Riflessioni sui difetti gravi della politica sociale e del lavoro degli ultimi mesi e su quello che invece occorrerebbe fare, mentre in Lombardia parte la non facile cooperazione tra i neo-assunti co.co.co. di Anpal Servizi e le strutture pubbliche di servizio al mercato del lavoro
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Materiali per l’articolo-intervista a cura di Daniele Bonecchi, pubblicato sul quotidiano il Foglio il 7 novembre 2019: il testo dell’articolo segue in questo stesso post – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico del 4 novembre, Quegli 82,4 posti di lavoro da tempo scoperti ogni 100 disoccupati; ivi i link ad altri documenti e interventi sul tema delle politiche attive del lavoro.
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Professor Ichino, il reddito di cittadinanza, corredato dall’assunzione dei navigator, in qualche modo, è emendabile per adattarlo meglio alle esigenze del mercato del lavoro?
Il primo emendamento che proporrei sarebbe uno che riducesse drasticamente la qualificazione del RdC come misura di “politica del lavoro”. È un errore grave, dal momento che nella platea dei fruitori di questa forma di assistenza non sono più di un quarto quelli che hanno possibilità effettive di inserimento o reinserimento nel tessuto produttivo. La torsione del RdC in senso lavoristico è stata voluta soltanto per ragioni mediatiche, per mandare un po’ di fumo negli occhi dei contribuenti ai quali si stavano spillando sette miliardi per questa misura.
Beh, almeno per quell’altro quarto di “collocabili”, però, forse qualche cosa di utile sul fronte del lavoro si può fare.
Certo che sì, ma occorrerebbe farlo in modo molto più serio. L’esperienza dei Paesi più avanzati dice che la persona cui si eroga un trattamento di disoccupazione, sia esso a carattere assistenziale, come il RdC, o assicurativo, come la NASpI, deve essere “presa in carico” da una persona che la segue giorno per giorno, incoraggiandola, consigliandola e al tempo stesso verificandone la disponibilità al lavoro l’impegno nella ricerca della nuova occupazione. Poi, per aiutare il disoccupato a trovare la propria strada nel labirinto complicato e imperscrutabile del mercato del lavoro, occorre un buon servizio di orientamento professionale (Guidance service), che nei Paesi dove funziona è svolto da una figura, il job advisor, dotata di una robusta preparazione professionale, acquisita con due o tre anni di formazione post-laurea.
Non è proprio quello che dovrebbero fare i navigator?
Ma le sembra che – tranne rare eccezioni – i navigator abbiano quella robusta preparazione professionale specifica? Per formare lo staff di job advisor di cui ci sarebbe bisogno occorrerebbe che ciascuno di questi seguisse un percorso non breve di formazione specifica, comprensivo di uno stage di qualche mese nel nord-Europa in affiancamento a chi sa fare per davvero questo mestiere e lo esercita da anni.
Perché non si fa?
La politica italiana non è capace di un disegno di questo genere perché, operando in un regime di campagna elettorale permanente e con governi che hanno una durata media di un anno o anche meno, non è capace di darsi un orizzonte sufficientemente ampio.
Il modello Lombardia per la formazione e il collocamento è valido ed esportabile?
In Lombardia si sono fatte alcune cose buone, tra le quali la Dote Unica Lavoro, che si colloca nella stessa logica dell’“assegno di ricollocazione” introdotto dal Jobs Act e poi massacrato dal ministro del Lavoro Di Maio. E ha dato dei risultati discreti. Però l’attività dei Centri per l’Impiego in Lombardia è ancora quasi esclusivamente burocratica: non sono capaci di mediare tra domanda e offerta di lavoro, e neppure di interfacciarsi strettamente con la formazione professionale. Quanto a quest’ultima, i tassi medi di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi in Lombardia, pur non essendo infimi, restano tuttavia ancora largamente sotto il 50 per cento. Il modello a cui dovremmo guardare, se vogliamo restare a sud delle Alpi, è semmai quello dei servizi per il mercato del lavoro delle Province di Bolzano e di Trento.
Nell’ambito dell’autonomia amministrativa regionale o comunale è possibile pensare a strutture capaci di esercitare efficacemente la funzione del collocamento?
Pensarlo si può sicuramente. Occorrerebbero però amministrazioni capaci di varare su questo terreno programmi di ampio respiro, investendo su progetti destinati a incominciare a dare frutti soltanto tra qualche anno. Anche al livello regionale e comunale, invece, prevalgono ancora le promesse di palingenesi realizzabile in pochi mesi.
