LA SFIDA TRA INTELLIGENZA UMANA E INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Il lavoro umano non soltanto non si ridurrà sul piano quantitativo, ma prevarrà ancora a lungo sul piano cognitivo rispetto a quello delle macchine; tuttavia aumenteranno le differenze di valore del lavoro e quindi la disuguaglianza tra le persone

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Trascrizione della mia relazione introduttiva, degli interventi che vi hanno fatto seguito e delle mie risposte, nel corso della giornata di studio promossa presso l’Università di Bergamo dalla Fondazione Zaninoni l’8 novembre 2018 – Di questa stessa relazione sono online su questo sito anche le slides, nonché la videoregistrazione realizzata e messa in onda da Radio Radicale
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Pietro Ichino

Ringrazio l’Università di Bergamo e la Fondazione Zaninoni dell’invito; e ringrazio Pia Locatelli per questa presentazione, forse troppo lusinghiera.

Il programma della mia relazione si articola in queste parti:

slide n. 2

  1. nella prima mi propongo di rispondere alla domanda se la prospettiva che abbiamo di fronte è davvero quella della fine del lavoro. Non è una domanda retorica. Nel 1995 nel saggio documentato dell’autorevole economista e sociologo Jeremy Rifkin [1], intitolato molto significativamente La fine del lavoro [2], a questa domanda si dava una risposta positiva, affermando che si sarebbe andati verso un mondo senza lavoro umano, o quanto meno un mondo in cui il lavoro umano sarebbe diventato un privilegio per pochi, ultra specializzati, o un lavoro da schiavi privo di qualsiasi contenuto intellettuale, nei bassifondi del tessuto produttivo. La mia opinione è che Rifkin abbia avuto solo un merito: quello di favorire o addirittura sollecitare, con il suo saggio, una ingente quantità di studi successivi, svolti – a mio avviso – con maggior rigore scientifico, i quali hanno portato a dare a questa stessa domanda una risposta molto diversa.
  2. La domanda successiva cui mi propongo di dare una risposta è se vincerà l’intelligenza artificiale o l’intelligenza umana. In altre parole, al di là della questione del tasso di occupazione, chi avrà la meglio, chi comanderà nel tessuto produttivo futuro: l’uomo o il robot? Osservando, poi, la questione in modo più concreto: quali capacità, quali attitudini continueranno a essere richieste alla persona umana? E infine, su quali tra le attitudini richieste vogliamo maggiormente puntare e investire?
  3. Infine, vi proporrò una riflessione su quello che non solo io ma anche altri studiosi di scienze sociali indichiamo come “il rovesciamento del paradigma del mercato del lavoro”: un prodotto di enorme rilievo, sul piano del sistema delle relazioni industriali, della evoluzione tecnologica a cui stiamo assistendo e di un insieme di sue conseguenze che indichiamo sinteticamente e collettivamente con l’espressione “globalizzazione”.

La globalizzazione non è un singolo fatto, è un insieme, una rete di fatti che ha connotato gli ultimi decenni e che ha condotto a un brusco aumento della mobilità: persone, informazioni, merci, beni, si spostano con maggiore facilità e altrettanto si muovono capitali, idee e movimenti di idee. Proprio in questi mesi, in questi giorni, riscontriamo come eventi politici per qualche aspetto straordinari abbiano qualcosa che li lega al livello globale. Accadono le stesse cose, o quanto meno fatti che hanno tra loro una notevole analogia, a tutte le longitudini e latitudini: si pensi al voto per la Brexit in Gran Bretagna, all’elezione di Donald Trump alla Presidenza degli USA, all’elezione di Jair Bolsonaro in Brasile, al nuovo Governo M5S-Lega in Italia. Allo stesso modo sta verificandosi in tutto il mondo un cambiamento profondo del paradigma fondamentale del mercato del lavoro. Siamo stati abituati da una tradizione culturale – che ha le sue radici nella prima rivoluzione industriale, quindi nell’Ottocento e primi del Novecento – a considerare il mercato del lavoro come un luogo dove è solo l’imprenditore a scegliere i propri collaboratori e il lavoratore deve prendere quello che gli si offre, sempreché glielo si offra, senza discutere. Nel mondo globalizzato le cose vanno sempre meno così. Sempre più, invece, si assiste a un fenomeno apparentemente nuovissimo (in realtà meno nuovo di quanto appaia): non soltanto i singoli lavoratori sono sempre più diffusamente in grado di selezionare e scegliere l’impresa presso cui lavorare, ma anche interi paesi, o collettività di lavoratori sono in grado di selezionare e ingaggiare l’imprenditore cui affidare un’azienda, tra una vasta pluralità di interlocutori. Il mercato del lavoro globale è ora un luogo dove non sono solo gli imprenditori che scelgono i propri collaboratori, ma è anche il collettivo dei lavoratori di una zona depressa, di un comune, di un’azienda in crisi, a ingaggiare l’imprenditore in grado di valorizzare meglio il loro lavoro.

