Lo si può escludere del tutto, poi, quando il provvedimento è inappropriato, come questo [imposizione alla Fiat dell’obbligo di inserire in produzione i 19 iscritti Fiom che hanno presentato il ricorso, n.d.r.] di cui si discute oggi, che genera conseguenze assurde», spingendo l’azienda a metterne in mobilità altrettanti, per evitare l’eccedenza di organico.

Se invece provasse a riprendere il discorso barbianese che tanto lo aveva coinvolto da bambino, mezzo secolo fa, sul licenziamento dell’operaio incendiario? Forse finirebbe col valutare in modo diverso la questione Fiat di oggi, a impostare ipotesi diverse di soluzione. Ipotesi possibile? In una successiva intervista all’Unità del 14 novembre 2012 Ichino racconta che Matteo Renzi gli ha chiesto di spiegargli il Codice del lavoro e di «lavorarci per il suo programma». E sostiene che la riforma Fornero, «primo passo significativo, anche se timido, nella direzione giusta», andrebbe semplificata: «59 articoli in tutto, scritti in modo chiaro chiaro e semplice [milaniano, a me vien da dire], traducibile in inglese», al posto della legge della suddetta ministra, «illeggibile, che aggiunge 100 pagine alle 2mila già esistenti nella nostra legislazione sul lavoro […] A tutti le protezioni fondamentali, a cominciare dalla protezione antidiscriminatoria, ma nessuno inamovibile. A chi perde il lavoro deve essere garantita la necessaria sicurezza economica e professionale. Si può fare da subito anche qui in Italia». Fosse ministro del Lavoro, Pietro Ichino lo farebbe sùbito. Il problema è che come ministro del Lavoro sarebbe troppo scomodo a tutti.

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[1] Tra i quali anche Vassalli, Berardi e altri.

 

Il mio commento, nella lettera di risposta a Giorgio Pecorini

Caro Giorgio, ti ringrazio dell’attenzione che mi dedichi. La realtà è che all’epoca in cui ascoltai le parole di fuoco di don Lorenzo Milani sul licenziamento come pena di morte irrogata senza processo, negli anni ’50, la legge non prevedeva neanche l’obbligo per il datore di contestare l’addebito al lavoratore, né di sentirlo a difesa prima di licenziarlo. Il sindacato non aveva alcun diritto all’interno delle aziende. L’indennità di disoccupazione era di trenta lire al giorno per poche settimane. Doveva passare ancora un decennio perché arrivasse lo Statuto dei Lavoratori. Doveva, poi, passare un quarto di secolo, prima che gli economisti del lavoro individuassero nel regime di job property (anche) una difesa degli insider nel loro conflitto di interessi con gli outsider. Se don Milani si trovasse oggi di fronte a quel conflitto, probabilmente si schiererebbe con gli outsider. Concordo comunque con te su un punto: quanto lui affermava in materia di licenziamenti, in quella lettera del 1959 a mio padre, era un principio essenzialmente di natura non giuridica, ma etica. Un grande abbraccio

Pietro Ichino

 

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