Milano può attingere dal patrimonio delle aziende private per costruire un percorso formazione-collocamento utile?
A Milano hanno il proprio head quarter tutte le maggiori agenzie private di servizi al mercato del lavoro; esse tuttavia fanno un mestiere in larga parte diverso da quello del collocamento pubblico. La loro presenza può comunque essere molto utile, consentendo all’amministrazione pubblica che volesse realizzare un servizio integrato di collocamento e formazione di attingere da quelle agenzie personale molto qualificato. Inoltre, con il sistema dei voucher erogati dall’amministrazione pubblica per finanziare la fruizione da parte delle persone di servizi erogati da privati, si può stabilire una sinergia molto fruttuosa tra l’una e gli altri. Su questo terreno Milano, intesa come Città Metropolitana, potrebbe fare molto di più. Soprattutto se riuscisse a mettere in stretta comunicazione tra loro in seno alla sua agenzia del lavoro – l’AFOL – i servizi di collocamento e i servizi di formazione professionale.
L’ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO
La pianura padana non e’ la Mancia di Miguel de Cervantes ma con un discreto impegno immaginifico il Pd regionale ha trovato i suoi mulini a vento da combattere: i navigator. “La Regione Lombardia è in ritardo sull’assunzione dei 720 nuovi addetti dei centri per l’impiego”, denuncia il Pd lombardo, argomentando che “la carenza di personale ha un impatto importante non solo sull’efficienza dei centri per l’impiego ma anche sull’attuazione del Reddito di cittadinanza che, senza il potenziamento dei Cpi, rimane privo della parte di collocamento e ricerca di opportunità lavorative”. Un reddito di cittadinanza, diventato improvvisamente “amico” che, nel bilancio del primo anno di attività ha dimostrato la sua totale inutilità nel collocamento e mille furbizie sul fronte dell’assistenza. Non solo perché, nel primo anno di vita, secondo quanto pubblicato dall’Osservatorio sul Reddito di Cittadinanza, sono complessivamente 1.460.463 le domande pervenute all’INPS, di cui 960.007 accolte, 90.812 in lavorazione e 409.644 respinte o cancellate, ma soprattutto perché, l’unica cosa che i navigator finora hanno potuto fare – laddove sono in effetti partiti con le attività – è stato aiutare gli impiegati dei centri per l’impiego a fissare i colloqui e a svolgere gli incontri. In Lombardia sono state accolte circa 37mila richieste: la metà di quelle pervenute. Risultati modesti. “Non sia una misura assistenziale”, ha intimato Attilio Fontana, durante l’incontro coi primi navigator selezionati dalla Regione. Insoddisfazione generale, dunque, ma il reddito di cittadinanza, corredato dall’assunzione dei navigator, in qualche modo, è emendabile per adattarlo meglio alle esigenze del mercato del lavoro? Il Foglio lo ha chiesto al giuslavorista Pietro Ichino, già senatore Pd, che ha avuto parte anche nella stesura del job act. “Il primo emendamento che proporrei sarebbe uno che riducesse drasticamente la qualificazione del Reddito di Cittadinanza come misura di “politica del lavoro”. È un errore grave, dal momento che nella platea dei fruitori di questa forma di assistenza non sono più di un quarto quelli che hanno possibilità effettive di inserimento o reinserimento nel tessuto produttivo. La torsione del Reddito di Cittadinanza in senso lavoristico è stata voluta soltanto per ragioni mediatiche, per mandare un po’ di fumo negli occhi dei contribuenti ai quali si stavano spillando sette miliardi per questa misura”. Sentenza definitiva quella di Ichino che, in una nota piuttosto allarmata del suo blog mette in luce le anomalie di una mancata liaison col mondo del lavoro: “Nella mia città, Milano per ogni 100 disoccupati ci sono 82,4 posti di lavoro da tempo scoperti per mancanza di persone in grado di ricoprirli. In tutta Italia le cosiddette situazioni di skill shortage sono 1,2 milioni: basterebbero per risolvere tutti e 160 i “tavoli di crisi” aperti al ministero dello Sviluppo e ancora ne avanzerebbe più del 90 per cento. Sono distribuiti in tutti i settori e a tutti i livelli professionali. Per fare soltanto qualche esempio tra i molti, cercano operai e non ne trovano i carrozzieri, i pasticceri, i supermercati per i reparti macelleria, le botteghe artigiane di tutti i settori. Più in su, c’è gran penuria diplomati di ITS (Istituti Tecnici Superiori), di informatici, di medici, di