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slide n. 3

Incominciamo con la prima parte della mia esposizione cioè se la prospettiva che abbiamo di fronte è davvero la fine del lavoro. Oggi siamo continuamente colpiti da notizie riportate in modo anche superficiale da giornali, media, televisioni, che affermano che il Centro Studi, il futurologo Tale o il sociologo Talaltro hanno studiato il lavoro del futuro, e affermano che fra 30 o 40 o 50 anni il 35, il 47 o il 54 per cento (non si sa come facciano a stabilire queste percentuali) delle mansioni che oggi si svolgono non esisteranno più; oppure che chi nasce oggi farà in nove casi su dieci un lavoro che oggi non esiste… : notizie che ci impressionano molto.

slides n. 4-5

Ma se all’inizio del secolo scorso ci avessero detto qualcosa di analogo, per esempio che le lavandaie – ce n’erano intorno a un milione –, oppure i tessitori, gli operai delle catene di montaggio, i contadini (allora due/terzi della forza lavoro italiana) …, tutte queste figure di lavoratori sarebbero sparite o si sarebbero drasticamente contratte, avremmo pensato che ci avrebbe atteso un secolo di disoccupazione totale. In realtà cosa è accaduto? È accaduto che il progresso tecnologico ha fatto sparire la lavandaia, i tessitori, i contadini, i lampionai, i maniscalchi, i cocchieri e tanti altri vecchi mestieri…, ma ha poi riconvertito il lavoro di tutte queste persone in altre mansioni, per lo più meno faticose e meno pericolose o dannose per la salute. Il problema non è – o per lo meno non lo è stato fin qui – la riduzione dell’occupazione determinata dal progresso tecnologico; il problema è stato semmai quello di assistere le persone che perdevano un posto di lavoro obsoleto e divenuto improduttivo, sostenendole nel percorso verso il nuovo.

slide n. 6

Si obietta che riconvertire una lavandaia o un tessitore a un nuovo mestiere è molto più facile che riconvertire un neurochirurgo, al quale un robot abbia rubato il lavoro. È vero; ma oggi siamo di fronte a un fenomeno qualitativamente nuovo. Vi porto come esempio quello del robot che sostituisce il neurochirurgo “mani d’oro”, un neurochirurgo unico nel Sud Europa in grado di fare un’operazione sul cervello. È più o meno ciò che è accaduto quattro anni fa all’Istituto Europeo di Oncologia, centro di eccellenza nella cura dei tumori alle porte di Milano, dove è entrato in funzione un robot-chirurgo in grado di eseguire una serie di operazioni sul cervello meglio del chirurgo “mani d’oro”, con aperture di entrata nella scatola cranica molto più piccole e con esiti post-operatori nettamente migliori. Cito questo caso perché è paradigmatico di quello che sta accadendo in centinaia di casi analoghi: il robot ha consentito e consente di effettuare questa operazione non più soltanto presso l’Istituto Europeo di Oncologia, ma anche in altri ospedali periferici adeguatamente attrezzati, con neurochirurghi di medie capacità che imparano a usare il robot e si abilitano a compiere questa operazione. Un servizio medico che fino a quattro anni fa era riservato ad una élite ristretta di malati – pochissimi rispetto alla quantità di persone che ne avrebbero avuto bisogno – oggi diventa un servizio che si può offrire all’intera platea dei potenziali interessati. È una enorme dilatazione dello spazio di lavoro, dove il neurochirurgo “mani d’oro” non perde affatto il posto di lavoro, ma ne modifica radicalmente i contenuti: altri colleghi gli chiedono corsi per imparare ad usare il robot e in più è sempre necessaria la presenza di un neurochirurgo per controllare ciò che il robot esegue; c’è inoltre da considerare che ogni ospedale periferico che offre questo nuovo servizio ha bisogno di aiuti medici, infermieri, lettighieri, posti letto … Ciò a cui si assiste alla fine è un netto aumento della domanda di lavoro in questo settore: altro che “fine del lavoro”!

Questo è solo un esempio; ma se considerate che nel mondo dei servizi sanitari, dei servizi d’istruzione, dell’attività di ricerca scientifica non c’è limite all’aumento possibile della domanda, se considerate che oggi l’evoluzione tecnologica è in grado di mettere questi servizi a disposizione di miliardi di persone, vi potete facilmente convincere che non corriamo il rischio di rimanere senza lavoro. Così come sta accadendo per l’operazione al cervello, qualcosa di molto analogo sta accadendo in tanti altri settori.

