L’ITALIA PERDE UN GRANDE MAESTRO DEL DIRITTO DEL LAVORO, MA CONSERVA UN’EREDITA’ SENZA EGUALI. GINO GIUGNI HA RIVOLUZIONATO LA NOSTRA CULTURA GIUSLAVORISTICA LASCIANDOCI UN INSEGNAMENTO FONDAMENTALE: SOLO LA CAPACITA’ DI GUARDARE AVANTI SENZA CRISTALLIZARSI SU POSIZIONI RIGIDE RISPONDE ALLE COMPLESSE ESIGENZE DI UN MONDO SEMPRE PIU’ DINAMICO
Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 6 ottobre 2009
Scarica il testo dell’intervista a Gino Giugni citata nell’articolo (a cura di Pietro Ichino, pubblicata sulla Rivista italiana di diritto del lavoro, I, 1992, ora nel libro “Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana”, Giuffrè, 2008).
Per capire e apprezzare l’importanza del contributo che Gino Giugni ha dato al diritto del lavoro italiano occorre considerare lo stato in cui versava questa branca del diritto negli anni ’50. L’Italia, appena uscita dal ventennio fascista, non aveva affatto le idee chiare sulle possibili alternative al modello corporativo. Era ancora molto radicata la concezione del resto in parte recepita nell’articolo 39 della nuova Costituzione del sistema delle relazioni sindacali come appendice dell’ordinamento statale, da questo dipendente sotto ogni aspetto, regolata dalla legge in ogni elemento della propria struttura. Giugni era stato a studiare negli Stati Uniti, insieme a Federico Mancini; e ne era tornato con una concezione nuova del diritto e dello Stato, del ruolo creativo che in esso possono svolgere le formazioni intermedie e le associazioni sindacali in particolare, della necessità di coniugare lo studio del diritto del lavoro con quello dell’economia e della sociologia. Nella situazione di impasse in cui il diritto sindacale statuale venne a trovarsi negli anni ’50 in conseguenza delle difficoltà di attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, Giugni diede uno scossone salutare alla nostra cultura giuslavoristica mostrando come il sistema delle relazioni sindacali non avesse affatto bisogno della benedizione dello Stato per vivere e produrre risultati apprezzabili: come, cioè, esso fosse capace di fondare da sé, autonomamente, un proprio ordinamento giuridico (una lezione che ancor oggi troppo sovente viene ignorata).
Ma la lezione di Giugni non era certo nel senso della rassegnazione a una incapacità dell’ordinamento statuale di interagire positivamente con il sistema delle relazioni sindacali: fra l’uno e l’altro occorreva costruire un collegamento organico. Un collegamento che, per un verso, consentisse allo Stato di perseguire efficacemente una propria politica del lavoro, per altro verso non mortificasse la libertà creativa della contrattazione collettiva. Fu questo – soprattutto a far data dalla seconda metà degli anni ’60 – l’impegno principale di Giugni, in qualità di consigliere del ministro del lavoro socialista Brodolini nel corso della lunga gestazione dello Statuto dei lavoratori che avrebbe poi visto la luce, subito dopo l’“autunno caldo”, nel maggio 1970. Fra le due correnti giuslavoristiche dominanti – quella più vicina alla Cgil, tendente a un forte e compiuto intervento legislativo per la definizione dei diritti dei lavoratori, e quella più vicina alla Cisl, che teorizzava l’astensione del legislatore statuale come regola generale, in funzione della massima e più libera possibile espansione della contrattazione collettiva – fu Giugni a indicare la via della sintesi, facendo ricorso a una tecnica normativa destinata nei decenni successivi a rivelarsi efficacissima.
Lo Statuto del 1970 è forse la legge in materia di lavoro che ha prodotto la maggior messe di risultati coerenti con l’intendimento originario effettivo del legislatore; ma è anche una legge che ha lasciato al sistema delle relazioni sindacali una amplissima libertà di evoluzione e di adattamento alle nuove esigenze, nell’arco di tre decenni, dagli “anni ruggenti” dei consigli di fabbrica al “protocollo Scotti” del 1983, fino all’ultimo capolavoro dello stesso Giugni: quel “protocollo” del luglio 1993 che è stato lui stesso, qui in veste di ministro del Lavoro del Governo Ciampi, a ideare e a far accettare alle parti contrapposte. Quel “protocollo” (che è stato a buon diritto considerato per quindici anni come la “carta costituzionale” del sistema italiano di relazioni industriali) era destinato a costituire lo strumento decisivo per consentire all’Italia di vincere la sfida di Maastricht ed entrare coi primi nel sistema monetario europeo.
A causa del suo contributo alla scrittura dello Statuto dei lavoratori del 1970 Giugni ne è stato indicato come il “padre”. Ma questo non gli ha impedito di essere fra i primi a cogliere i segni del declino del mondo in cui lo Statuto era nato e a teorizzare la necessità di un adattamento ai tempi nuovi di tutto il diritto del lavoro, compresa la materia dei licenziamenti. Per favorire questo aggiustamento si è adoperato negli anni ’80 e ’90 in veste di presidente della Commissione lavoro del Senato prima, poi di presidente della Commissione di Garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici. Uomo-cerniera fra il movimento sindacale e le istituzioni democratiche, per questo i terroristi di sinistra nel 1984 lo colpirono con l’intento di ucciderlo, come avevano colpito Tobagi, Rossa, Tarantelli, e tanti altri; e come poi avrebbero colpito, molti anni dopo, Massimo D’Antona e Marco Biagi.
A conclusione di una intervista del 1992 (la si può leggere ora nel libro Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, Giuffrè, 2008) che ripercorre per quaranta pagine tutte le tappe precedenti della sua vita di ricerca e di lavoro politico, Giugni si definisce “uno studioso prestato alla politica”. Proprio per questo è stato un ottimo politico: perché non ha mai cercato il potere per il potere, ma lo ha sempre esercitato soltanto con l’intento di realizzare il modello di democrazia e di giustizia da lui stesso affinato in una vita di studio e di dialogo aperto con tutte le correnti culturali più vive e feconde.