SULLA NUOVA DISCIPLINA LEGISLATIVA DEL LAVORO DEI RIDER

Una norma sbagliata, ancora legata alla cultura del lavoro del secolo scorso; applicare le tecniche protettive nate per il lavoro nei grandi stabilimenti industriali del Novecento ai platform workers equivale a mettere questa nuova forma di organizzazione del lavoro di fatto fuori legge

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Intervista a cura di Alessandro Di Stefano in corso di pubblicazione sul sito online
BC, novembre 2019 – In argomento v. il mio articolo pubblicato sul sito lavoce.info il 25 ottobre scorso
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Professor Ichino, che cosa pensa della nuova norma che qualifica senz’altro i ciclofattorini operanti in collegamento con le piattaforme digitali che smistano gli ordini, come lavoratori subordinati?
Ho spiegato in un articolo recente il motivo per cui considero questa come una norma sbagliata. È una norma ancora legata agli schemi e alla cultura del lavoro del secolo scorso, cioè al contesto della seconda e della terza rivoluzione industriale; ma i platform workers appartengono al XXI secolo, al contesto della quarta rivoluzione industriale. Applicare a questa forma di organizzazione del lavoro le tecniche protettive nate per il lavoro nei grandi stabilimenti industriali del Novecento equivale a mettere questa nuova forma di organizzazione del lavoro di fatto fuori legge.

Intende dire che è una norma che recherà un danno ai lavoratori che intende proteggere?
Non lo sostengo solo io: lo sostiene anche quel migliaio di rider che da ogni parte di Italia ha firmato l’appello contro il decreto che contiene la nuova norma.

Lei ha scritto che, di fronte a questa nuova norma, la soluzione è che i rider “si organizzino in un sindacato maggiormente rappresentativo nell’impresa per cui lavorano”. Per fare che cosa?
Per fortuna la nuova norma lascia aperta una “uscita di sicurezza”: consente, cioè, che un contratto collettivo stipulato da una coalizione sindacale maggioritaria, al livello del settore o a quello aziendale, disciplini il rapporto di lavoro anche in deroga rispetto alla legge. Questa è l’unica possibilità di evitare che la “camicia di Nesso” imposta dal decreto soffochi nuovo questo settore di attività produttiva.

Ma non pensa che la presenza di molti lavori stranieri complichi la situazione visto che moltissimi neanche parlano l’italiano?
Questo può costituire un problema in più sul piano dell’organizzazione sindacale. Ma non certo un problema insuperabile.

Resta il fatto che in molti casi i rider lavorano effettivamente in condizioni difficili, esposte a pericoli e retribuite poco.
È vero. Il contratto collettivo, sia esso di settore o aziendale, deve stabilire degli standard minimi di protezione economica e normativa accettabili. Ma deve farlo salvaguardando le peculiarità di questa forma di organizzazione del lavoro, non soffocandole. D’altra parte, si tratta di un’attività lavorativa a basso valore aggiunto, che dunque per propria natura non può che produrre una retribuzione di livello medio-basso. La vera protezione per le persone impegnate in questa attività che si propongono di migliorare il proprio livello di reddito non può consistere nell’imposizione di uno standard minimo superiore rispetto alla produttività del lavoro.

In che cosa può consistere, dunque?
Deve consistere nell’offrire loro servizi efficienti di informazione e orientamento circa le opportunità che il mercato offre e i percorsi possibili per accedervi. Oggi chi cerca una nuova occupazione nel mercato del lavoro italiano è lasciato solo, non ha a disposizione quel luogo che oltralpe chiamano OneStopShop, dove trova facilmente il Job Advisor che può tracciare il profilo delle sue aspirazioni, capacità attuali e potenzialità, indicargli gli sbocchi occupazionali possibili e guidarlo nel percorso necessario per raggiungerli.

Quali sono, invece, le principali responsabilità delle aziende della food delivery?
Si sono registrati dei casi di trattamento scorretto, soprattutto nei confronti di immigrati. E anche qualche caso qualificabile in termini di “caporalato digitale”. Ma sono casi isolati: in linea generale non mi sembra che si possano addebitare ai players maggiori del settore delle colpe gravi, tenuto conto del fatto che hanno fin qui operato in assenza di un quadro normativo chiaro e adeguato alla peculiarità del settore.

E quale potrebbe essere un buon quadro normativo, secondo lei?
Nell’ottobre 2017, quand’ero ancora in Senato, presentai un disegno di legge che prevedeva, in tutti i casi in cui i ciclofattorini non fossero ingaggiati mediante un contratto analogo a quello di lavoro subordinato, l’obbligo di corrispondere loro la retribuzione mediante la piattaforma istituita presso l’Inps per il lavoro domestico occasionale: in questo modo essi avrebbero avuto automaticamente l’assicurazione antiinfortunistica, pensionistica e sanitaria, e uno standard retributivo minimo. Il disegno di legge prevedeva anche il modo in cui lo standard orario doveva essere trasformato in relazione alla retribuzione a cottimo pieno. A quanto previsto in quel disegno di legge oggi aggiungerei una norma che dia a questi lavoratori la facoltà di accesso mediante tecnici di loro fiducia, sotto vincolo di segreto professionale, al sistema informatico che governa la piattaforma, estendendo a questa materia quanto previsto nell’articolo 9 dello Statuto dei Lavoratori per l’accesso dei lavoratori tramite tecnici di loro fiducia a qualsiasi dato inerente ai macchinari o alle sostanze utilizzate nel processo produttivo, in funzione della protezione dell’igiene e sicurezza del lavoro.

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