slides n. 7-8

Questa è la storia dell’impatto dell’evoluzione tecnologica sul mercato del lavoro. Ce lo confermano anche i numeri, i dati di cui disponiamo: nel 1977, quarant’anni fa, c’erano 19 milioni di italiani occupati nel mercato del lavoro, oggi sono 23 milioni. In 40 anni di intenso, crescente e accelerato progresso tecnologico, il tasso di occupazione non è diminuito bensì è aumentato. Se invece del dato relativo agli ultimi quarant’anni vi dessi quello stimato relativo all’ultimo secolo, il confronto sarebbe ancora più impressionante: il numero degli occupati in Italia nell’ultimo secolo è aumentato di molto, eppure in questo lasso di tempo è sparito il 90-95% dei mestieri che si esercitavano all’inizio. Quello di cui dobbiamo preoccuparci non è che le persone restino senza lavoro: gli italiani in età attiva sono oggi 39 milioni (nel diagramma se ne vede la ripartizione), ma saranno 36 milioni nel 2035, 33 milioni nel 2045, 31 milioni nel 2050, 30 milioni nel 2060. Sono proiezioni Istat: se il trend demografico non cambia, se non ci mettiamo a fare più figli, se l’Italia mantiene il suo assetto attuale, le cose andranno proprio così. Il vero problema del nostro futuro prossimo non è l’eccesso di robot, ma la mancanza di italiani al lavoro. Non dimentichiamo che il nostro sistema pensionistico è stato messo in equilibrio con la riforma del dicembre 2011 sul presupposto che la base produttiva rimanesse almeno invariata. Se invece la tendenza si confermerà questa che il grafico ci mostra, non ci sarà legge Fornero capace di tenere in equilibrio il nostro sistema pensionistico: esso andrà a gambe all’aria anche prima del 2060.

slide n.9

Affrontiamo ora la seconda la domanda a cui la mia esposizione si propone di dare almeno un accenno di risposta: quale sarà la domanda di lavoro umano nel prossimo futuro, dal punto di vista qualitativo? Cosa possiamo immaginare, che cosa ci dicono le linee di tendenza?

slide n. 10

Tutto sembra indicare che aumenterà la domanda nel settore delle cure mediche e paramediche, perché un numero esponenzialmente crescente di persone al mondo – compresa l’Italia – chiederà servizi che oggi neppure esistono ma che sarà possibile tecnicamente offrire a tutti. Poi crescerà la domanda di insegnamento e diffusione della cultura, di ricerca e diffusione delle conoscenze, di assistenza a persone anziane e persone non autosufficienti. Questo è un settore dove la tecnologia potenzia il lavoro umano: l’assistenza che richiede competenze specialistiche può essere resa da un assistente di media preparazione non specialista, poiché le nuove tecnologie consentono di organizzare un servizio capillare esteso a tutti, con competenze attraverso il collegamento a distanza. E ancora crescerà la domanda di cura dell’ambiente naturale, di vigilanza per la sicurezza delle persone e cose … e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Questa è una serie di esempi di settori nei quali non c’è limite al bisogno di lavoro umano e sarà sempre più necessario un lavoro umano assistito dai computer, dalla telematica, forse assistito anche dall’automazione, dal robot.

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slide n. 11

A questo punto si pone la domanda: potenzialmente c’è lavoro per tutti, d’accordo, ma sarà un lavoro buono o cattivo? Quanti saranno in grado di approfittare dello shock tecnologico e di compiere un upgrading, una crescita professionale, una crescita di conoscenze che consenta loro di utilizzare le nuove tecnologie? Questo è un problema grave. Già oggi assistiamo a un aumento delle disuguaglianze tra lavoratori forti e lavoratori deboli, dove per forti si intendono i lavoratori capaci di “saltare sul tram” – o se preferite “sul treno ad alta velocità” – dell’evoluzione tecnologica, per deboli quelli che non ne sono capaci. L’aumento delle disuguaglianze che si misura in modo impressionante – non è un fatto soltanto italiano, ma planetario – non è dovuto solo a questo: è dovuto anche a un aspetto della globalizzazione che vede i lavoratori dequalificati dei Paesi in via di sviluppo entrare in concorrenza con i lavoratori poco qualificati del mondo più ricco: ciò indebolisce la parte dei lavoratori meno qualificati, li mette in difficoltà, poiché la concorrenza fa abbassare i prezzi. Nella fascia bassa le condizioni  tendono effettivamente a peggiorare e il rischio rilevante è che questa polarizzazione si aggravi. Il problema non è la fine del lavoro, ma quanto le persone saranno capaci di prendere per sé la parte buona del lavoro che offre l’evoluzione tecnologica; oggi c’è un rischio molto maggiore rispetto a trenta-quarant’anni fa che una parte della popolazione non riesca a cogliere questo cambiamento, a “salire su questo tram”.

slide n. 12

Il vecchio sistema di protezione del lavoro rischia di diventare una trappola. È necessario, oggi, considerare che il ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate e delle strutture produttive, persino l’obsolescenza dei prodotti stessi è enormemente accelerata rispetto ai decenni passati; è un ritmo che trenta-quarant’anni fa si misurava in decenni – sicontava in decenni il tempo necessario perché una macchina per cucire o una macchina per scrivere diventasse obsoleta e sostituita da qualche cosa di radicalmente diverso – mentre oggi lo si misura in mesi.

