UN ALTRO GIUDICE CONTRO LA NUOVA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI

Il Tribunale di Milano propone alla Corte di Giustizia Europea tre profili di contrasto della nuova norma sui licenziamenti collettivi con il diritto europeo – In un primo commento a caldo i motivi per cui ciascuna delle tre censure appare destinata a cadere

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Massime redazionali e testo dell’ordinanza del Tribunale di Milano 5 agosto 2019, seguita da un mio breve commento – In argomento v. anche il saggio di Giovanni Armone (già giudice del Lavoro del Tribunale di Roma), La giustizia e l’efficienza nelle tutele contro i licenziamenti illegittimi; inoltre il mio commento all’ordinanza del Tribunale di Roma 26 luglio 2017, che aveva sollevato la questione di costituzionalità della nuova disciplina dei licenziamenti davanti alla nostra Corte costituzionale, e il mio commento alla sentenza emessa dalla stessa Corte a seguito di quell’ordinanza

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L’ordinanza del Tribunale di Milano 5 agosto 2019

Confligge col divieto comunitario di discriminazione dei lavoratori assunti a tempo determinato la disciplina dell’art. 1 comma 2 del d.lgs. 23/2015, che applica le disposizioni del contratto di lavoro a tutele crescenti anche ai rapporti di lavoro instaurati a tempo determinato prima del 7 marzo 2015, successivamente convertiti in contratti di lavoro a tempo indeterminato.

Non è conforme ai principi comunitari di parità di trattamento e adeguata tutela avverso i licenziamenti ingiustificati la disciplina dell’art. 10 del d.lgs. 23/2015, che prevede – nei confronti dei lavoratori con contratto a tutele crescenti licenziati per riduzione di personale in violazione dei criteri legali o contrattuali di selezione dei lavoratori in esubero – una compensazione esclusivamente pecuniaria e soggetta a massimale.

 Scarica il testo integrale dell’ordinanza in formato pdf

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Un breve commento a caldo

La sede della Corte di Giustizia europea di Lussemburgo

A differenza del Tribunale di Roma, che nel 2017 sollevò la questione di costituzionalità dell’articolo 3 del d.lgs. n. 23/2015 davanti alla Corte costituzionale, il Tribunale di Milano si rivolge invece alla Corte di Giustizia di Lussemburgo, di fronte alla quale solleva una questione di conformità con il diritto europeo dell’articolo 10 dello stesso decreto. La norma denunciata prevede che ai lavoratori assunti o confermati in servizio successivamente al 7 marzo 2015, che siano stati coinvolti in un licenziamento collettivo ritenuto dal giudice irregolare, si applichi la nuova tutela esclusivamente pecuniaria (oggi un indennizzo compreso tra un minimo di 6 mensilità di retribuzione e un massimo di 36) e non quella reintegratoria.

La controversia da cui l’ordinanza trae origine – Nel caso specifico i 350 dipendenti di un’impresa in condizioni pre-fallimentari (poi effettivamente fallita) erano stati tutti licenziati, ma il Tribunale milanese e in seguito la Corte d’Appello avevano ritenuto i licenziamenti illegittimi per violazione dei criteri di scelta previsti dalla legge. Tutti i dipendenti interessati erano stati conseguentemente reintegrati in servizio, tranne una di loro, che era stata assunta a termine prima del 7 marzo 2015, poi stabilizzata dopo quella data. In questo caso avrebbe dovuto essere applicata la sanzione pecuniaria, a norma del secondo comma dell’articolo 1 del d.lgs. n. 23/2015, che ne prevede appunto l’applicazione “anche nei casi di conversione di contratto a termine successiva all’entrata in vigore del decreto”. Ma appunto su questa norma il giudice milanese prospetta un profilo di incompatibilità con la direttiva europea sul lavoro a termine n. 99/70, a norma della quale “Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive”.

La parità di trattamento a cui hanno diritto i lavoratori a termine – La tesi sostenuta nell’ordinanza è assai discutibile, innanzitutto perché, a ben vedere, la differenza di trattamento in questione riguarda la cessazione del rapporto di lavoro: cioè un aspetto del trattamento del lavoratore a termine sul quale vi è necessariamente, per definizione, una differenza rispetto al trattamento del lavoratore a tempo indeterminato. Se la direttiva europea vietasse la disparità di trattamento riguardo alla disciplina della cessazione del rapporto, essa vieterebbe il contratto a termine tout court.

