Un collega dalla Campania contesta la mia proposta di differenziare i minimi tabellari in funzione degli indici regionali del costo della vita, al fine, quanto meno, di parificare i minimi stessi in termini di potere d’acquisto effettivo
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Lettera del prof. Mario Rusciano pervenuta il 9 luglio 2019, in riferimento al mio editoriale telegrafico del giorno precedente, I professori in fuga dal Nord – Seguono la mia risposta, un suo nuovo intervento del 17 luglio e una mia breve replica – In argomento v. anche l’intervento del prof. Canio Lagala del marzo scorso, Il Sud, il Nord e il fare parti uguali fra disuguali, e l’articolo di Tito Boeri su la Repubblica del 18 luglio 2019, Legare gli standard retributivi al costo della vita locale è equo e necessario .
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Caro Pietro, qualche telegrafica riflessione, da parte di un anziano cittadino del Sud, sul tuo editoriale telegrafico di ieri: “bentornati al Sud”. Che anzitutto si rivela scritto da chi al Sud non ha mai vissuto e non vive (come pure gli autori che vengono citati).
1) La magra retribuzione – troppo magra: su questo concordo – di un professore di scuola, trasferitosi a insegnare al Nord, è soltanto una delle cause della sua richiesta di rientrare al Sud. Se una persona ha deciso di accettare una cattedra al Nord, non trovando occupazione al Sud e abbandonando il coniuge (che al Sud lavora) e i figli (che al Sud studiano), è probabile che voglia tornare per “ricongiungimento familiare”. Come dire: per un po’ ha fatto sacrifici guadagnando poco, ma con la speranza di occupare, appena possibile, una cattedra al Sud.
L’alternativa sarebbe il trasferimento dell’intera famiglia con mille altri intuibili problemi (a parte gli affetti familiari, per quel che rilevano). E difatti ormai molte persone si trasferiscono al Nord da giovani – un tempo dopo la laurea, ora anche prima – per integrarsi, magari sposarsi e fare figli. Vi si trasferiscono cioè in modo definitivo e tornano al Sud – se pure – solo per le vacanze e vedere vecchi amici e la famiglia d’origine.
2) Non è affatto vero che la vita al Sud sia molto meno cara che al Nord. Tutto dipende da come si fanno i conti. Tu – e gli economisti da te citati – avete calcolato i costi dovuti ad assenza e inefficienza di servizi pubblici essenziali?
Se io, uscendo di casa, non ho un mezzo di trasporto pubblico e sono costretto a prendere un taxi (a me succede tre o quattro volte al giorno) è da calcolare oppure no nel costo della vita? Se io, dovendo fare un’indagine clinica e non potendo aspettare alcuni mesi il servizio pubblico, sono costretto a rivolgermi al privato, è da calcolare oppure no nel costo della vita? Se una madre non può portare il suo bimbo al nido (perché il nido non esiste) ed è costretta a pagare una baby sitter se vuole lavorare, è da calcolare oppure no nel costo della vita? E poi: sei al corrente del caro-affitti, per esempio, anche a Napoli e nella sua affollata area metropolitana?
3) Prendere spunto dalla richiesta di alcuni docenti di ritrasferirsi al Sud per sottolineare l’esigenza di differenziare le retribuzioni e, a questo fine, addirittura per mettere in discussione l’importanza del contratto collettivo nazionale mi pare francamente poco pertinente. Sai benissimo che questo contratto stabilisce soltanto i minimi di trattamento economico e normativo e rinvia ai contratti decentrati varie materie, tra le quali gli eventuali aumenti retributivi.