Ora, se il ritmo di obsolescenza delle strutture produttive e delle tecniche applicate accelera in questo modo, spingere e aiutare le persone ad aggrapparsi con le unghie e coi denti al vecchio lavoro vuol dire cacciarli in un vicolo cieco. Noi non ci rendiamo conto di un errore che commettiamo quotidianamente, nel nostro Paese, un errore che qualcuno teorizza invece come modo giusto di affrontare i problemi occupazionali: difendere le strutture esistenti anche quando tutto indica che queste strutture non reggono più il ritmo di evoluzione del sistema, incoraggiare i lavoratori a rimanerci aggrappati facendone addirittura una questione di etica sociale (si mobilitano i sindacati, i giornalisti, la stessa Chiesa: le Pastorali diocesane del lavoro incoraggiano i lavoratori a rimanere aggrappati all’azienda che minaccia di chiudere… ). La soluzione non può essere quella di tenere in vita con la respirazione artificiale quell’impresa – magari facendole sconti sulle tasse e sulle retribuzioni, perché per tenerla in vita i lavoratori vengono invitati a decurtarsi le retribuzioni – quando in Italia abbiamo permanentemente a disposizione una platea di mezzo milione di situazioni di skill shortage [3] (stima fatta sulla base dei dati Unioncamere Excelsior e altri studi), cioè posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per mancanza di persone con le attitudini adatte. Sono almeno 500.000 i posti di lavoro che si potrebbero ricoprire senza bisogno di nuovi investimenti, salvo l’investimento in formazione: le imprese li offrono senza chiedere agevolazioni o riduzioni di retribuzione; e per la maggior parte sono posti di lavoro a qualificazione media o alta. La filiera della meccatronica manca drammaticamente di operai del duemila – che devono essere dei diplomati di istituto tecnico, se non addirittura dei laureati triennali – operai del futuro che devono saper usare internet, il computer, dominare il processo produttivo. È evidente che non si formano questi lavoratori in quattro e quattr’otto, ma certamente la soluzione non è tenere in piedi a tutti i costi l’impresa decotta o lasciare che chiuda mantenendo i lavoratori per anni e anni in Cassa integrazione: questo è un modo sbagliato di difendere l’occupazione e di sostenere i lavoratori nel mercato del lavoro.

Il nuovo sistema di protezione dovrà essere centrato sul diritto a una formazione efficace, un’espressione questa che può sembrare una formula vaga, mentre ha un significato molto preciso e concreto: formazione efficace significa una formazione di cui si possa conoscere preventivamente il tasso di coerenza con lo sbocco occupazionale probabile. Come fanno i Paesi più avanzati del nostro a rilevare il tasso di coerenza? C’è una anagrafe degli iscritti ai corsi di formazione – un po’ come l’anagrafe scolastica che consente alla Fondazione Agnelli di misurare l’efficienza e l’efficacia dell’istruzione secondaria con il suo osservatorio Eduscopio – si prendono i dati dell’anagrafe della formazione, li si incrociano con i dati delle comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro e si misura al millimetro quanta occupazione coerente con la formazione impartita ciascun centro di formazione ha prodotto. Ci sarà il centro buono che avrà l’80-90% di esiti positivi, quello meno buono il 50-60%, quello cattivo il 20-25% o persino meno. È un dato molto concreto. Quando si parla di diritto alla formazione efficace, si intende principalmente diritto a conoscere qual è la formazione efficace e quale non è, conoscerlo per tempo.

È indispensabile avere un servizio di orientamento scolastico e professionale che fornisca questi dati, capillarmente, a ogni adolescente all’uscita di ogni ciclo scolastico. Di ciascuno devono essere studiate le attitudini e le aspirazioni, per poi informarlo sui corsi che realmente possono soddisfare quelle aspirazioni e valorizzare quelle attitudini: questo è l’orientamento scolastico e professionale, non l’open-day o le due ore in aula magna con qualcuno che parla genericamente ai ragazzi di quinta del mercato del lavoro. Così è attualmente strutturato l’orientamento scolastico nel nostro Paese, anche in Lombardia, regione che pure è più avanzata di altre sul terreno dei servizi al mercato del lavoro.

Il diritto a una formazione efficace passa attraverso un monitoraggio rigoroso, severo, della qualità della formazione impartita, eseguito senza pietà. I centri di formazione con il tasso di coerenza del 20-30%, ma anche del 40%, vanno chiusi. Perché non li chiudiamo? La prima ragione è che non abbiamo a disposizione questi dati: le Regioni si rifiutano di attivare questo meccanismo, materia di competenza esclusiva delle regioni, perché le Regioni mettono al primo posto l’interesse degli addetti anziché l’interesse degli utenti; e tra gli addetti metto anche gli assessori regionali alla formazione che preferiscono avere mani libere nell’amministrazione dei grandi flussi di finanziamento ai centri di formazione, piuttosto che vedersi vincolati a un dato oggettivo di efficacia dei singoli corsi. Il discorso vale anche per la scuola: abbiamo un sistema di formazione e di educazione che mette al primo posto l’interesse degli addetti e non l’interesse degli utenti. Il diritto a una formazione efficace significa principalmente rovesciare questo paradigma, mettendo al centro l’interesse di lavoratori e imprese.

