Difficile spiegare l’aumento dei sinistri mortali, sul piano nazionale ma soprattutto nella Regione Lombardia, se non nei termini di un deterioramento della qualità del tessuto produttivo – Poco plausibile, invece, la tesi di chi addebita la recrudescanza alla nuova disciplina dei licenziamenti
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Intervista a cura di Giampaolo Visetti pubblicata su la Repubblica il 14 settembre 2019 – In argomento v. anche Risorse ridotte per il nuovo Ispettorato Nazionale del Lavoro
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Centoquattro morti sul lavoro da inizio gennaio. Una strage che proietta la Lombardia al vertice nazionale degli incidenti, tra le aree più colpite d’Europa. Più di una vittima ogni due giorni. Dopo la tragedia di Arena Po, con i quattro allevatori sikh annegati in una vasca di liquame, il professor Pietro Ichino, docente alla Statale, ex sindacalista e tra i massimi esperti italiani in diritto del lavoro, lancia l’allarme: “Anche sulla sicurezza il sistema produttivo scivola verso il basso”. Tradotto: se quando si lavora si rischia troppo spesso di non tornare a casa, significa che l’intero impianto che genera ricchezza necessita di una capillare revisione. Da non considerare un costo, ma un investimento.
Professor Ichino, perché allora un sistema-impresa avanzato come quello lombardo non riesce a evitare una simile strage?
È un dato molto preoccupante e difficilmente spiegabile. Perché il tasso di infortuni sul lavoro più alto in Italia rispetto al resto di Europa veniva spiegato fino a ieri con il tasso più alto di lavoro irregolare e con l’indice di senso civico (civicness) diffuso più basso; ma per entrambi questi aspetti la Lombardia si piccava di essere, rispetto alle altre 19, una regione di avanguardia, non di retroguardia.
Pensa che la somma tra la crisi esplosa nel 2009 e la ripresa produttiva di quest’anno giochi un ruolo nell’aumento delle vittime?
La ripresa economica e delle attività produttive ha sicuramente un peso sull’aumento degli infortuni; ma anche per questo aspetto i conti non tornano, perché a nord delle Alpi la ripresa è stata più sostenuta che da noi. E nella prima metà di quest’anno in Italia il tasso di crescita è stato quasi coincidente con lo zero. Poi c’è un altro dato che sconcerta.
Quale?
Quello relativo alla ripartizione tra infortuni sul lavoro accaduti entro il perimetro dell’azienda e infortuni accaduti per strada. Sugli infortuni stradali la responsabilità colposa delle imprese datrici di lavoro è solitamente minore, perché esse possono far poco di più che controllare l’efficienza dei freni e delle gomme dei loro automezzi. Ebbene, per il 2018 risulta che nel periodo 1° gennaio-31 luglio ci sono stati 28 morti in strada e 55 in azienda, per un totale di 83 vittime; mentre per il 2019 risultano 26 morti in strada e 62 morti in azienda, per un totale di 88. In altre parole: gli infortuni mortali accaduti dentro il perimetro aziendale sono aumentati non solo in numero assoluto, ma anche in percentuale.
Sembrerebbe il segno di un peggioramento delle condizioni di sicurezza negli ambienti di lavoro.
Appunto. E questo è ancora più preoccupante se si considera che l’aumento della digitalizzazione e dell’automazione del processo produttivo, mentre influisce poco sulla sicurezza stradale, ha sicuramente, di per sé, un impatto positivo sulla sicurezza nelle aziende, soprattutto in quelle manifatturiere.
Cosa possono fare le aziende per garantire maggior sicurezza ai dipendenti?
I datori di lavoro devono innanzitutto prendere sul serio le misure generali di prevenzione previste dalla direttiva europea che regola la materia e dalla legge attuativa italiana. Troppo spesso, per esempio, l’obbligo di predisporre il documento di valutazione dei rischi viene vissuto come un adempimento burocratico inutile. Invece questo adempimento, se compiuto con l’attenzione e diligenza sostanziale dovuta, costituisce il cardine di un sistema moderno di prevenzione antinfortunistica.
Secondo i lavoratori, oggi nelle aziende domina un clima di paura: di perdere il lavoro, di perdere certe condizioni, di assistere alla stessa chiusura, o alla delocalizzazione, delle imprese. Pensa che questa pressione sia tra le cause dell’emergenza-sicurezza?
Se fosse così, avrebbe dovuto registrarsi un’impennata degli infortuni tra il 2010 e il 2014, quando la recessione ha morso in modo molto più brutale sul nostro tessuto economico. Invece, se non erro, in quel periodo si è registrato un calo.
Si parla però anche del clima di paura derivante dalla minore protezione contro i licenziamenti.
Questo mi sembra davvero pochissimo sostenibile, per diversi motivi. Innanzitutto, la riforma della materia dei licenziamenti è incominciata con la legge Fornero del giugno 2012, applicabile anche ai rapporti di lavoro già costituiti: se questa riforma avesse ridotto la propensione dei lavoratori a rispettare le misure di sicurezza, l’aumento degli infortuni avrebbe dovuto incominciare a vedersi già nel 2012 o nel 2013. Poi è venuta la norma del 2015, applicabile però soltanto ai rapporti di lavoro nuovi; ora, non c’è alcuna evidenza che l’aumento degli infortuni di cui stiamo parlando riguardi soltanto rapporti di lavoro costituiti da poco tempo. Ma, soprattutto, risulta che in Italia la probabilità di essere licenziati non è aumentata né dopo il 2012, né dopo il 2015: al contrario, è rimasta pressoché inalterata.
Sugli incidenti può incidere anche la voglia dei dipendenti di mostrarsi più efficienti, di produrre di più e di assicurarsi compensi più alti?
Sì. Ma perché mai questa voglia dovrebbe essere sensibilmente aumentata nell’ultimo anno?
Pensa che sanzioni più dure, penali e civili, possano contribuire ad arginare la strage quotidiana che si consuma nei luoghi di lavoro?
Francamente, no: il nostro apparato sanzionatorio è perfettamente in linea con quello esistente in tutti gli altri Paesi della UE.
Ma allora, che cosa si può fare per guarire questa piaga?
Non è con l’inasprimento delle pene – Beccaria insegna – che si supplisce ai danni prodotti, semmai, da carenze sul terreno amministrativo e della cultura diffusa. Occorre innanzitutto investire molto di più sullo sviluppo e radicamento in tutti i luoghi di lavoro di una cultura moderna della sicurezza. Questo in Italia è più difficile che altrove, per via della dimensione media delle imprese, assai ridotta rispetto agli altri Paesi europei. Ma occorre investire molto di più anche sull’apparato ispettivo, riqualificandolo e impegnandolo soprattutto nei segmenti più a rischio, che sono quelli delle imprese agricole, di quelle edili e di quelle manifatturiere medio-piccole.
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