Non si vede perché un insegnante a Reggio Calabria debba guadagnare quasi il doppio, in termini di potere d’acquisto, di un insegnante a Milano – I test Invalsi ci dicono che a queste retribuzioni più alte in termini reali non corrisponde certo una migliore qualità dell’istruzione
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Articolo di Tito Boeri, pubblicato su la Repubblica il 18 luglio 2019 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico La fuga dei professori dal Nord.
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Le elezioni del marzo 2018 ci avevano consegnato un’Italia spaccata a metà, con la vittoria delle rappresentanze di due blocchi sociali contrapposti. Da una parte i lavoratori e i pensionati del Nord, rappresentati da un centro-destra dominato dalla Lega, dall’altra i disoccupati e i sotto-occupati del Sud che avevano votato massicciamente per il Movimento 5 Stelle. La coalizione che ha dato vita all’attuale governo ha messo insieme queste due rappresentanze e, a detta di molti commentatori, ha avuto il partito vincente al Nord come forza trainante. Eppure l’agenda di governo sin qui ha del tutto ignorato le istanze del blocco sociale settentrionale.
Non c’è stata la flat tax, gradita al Nord dove i redditi nominali sono più alti e c’è però anche un più elevato costo della vita. Una tassazione fortemente progressiva può spingere un contribuente verso uno scaglione fiscale più alto, anche se il suo reddito reale, misurato tenendo conto del potere d’acquisto, non è superiore a quello di chi paga aliquote più basse in zone dove il costo della vita è più contenuto. Anni fa, quando l’inflazione era a due cifre, si parlava spesso del cosiddetto fiscal drag. Ora anche i sindacati hanno smesso di evocarlo, ma c’è ancora, ed è immenso, fra province italiane dato che il costo della vita a Milano è quasi due volte quello di Reggio Calabria.
Non c’è stata l’autonomia votata nei referendum in Lombardia e Veneto. Si è, su questo piano, in altissimo mare non tanto per le divisioni nella maggioranza quanto perché un Governo centrale non potrà mai accogliere quella che è di fatto una richiesta di Statuto Speciale da parte delle Regioni che generano un terzo del reddito nazionale.
“Quota 100” non ha affatto smantellato la Fornero, non è certo la “quota 41” invocata dal blocco sociale del Nord. Contrariamente a quanto più volte sostenuto dal sottosegretario Durigon, comporta penalizzazioni attuariali per chi fruisce di questa opzione anziché aspettare la vecchiaia o la pensione anticipata. Non a caso, la propensione a prendere quota 100 è stata più alta al Sud, dove molti arrivano alla pensione dalla disoccupazione.
Il blocco sociale del Nord ha mal digerito il Reddito di Cittadinanza che va per il 60% a persone che vivono al Sud e che incoraggia chi ha lavori part-time o a salari bassi nel Mezzogiorno a non lavorare dato che per ogni euro guadagnato si perde un euro di sussidio (auguri ai navigator!).
Non sappiamo quali siano i motivi di questo tradimento degli elettori del Nord. Forse anche la Lega ha scelto di puntare sull’elettorato del Sud perché più mobile di quello settentrionale e quindi in grado di cambiare le maggioranze nel Paese. Forse è la classe dirigente del partito del Nord ad essersi meridionalizzata. Oppure sono entrambe le cose. Fatto sta che oggi il Nord non sembra avere più una rappresentanza, un proprio partito territoriale. Si è creato uno spazio che, prima o poi, qualcuno è destinato ad occupare.
È possibile riempire questo spazio evitando di contrapporlo a quello del Sud, unificando anziché dividere il Paese, in nome dell’equità tra persone, non di quella presunta tra Regioni (peraltro quelle del Sud spendono tra il 10 e il 15% in meno di quelle del Nord, pro-capite). Non si vede perché un insegnante a Reggio Calabria debba guadagnare quasi il doppio, in termini di potere d’acquisto, di un insegnante a Milano. I test Invalsi ci dicono che a queste retribuzioni più alte in termini reali non corrisponde certo una migliore qualità dell’istruzione e al Nord si faticano a trovare gli insegnanti per iniziare l’anno scolastico. Ci vuole più trasparenza su questi trasferimenti di risorse pubbliche che appaiono del tutto iniqui. Perché l’Istat non pubblica i dati, di cui dispone, sul costo della vita nelle diverse province italiane o, meglio ancora, nei mercati del lavoro locali? Il datore di lavoro pubblico potrà, sulla base di queste informazioni, contrattare coi sindacati la graduale introduzione, di compensazioni per il maggiore costo della vita in alcune aree del paese, allineando maggiormente le retribuzioni reali, quelle che guardano al potere d’acquisto di quanto si guadagna, fra diverse parti del paese. Può fare leva su un argomento molto forte: è un paradosso che il principio dello “stesso lavoro=stesso stipendio” venga disatteso in modo così palese proprio dove il sindacato è più forte.
Il pubblico impiego è solo una piccola parte del nostro mercato del lavoro, ma da sempre incide anche sulla contrattazione nel privato. Questa oggi genera salari relativamente bassi al Nord e disoccupazione al Sud perché porta in molti casi a salari reali più alti dove la produttività è più bassa. Salari reali meno diseguali nel pubblico impiego saranno perciò apprezzati non soltanto, come è ovvio, dai lavoratori del Nord, ma anche dai disoccupati e sotto-occupati del Sud, che oggi non riescono a trovare un lavoro regolare, anche quando hanno un buon titolo di studio in mano. E contribuiranno a ridurre quello spreco di risorse umane che oggi pesa come un macigno sulla crescita del nostro Paese.
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