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slide n. 13

Veniamo ora all’altra domanda: quale lavoro? E chi vince la partita? L’intelligenza artificiale o l’intelligenza umana, l’uomo o il robot? Di questo si discute moltissimo, a volte in modo poco serio, in altri casi con studi interessantissimi, con gruppi di ricerca che mettono insieme tecnologi, filosofi, scienziati del settore delle neuroscienze. Il panorama della letteratura prodotta da questo insieme di studi non consente, però, a tutt’oggi, di dare una risposta né in un senso né nell’altro, se ci riferiamo al lungo periodo.

slide n. 14

Che cosa sarà della gara tra l’uomo e la macchina nel 2100? Non lo sappiamo, non possiamo dirlo con sicurezza. Una cosa, però, possiamo dire con buona certezza: ci sono ottime ragioni per ritenere che almeno nel medio termine – mi riferisco anche alle vite dei più giovani in questa sala – l’intelligenza umana resterà nettamente superiore, avrà degli spazi nei quali non temerà alcun confronto con l’intelligenza artificiale. Perché? L’intelligenza che manca ai robot è per esempio l’empatia, la capacità di mettersi nei panni altrui. I robot sono privi dei neuroni-specchio, cioè di quei neuroni che fanno sì che soffriamo quando vediamo soffrire o gioiamo quando vediamo gioire. Conseguentemente, un’intelligenza che manca ai robot è l’intelligenza sociale, la capacità di capire, conoscere le dinamiche collettive. I robot non hanno, e non avranno ancora a lungo, la capacità di riconoscere il talento delle persone e le sue potenzialità al di fuori delle caselle individuate burocraticamente. I robot non hanno, e difficilmente avranno nel breve periodo e nel medio, la capacità di promuovere le interferenze organizzative e l’uscita dagli schemi, quando invece l’economia del futuro sarà un’economia caratterizzata dal successo delle organizzazioni capaci di generare e promuovere l’uscita dai vecchi schemi.

slide n. 15

Il fatto è che oggi l’intelligenza artificiale funziona grazie a un miliardo circa di transistor che consumano molta energia; mentre l’intelligenza umana può contare su circa centomila miliardi di sinapsi cerebrali, che per attivarsi consumano pochissima energia. Gli scienziati che si occupano di intelligenza artificiale riconoscono che siamo ancora lontanissimi dal produrre qualcosa paragonabile al cervello umano. Questo significa però che dobbiamo essere capaci di valorizzare il nostro cervello, dono di natura straordinario, certo inferiore alle macchine nel puro e semplice calcolo, ma imbattibile su molti altri terreni di importanza decisiva.

slide n. 16

L’intelligenza artificiale è ancora lontanissima, come si è detto, dal produrre l’empatia, sia essa intesa come il sapersi mettere nei panni di un’altra persona singola, sia come il sapersi mettere in sintonia con una collettività, un gruppo scolastico, aziendale, civile o di altro genere. Al personale direttivo, al capo-squadra, al coordinatore si chiederà una empatia cognitiva: la capacità di capire dal di dentro i profili personali e inventare incentivi riferiti alla capacità di interazione tra le persone, e al tempo stesso anche una empatia emotiva, ovvero la capacità di gestire le conflittualità identificandosi con ciascuna delle parti. Un’azione che solo noi umani sappiamo compiere.

slides n. 17-18

Per capire le dinamiche collettive, le scienze sociali – soprattutto l’economia, la sociologia, ma ora anche il diritto – attingono sempre di più al patrimonio di conoscenze teoriche prodotto dalle neuroscienze; allo stesso modo devono attingervi i responsabili della gestione delle risorse umane. Sarà necessario riconoscere e valorizzare il talento delle persone non dando per conosciute le loro capacità sulla base dell’accertamento iniziale all’atto dell’assunzione, e del conseguente inquadramento in una casella professionale, ma consentendo loro di esprimersi nel lavoro anche al di fuori di quella casella: un aspetto importante di quell’“uscire dagli schemi” cui facevo riferimento prima, che significa anche aprire spazi di contendibilità delle funzioni, che è l’esatto contrario dell’approccio burocratico.