infermieri, di ingegneri, e l’elenco continua ancora a lungo”. Dunque siamo all’anno zero nel nostro Paese? “L’esperienza dei Paesi più avanzati dice che la persona cui si eroga un trattamento di disoccupazione, sia esso a carattere assistenziale, come il RdC, o assicurativo, come la NASpI, deve essere “presa in carico” da una persona che la segue giorno per giorno, incoraggiandola, consigliandola e al tempo stesso verificandone la disponibilità al lavoro e l’impegno nella ricerca della nuova occupazione. Poi, per aiutare il disoccupato a trovare la propria strada nel labirinto complicato e imperscrutabile del mercato del lavoro, occorre un buon servizio di orientamento professionale (Guidance Service), che nei Paesi dove funziona è svolto da una figura, il job advisor, dotata di una robusta preparazione professionale, acquisita con due o tre anni di formazione post-laurea”, spiega il giuslavorista. Non è proprio quello che dovrebbero fare i navigator? “Ma le sembra che – tranne rare eccezioni – i navigator abbiano quella robusta preparazione professionale specifica? Per formare lo staff di job advisor di cui ci sarebbe bisogno occorrerebbe che ciascuno di questi seguisse un percorso non breve di formazione specifica, comprensivo di uno stage di qualche mese nel nord-Europa in affiancamento a chi sa fare per davvero questo mestiere e lo esercita da anni”. Perché non si fa? “La politica italiana non è capace di un disegno di questo genere perché, operando in un regime di campagna elettorale permanente e con governi che hanno una durata media di un anno o anche meno, non è capace di darsi un orizzonte sufficientemente ampio”. Torniamo in casa nostra. La Regione, da anni, lavora ad un modello che sembra aver prodotto risultati utili. Il modello Lombardia per la formazione e il collocamento è valido ed esportabile? “In Lombardia si sono fatte alcune cose buone, tra le quali la Dote Unica Lavoro, che si colloca nella stessa logica dell’“assegno di ricollocazione” introdotto dal Jobs Act e poi massacrato dal ministro del Lavoro Di Maio. E ha dato dei risultati discreti. Però l’attività dei Centri per l’Impiego in Lombardia è ancora quasi esclusivamente burocratica: non sono capaci di mediare tra domanda e offerta di lavoro, e neppure di interfacciarsi strettamente con la formazione professionale. Quanto a quest’ultima, i tassi medi di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi in Lombardia, pur non essendo infimi, restano tuttavia ancora largamente sotto il 50 per cento. Il modello a cui dovremmo guardare, se vogliamo restare a sud delle Alpi, è semmai quello dei servizi per il mercato del lavoro delle Province di Bolzano e di Trento”. Milano, da sempre capitale del lavoro e della innovazione, può attingere dal patrimonio delle aziende private per costruire un percorso formazione-collocamento utile? “A Milano hanno il proprio head quarter tutte le maggiori agenzie private di servizi al mercato del lavoro; esse tuttavia fanno un mestiere in larga parte diverso da quello del collocamento pubblico”, precisa Ichino. “La loro presenza può comunque essere molto utile, consentendo all’amministrazione pubblica che volesse realizzare un servizio integrato di collocamento e formazione di attingere da quelle agenzie personale molto qualificato. Inoltre, con il sistema dei voucher erogati dall’amministrazione pubblica per finanziare la fruizione da parte delle persone di servizi erogati da privati, si può stabilire una sinergia molto fruttuosa tra l’una e gli altri. Su questo terreno Milano, intesa come Città Metropolitana, potrebbe fare molto di più. Soprattutto se riuscisse a mettere in stretta comunicazione tra loro in seno alla sua agenzia del lavoro – l’Afol – i servizi di collocamento e i servizi di formazione professionale”. Per ora resta un auspicio. Ichino, nella sua newsletter lo disegna così: “Un luogo dove ciascuno di loro (i giovani ndr) possa trovare chi lo informa su quegli enormi giacimenti occupazionali inutilizzati e sui percorsi formativi che possono darvi accesso. Sogno quel luogo: un grande salone a un passo dal Duomo, dentro City Life, a piazza Gae Aulenti, in cui ogni persona possa trovare un vero esperto capace di darle tutte le informazioni indispensabili per affrontare il labirinto del mercato del lavoro, delle sue opportunità e dei servizi necessari per accedervi”.
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