Il problema da te (e da molti altri) lamentato, ammesso e non concesso che davvero esista, potrebbe dunque essere risolto in altro modo, evitando la forzatura di connettere problemi che, a mio parere, sono diversi da molti punti di vista. La problematica, lo so, è molto più ampia e complessa, con implicazioni su vari piani. Tanto da richiamare sentimenti che forse né tu né io vogliamo riaffiorino dal profondo (il tuo leghismo e il mio borbonismo). Specie in questo momento, nel quale si dibatte sul c. d. “regionalismo differenziato” o “rafforzato”, nel quale si vorrebbe far rientrare scuola, sanità e quant’altro. Perciò mi fermo qui. Del resto vogliamo entrambi essere telegrafici (pur sapendo che avremmo, al riguardo, molto più da dire). Grazie dell’attenzione e tanti cari saluti
Mario Rusciano (Napoli)
LA MIA RISPOSTA
Ringrazio vivamente il collega Mario Rusciano di questa lettera, che prosegue un dialogo avviato da quella del prof. Canio Lagala e dalla mia risposta, seguita da quella del prof. Mario Grosso del marzo scorso, Perché la maggior parte dei dipendenti pubblici provenienti dal Sud vogliono tornarci. Già da quest’ultima può trarsi una prima risposta alle osservazioni del prof. Rusciano; esse colgono certamente una parte della verità, ma evidentemente non tutta: altrimenti non si spiegherebbe quello che il prof. Grosso descrive. Né si spiegherebbe l’assoluta sovrabbondanza di candidature di persone del Sud per il ruolo di docente nelle scuole pubbliche.
Aggiungo soltanto che nel calcolare la differenza del costo della vita al Sud rispetto al Nord l’Istat tiene conto di un “paniere” rappresentativo di tutto l’insieme dei beni e servizi necessari per vivere, attribuendo a ciascuno di essi il peso appropriato; ed è corretto che in questo calcolo al costo della casa, gravante sulla famiglia mese per mese, venga attribuito un peso maggiore rispetto al costo di servizi sanitari straordinari, ai quali si deve ricorrere con frequenza media molto minore. Quanto al costo del servizio di accudimento dei figli piccoli, è vero che al Nord ci sono più asili-nido che al Sud, ma è anche vero che costano molto, mentre per converso al Sud il costo di un servizio di baby-sitting è di fatto nettamente inferiore rispetto al Nord (in questo settore la differenziazione salariale interregionale è già una realtà). In ogni caso mi sembra che non bastino le osservazioni del prof. Rusciano per squalificare radicalmente l’intero servizio svolto dall’Istat, di rilevazione, calcolo ed elaborazione degli indici regionali del costo della vita.
Chiedo comunque al collega Rusciano: nell’ipotesi in cui tra l’Istat e lui avesse ragione l’Istat e dunque tra le regioni italiane sussistesse effettivamente una rilevante differenza del costo della vita, egli manterrebbe la sua posizione di rifiuto di una differenziazione dei minimi tabellari retributivi nominali, in funzione almeno di una parificazione dei minimi tabellari retributivi stessi in termini di potere d’acquisto effettivo?
Quanto alla contrattazione periferica in materia retributiva, che M.R. indica come possibile fonte di riequilibrio interregionale del potere d’acquisto effettivo delle retribuzioni, essa opera nel settore privato, ma non nel settore della scuola pubblica, dal quale il mio articolo I professori in fuga dal Nord prendeva le mosse.
Osservo, infine, che non può costituire un requisito necessario per studiare con competenza questo problema il fatto di abitare o avere abitato al Sud. Viceversa, quanto osservano Tito Boeri e i suoi co-autori nel loro saggio, poi sintetizzato nel loro articolo ripreso su questo sito, mostra credibilmente come un problema di grave squilibrio tra regioni di uno stesso Paese – quale quello di cui qui stiamo discutendo – possa essere affrontato con successo, con adeguate politiche economiche e del lavoro. Non abbiamo alcun serio motivo per rifiutare un confronto approfondito con l’esperienza tedesca. (p.i.)
LA PAROLA DI NUOVO A MARIO RUSCIANO
Caro Pietro, ti ripeto che il mio non voleva essere altro che uno “sfogo telegrafico” ex tempore, non destinato alla pubblicazione. Infatti non aveva un taglio scientifico, ma tendeva solo a segnalare che forse, in certi discorsi, occorre tener conto di vari altri aspetti della realtà sociale per valutarne le implicazioni (a parte dubbi e perplessità che sempre suscitano le statistiche e i sondaggi, in materia di prezzi, costo della vita ecc.). Anche queste poche righe non vogliono essere una replica bensì una semplice chiarificazione (anche perché non so, ti confesso, quanto costa la baby sitter, del Nord o del Sud).