slide n.19

In questo mondo in continua e rapida evoluzione, nessuno deve considerarsi titolare di una funzione per sempre: ciascuno deve potere essere sfidato dal più giovane, dall’outsider che ha idee nuove, una capacità nuova di affrontare i vecchi problemi. Per essere contendibili, i ruoli devono essere comunicanti tra loro: occorre incoraggiare la circolazione delle informazioni delle idee nuove, le interferenze funzionali, le autocandidature alle nuove funzioni ma anche alle vecchie. Troppo spesso abbiamo un sistema aziendale – mi riferisco anche, anzi potrei dire soprattutto, al nostro sistema scolastico – nel quale la contendibilità della funzione didattica è pari a zero, nel quale non c’è alcun incoraggiamento a candidarsi alla funzione svolta dall’insider da parte dell’outsider.

slide n.20

Nel nuovo mondo sarà invece sempre più necessario che questo accada. È evidente che questo potrà creare una situazione di per sé più ansiogena: chi lavora è più sereno se sa che nessuno gli contende la funzione, con un diritto soggettivo che nessuno glielo tolga per la vita intera. Anche l’outsider, del resto, vive più tranquillo se sa che quella porta gli è irrimediabilmente chiusa; sapere che si potrebbe accedere a quella funzione, che ci si può mettere in grado di farlo, genera ansia, stress, significa chiedersi: “ma forse devo far qualcosa di più, forse val la pena fare qualcosa, investire qualcosa di più”. Dobbiamo sapere che nel futuro, proprio per la maggiore rapidità richiesta, le nuove strutture produttive – se vorranno eccellere – dovranno praticare la contendibilità delle funzioni, mettere in atto questa mobilità. Saranno strutture che genereranno maggiore ansia negli addetti: questo è in qualche misura inevitabile, a meno che non si preferisca la tranquillità di un elettroencefalogramma piatto. Se vogliamo entrare nel mondo da protagonisti, è necessario costruire la sicurezza delle persone non sull’ingessatura del posto di lavoro, non sulla garanzia del posto a vita, della non-contendibilità della funzione, ma sulla sicurezza, il sostegno, l’assistenza efficace nella transizione dal vecchio al nuovo lavoro: questa è la sicurezza del futuro. Se si saprà costruire un sistema che dia sicurezza non tanto nel singolo posto, quanto nel mercato del lavoro, l’ansia del lavoro ci sarà, ma sarà compensata da una sicurezza riguardo al proprio futuro economico, alla disponibilità della strumentazione necessaria per poter accedere al nuovo lavoro a cui si aspira.

Questo significa che è indispensabile realizzare qualcosa che in Italia oggi non c’è, qualcosa che vede l’Italia molto indietro rispetto ai maggiori partner europei: in Italia, il sistema della formazione e dell’educazione non è responsabilizzato in relazione ai risultati, non è misurato nella sua efficacia, non è caratterizzato da alcuna contendibilità della funzione; è un sistema opaco e non reattivo, è un sistema che funziona male, non idoneo a garantire il diritto del futuro, che è il diritto alla formazione efficace.

slide n.21

Per finire, affronto ora il tema del cambiamento, del rovesciamento del paradigma del mercato del lavoro.

Come ho anticipato all’inizio di questo intervento presentando il piano di questa esposizione, la globalizzazione fa sì che il mercato del lavoro non sia più soltanto il luogo dove l’imprenditore sceglie i propri collaboratori e i collaboratori sono solo scelti, ma è sempre di più un luogo dove sono anche i lavoratori a scegliere l’impresa. Di questo fatto avete una prima evidenza anche sul piano individuale, quando vediamo i nostri ragazzi più intraprendenti, coraggiosi, preparati, guardarsi intorno – al di là delle porte di casa, dei confini del comune in cui sono nati e vissuti – e allargare il proprio raggio di mobilità spostandosi in un’altra parte d’Italia oppure anche spostandosi in un’altra nazione: questo è il caso in cui assistiamo a lavoratori potenziali che scelgono l’imprenditore più capace di valorizzare le loro capacità, attitudini, di soddisfare le loro aspirazioni. Ebbene, oggi questo fenomeno si manifesta molto più diffusamente rispetto al passato: la possibilità del singolo di scegliere l’impresa dove collocarsi, a cui chiedere di valorizzare il proprio lavoro, è molto maggiore rispetto al passato; ma la novità più rilevante, che colpisce sul piano concettuale, è che assistiamo sempre più diffusamente al fenomeno del lavoratore, inteso come “collettivo”, che ingaggia l’imprenditore: un insieme di lavoratori seleziona tra gli imprenditori in giro per il mondo quello che vuole ingaggiare.