Quand’anche, poi, potesse prescindersi dall’osservazione ora proposta, resterebbe da considerare la “ragione oggettiva” che ha mosso il legislatore a disporre l’applicazione della nuova disciplina nel caso di conversione di contratto a termine stipulato prima della sua entrata in vigore: l’esigenza ragionevolissima di incentivare la conversione stessa. A questo argomento il giudice milanese, nella motivazione dell’ordinanza, oppone l’osservazione che nei primi tre anni di applicazione della nuova disciplina dei licenziamenti “il risultato sperato, ossia l’aumento delle occupazioni stabili, si è rilevato del tutto deficitario. Senonché questa osservazione, quand’anche non fosse controvertibile sul piano metodologico – perché l’accertamento degli effetti di una norma sul piano macroeconomico richiede analisi molto più raffinate di quella proposta dal giudice –, non basterebbe comunque per determinare una sorta di “contrasto sopravvenuto” della nuova disciplina italiana dei licenziamenti con il diritto europeo. In un commento in corso di pubblicazione sulla Rivista Italiana di Diritto del Lavoro Guglielmo Burragato qualifica condivisibilmente questo iter argomentativo come “decisamente spiazzante: il Giudice si attribuisce un sindacato di merito a posteriori circa l’efficacia concreta del provvedimento legislativo, ossia una funzione che dovrebbe competere esclusivamente al legislatore. […] Indipendentemente dalla fondatezza o no di qualunque considerazione a posteriori circa i risultati sperati di una riforma legislativa, è chiaro che questi non possono essere conosciuti da nessuno al momento in cui quella riforma è introdotta: né dal legislatore né tantomeno dai lavoratori e datori di lavoro interessati, che su quella norma nondimeno debbono poter fare legittimo affidamento sin dal momento della sua entrata in vigore, indipendentemente dal futuro grado di raggiungimento dei risultati macroeconomici che il legislatore si era proposto con essa, pena altrimenti la totale incertezza del diritto ed anarchia giudiziaria”.

La differenziazione del trattamento in ragione del tempo di costituzione del rapporto –  Il secondo profilo di contrasto della disciplina “incriminata” con il diritto europeo, secondo il giudice milanese, riguarderebbe la disparità di trattamento tra i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, e quelli assunti dopo. Il motivo per cui la questione viene sollevata davanti alla Corte di Giustizia di Lussemburgo e non davanti alla nostra Corte costituzionale (nella foto qui a sinistra) sta nel fatto che quest’ultima ha già respinto, con la sentenza n. 194/2018, la analoga censura sollevata dal Tribunale di Roma. Così il Tribunale di Milano, invece di proporre la questione in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, la propone in riferimento all’articolo 20 della Carta dei Diritti Fondamentali della UE, a norma del quale “Tutte le persone sono uguali davanti alla legge”. Ma è probabile che gli stessi argomenti sui quali la nostra Consulta ha fondato l’ammissibilità della differenziazione di trattamento in ragione del tempo di costituzione del rapporto contrattuale motiveranno una decisione analoga della Corte di Lussemburgo.

La natura meramente pecuniaria della sanzione e il limite massimo dell’indennizzo – L’ordinanza in esame denuncia la non conformità al diritto europeo della sanzione meramente indennitaria comminata dalla nuova norma contro il licenziamento ritenuto dal giudice irregolare: un apparato sanzionatorio così strutturato si porrebbe in contrasto con la Carta Sociale Europea, e in particolare con il suo articolo 24, che attribuisce ai lavoratori licenziati senza giustificato motivo “un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”. Qui la motivazione dell’ordinanza fa propria l’interpretazione della norma europea proposta dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali nel caso Finnish Society v. Finland (decisione n. 106/2014). Va osservato al riguardo che quel Comitato è un organismo non elettivo, cui non competono funzioni giurisdizionali e tantomeno legislative, bensì soltanto funzioni di monitoraggio e osservazione delle modalità di attuazione delle norme della Carta. Non ha dunque alcun valore vincolante la sua opinione secondo cui le sanzioni di natura risarcitoria soddisferebbero i requisiti posti dall’articolo 24 soltanto se idonee a determinare una situazione altrettanto favorevole per la persona interessata, quanto quella in cui essa si sarebbe trovata se non fosse intervenuto il licenziamento.

La tesi del Comitato Europeo dei Diritti Sociali è già stata disattesa dalla nostra Corte costituzionale con la già citata sentenza n. 194/2018. E se ne capisce bene il motivo: se davvero il risarcimento senza massimale in caso di licenziamento ingiustificato o irregolare costituisse oggetto di un diritto fondamentale della persona, sarebbe inevitabile la sua estensione anche alle imprese di piccole dimensioni e ai rapporti di lavoro domestico e dirigenziale. Questa considerazione non ha trattenuto il giudice milanese dal sollevare la questione davanti alla Corte di Lussemburgo. Senonché l’accoglimento di questa tesi da parte della Corte europea appare estremamente improbabile, anche in considerazione del fatto che esso comporterebbe la costituzione in mora sotto questo profilo anche di quasi tutti gli ordinamenti degli altri 27 Paesi appartenenti all’Unione, dove l’indennizzo per il licenziamento ingiustificato è soggetto a limiti massimi nettamente inferiori rispetto a quello oggi vigente in Italia.

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