Ritengo che il tuo pensiero sul maggior costo della vita al Nord – pensiero molto diffuso e non privo di qualche fondamento – corra alle vecchie “gabbie salariali” per arrivare a conseguenze (non so se volute o non volute) ben più ampie, complicate e preoccupanti (almeno per me, che sono un convinto difensore del contratto nazionale, oltre che dell’unità dei lavoratori e della forte coesione del paese).
Riassumo, sempre telegraficamente e in maniera non esaustiva, quali potrebbero essere, a mio parere, i passaggi concatenati: non da sviluppare hic et nunc, ma da considerare piuttosto titoli di eventuali paragrafi di un ipotetico scritto. Li metto in fila nel modo seguente:
a) eliminazione del contratto collettivo nazionale, sostituito dal c. d. “contratto di prossimità” (territoriale o aziendale), che mi pare già abbastanza in voga;
b) aumento delle disuguaglianze sia tra i lavoratori sia tra le aziende (non solo tra Nord e Sud, ma pure tra le categorie professionali; all’interno dei settori produttivi; tra aziende con maggiore o minore presenza e forza sindacale ecc.);
c) aggravamento del dumping sociale e relative conseguenze anche sui mercati (già oggi in alcune aziende c’è il c. d. Welfare aziendale, che taluni imprenditori guardano con qualche diffidenza);
d) maggiore frammentazione sindacale e minore controllo, all’occorrenza, dell’eventuale conflittualità;
e) ulteriore destrutturazione del sistema del diritto del lavoro, già in atto e con effetti imprevedibili.
Il problema della differenza del costo della vita può senz’altro essere risolto attraverso la contrattazione decentrata (specie territoriale), nell’ambito dei rinvii del contratto nazionale, cioè nel quadro di un ordinato sistema di contrattazione collettiva. La quale, per me, rimane l’unica autorità salariale, per così dire. Del resto si sa che i contratti aziendali in atto già prevedono trattamenti diversificati: in base alla produttività e/o al merito.
Seppure il sistema è diverso tra “pubblico” e “privato”, non mi pare impossibile che anche nel “pubblico” si preveda il rinvio, da parte del contratto nazionale, alla contrattazione decentrata per un aumento retributivo legato al costo della vita (una sorta di…. “scaletta mobile”).
Due osservazioni finali. 1) E’ evidente che un ordinato sistema di contrattazione presuppone anzitutto il riordino, ad opera delle stesse organizzazioni rappresentative degli interessi contrapposti – logicamente in autonomia – del sistema medesimo: attraverso la riduzione e la razionalizzazione dei troppi contratti collettivi nazionali attualmente in vigore. 2) Sorprende che, in presenza dell’aspirazione, persino a livello europeo – ribadita dal nuovo Presidente della Commissione UE Ursula Van der Leyen – di omogeneizzare i minimi salariali (e forse, in prospettiva, per quanto consentito, anche normativi), si voglia una differenziazione e una più accentuata disuguaglianza dei trattamenti tra Nord e Sud dell’Italia. Forse per allinearsi alla c.d. autonomia regionale differenziata e rafforzata, che rischia di spaccare il paese grazie a quella che alcuni economisti hanno chiamato “la secessione dei ricchi”?
Grazie dell’attenzione e tanti cordiali saluti
Mario Rusciano
UNA BREVE REPLICA
Se la preoccupazione è quella di non alterare la struttura attuale della contrattazione collettiva, la determinazione dei minimi tabellari in termini di potere d’acquisto effettivo, invece che in termini nominali, può essere compiuta anche direttamente dal contratto collettivo nazionale. Quanto al progetto di un salario minimo europe0, esso non è neppure pensabile senza una differenziazione territoriale dello standard retributivo che tenga conto non soltanto del costo della vita, ma anche di altri dati di geografia economica, primo tra i quali la produttività del lavoro. In proposito vale la pena di leggere anche l’articolo di Tito Boeri, Legare gli standard retributivi al costo della vita è equo e necessario.
La discussione, comunque, è apertissima: spero che altre voci si aggiungano su questo tema. (p.i.)
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