slide n. 22

Per avere una idea intuitiva di questo, vi faccio l’esempio del caso Alitalia del 2008, quando quell’azienda versava in una crisi gravissima. Il vecchio imprenditore Alitalia S.p.A. era sostanzialmente fallito e il collettivo dei lavoratori dipendenti aveva di fronte tre candidati imprenditori: Lufthansa, Air France-KLM e lo Stato, poiché c’era anche l’ipotesi del perdurare della nazionalizzazione, cioè che l’azienda rimanesse impresa a partecipazione statale. Lufthansa si ritirò subito perché fu comunicato alla Compagnia che le sue richieste non andavano bene ai lavoratori e con questo i sindacati chiusero subito quella porta. Apertasi la trattativa con Air France-KLM nel marzo 2008, l’Amministratore Delegato Spinetta venne in Italia a discutere lungamente con CGIL-CISL-UIL del piano industriale che lui proponeva; ma i sindacati rifiutarono anche la sua proposta, prima ancora che Berlusconi, vincitore delle elezioni dell’aprile di quell’anno, mettesse il sigillo del “no” governativo sulla chiusura della trattativa con Air France-KLM. I lavoratori scelsero di rimanere “impresa italiana” perché – ce lo disse esplicitamente il capo di una delle tre confederazioni sindacali maggiori – preferivano avere dall’altra parte del tavolo “un imprenditore che parlasse italiano”. Privilegiando così l’italianità dell’interlocutore rispetto alla sua competenza e alla bontà del suo piano industriale. Così la compagnia aerea venne consegnata alla famosa “cordata dei capitani coraggiosi”, italianissimi tutti, ma dei quali nessuno aveva mai fatto volare un aereo… Ecco questo è un caso in cui il sindacato ha svolto male il proprio mestiere guidando i lavoratori nella selezione e nella scelta dell’imprenditore.

slide n. 23

Oggi il sindacato ha un nuovo compito specifico: essere l’intelligenza collettiva dei lavoratori che consente loro di valutare i piani industriali, l’etica industriale dell’imprenditore che si candida, la sua affidabilità, e guidare i lavoratori nella negoziazione di una scommessa comune con il soggetto prescelto.

Un altro esempio di lavoratori che scelgono l’imprenditore è quello offerto dalla vicenda di Pomigliano d’Arco e Mirafiori del 2010: lì la scelta di fronte alla quale i lavoratori si trovavano era tra l’avere come imprenditore Sergio Marchionne, oppure lo Stato. Un sindacato allora invitò i lavoratori a dire no a Marchionne, scegliendo così la nazionalizzazione come unica alternativa. In quel caso, i lavoratori scelsero Marchionne approvando il suo piano industriale: una scelta che – a otto anni di distanza – sembra essere stata di gran lunga la migliore.

Furono i lavoratori a scegliere e a decidere: con quei referendum i lavoratori ingaggiavano o licenziavano un imprenditore. Oggi questo accade sempre più spesso: è accaduto a Sunderland, nel Nord depresso dell’Inghilterra, quando i lavoratori, con uno dei loro sindacati, scelsero la Nissan perché aveva il piano industriale più promettente, in grado di dar vita allo stabilimento più produttivo del mondo nel settore dell’automotive. Fu una scelta compiuta dai sindacati insieme al Governo britannico; ma non è arbitrario pensare che attraverso sindacati e Governo sia stato il collettivo dei lavoratori a ingaggiare l’imprenditore straniero negoziando con lui la scommessa comune sul suo piano industriale.

Questo sarà sempre più il mestiere del sindacato in un mondo in cui si muovono sempre più facilmente non solo le persone, le merci e le idee, ma anche i capitali, i piani industriali, gli imprenditori. C’è un’ampia platea mondiale di imprenditori che possono essere interessati a venire a lavorare da noi, a valorizzare il nostro lavoro; ma dobbiamo saper negoziare con loro la scommessa comune: torna centrale l’intelligenza collettiva, l’intelligenza sociale.

slide n. 24

Annalisa Cristini

Il mio compito è moderare il dibattito che, dopo la relazione del prof. Ichino, credo sarà molto vivace, soprattutto alla luce del fenomeno dirompente del cambiamento tecnologico derivato dall’automazione e dalla robotizzazione. Molti di voi sono dirigenti scolastici, altri sindacalisti, altri studenti, pertanto per ognuno ci sono riflessioni e spunti di dibattito interessanti. Solo una breve premessa per cercare di riassumere alcuni elementi chiave emersi. In merito al fenomeno analizzato ci sono buone notizie: la prima è che non è vero che non ci sarà più lavoro; la storia ci ha mostrato che è già successo, sebbene sia evidente che l’innovazione tecnologica della robotica sia particolare rispetto a uanto avvenuto in passato e l’intelligenza artificiale porterà le macchine a svolgere sempre più mansioni con destrezza e maggiore precisione, come nell’esempio del neurochirurgo; l’altra buona notizia è che l’intelligenza umana ha potenzialità molto superiori all’intelligenza artificiale. Le notizie meno buone sono che questo cambiamento è velocissimo e, come ogni volta che ci sono dei cambiamenti, ci sono delle resistenze poiché non è facile cambiare una situazione che già si conosce e nella quale ci si sente più sicuri. Fronteggiare il cambiamento opponendosi è la strada sbagliata da perseguire e questo riguarda sia le istituzioni che devono avere il coraggio di evitare di proteggere posti di lavoro che non hanno futuro, come negli esempi riportati, sia tutto il sistema di formazione e la scuola che devono prepararsi e fare da guida. Un paio di dati importanti da aggiungere a quelli illustrati dal prof. Ichino in merito alla non-coerenza tra ciò che viene studiato e quello che poi si va a svolgere: il primo è che in Italia il 35% dei lavoratori lavora in ambiti diversi rispetto ai quali si è formato; l’altro elemento che emerge da una pubblicazione OCSE[4] sulle competenze – “quali sono le competenze giuste, come faccio ottenere le competenze giuste” –  confrontate ad altre in Paesi diversi, è che oggi l’Italia ha paradossalmente una carenza di quelle competenze che saranno via via sempre più necessarie per il futuro. Ciò significa che non abbiamo ancora iniziato seriamente il processo di preparazione – sia da parte delle imprese che dal sistema di formazione – che servirà per fronteggiare il cambiamento: un cambiamento che richiederà competenze sostanzialmente di tipo cognitivo (non c’è più la necessità di grossi lavori manuali, routinari o ripetitivi), di ragionamento, capacità deduttiva, pensiero critico, saper leggere, ascoltare con attenzione.

Attendiamo le vostre domande, anche da coloro che ci stanno seguendo via Facebook. Vi chiederei cortesemente prima di porre il vostro quesito di fornire nome e cognome e possibilmente il tipo di occupazione, questo ci serve per comprendere la vostra esperienza e riflessioni in funzione del ruolo che ricoprite.

Antonio Censi

Sono un sociologo in pensione, ma sempre attivo nella ricerca. L’educazione al cambiamento è fondamentale, ma i cambiamenti nelle dimensioni della pervasività che ha descritto il prof. Ichino genereranno sempre più situazioni di sofferenza umana che non devono essere sottovalutate, perché ci aiutano anche a comprendere la situazione politica che si sta drammaticamente vivendo in molti paesi occidentali. Il cambiamento deve essere accompagnato e aiutato da una educazione preventiva e al tempo stesso le persone coinvolte necessitano di essere sostenute nella loro esperienza di sofferenza. In questo ambito si aprono nuovi campi occupazionali che riguardano la psicologia del lavoro, la psicologia nelle organizzazioni: servizi che sono già in atto, ma che le aziende in questi anni di crisi hanno tagliato drasticamente causando un aumento ulteriore della sofferenza umana.

Francesco De Lucia

Ho una società di consulenza aziendale per imprese private e pubbliche. Mi domando se tutti i cambiamenti che sono in corso nella società, soprattutto in Italia, non scontano quella che io rilevo una assoluta mancanza di merito, sia nel settore pubblico che privato, o un merito nel privato basato molto “sull’occhio del padrone” piuttosto che su criteri oggettivi e obiettivi concordati. Sono tutti elementi che determinano insoddisfazione; diversamente sarebbe se si gestisse l’innovazione definendo un percorso condiviso dal quale trarne tutti un vantaggio, in modo da gestire un cambiamento piuttosto che subirlo. Vorrei richiamare l’attenzione sul fattore stress: in Europa, secondo una ricerca EU-OSHA[5], il costo stress-lavoro correlato è di 517 miliardi annui riferiti a problemi sanitari, carenza di produttività e problematiche inerenti, pertanto è bene non sottovalutare un dato di questo genere e attivarsi per fare di più per il benessere e l’organizzazione dei risultati.

Maurizio Chiappa

Sono un dirigente scolastico di un Istituto tecnico. Eduscopio[6]  ha oggi rilasciato la pubblicazione dei risultati delle sue analisi sui quali vorrei fare alcune riflessioni richiamando l’attenzione del prof. Ichino che seguo da molto tempo. Eduscopio ha una struttura nella quale c’è a priori la suddivisione per scuole: se devo frequentare l’università sono contemplati solo i licei, se sono orientato al lavoro ci sono solamente le scuole tecniche o scuole professionali. La mia scuola ha circa il 70% di coerenza per i diplomati, ma portando l’esempio di un mio diplomato di informatica che va in azienda Tenaris a svolgere il ruolo di informatico, questi – secondo l’analisi – ha sbagliato sbocco, perché Tenaris secondo le Cob (Comunicazioni obbligatorie) è una azienda metalmeccanica. Un altro elemento di osservazione: sono stati recentemente creati otto Competence Center nella cui realizzazione però le scuole non sono state coinvolte. Il mio Istituto tecnico ha vari indirizzi specialistici: informatica, telecomunicazione, elettronica e altro, con l’obiettivo di creare quello che lei ha definito “i nuovi operai, gli operai del 2000” – persone che possono entrare in azienda e capire come funziona l’azienda, stare al passo -, è quindi un peccato che i luoghi pensati per comprendere quali siano le competenze necessarie nel futuro non includano le scuole tecniche. Personalmente, mi piacerebbe che la scuola tecnica diventasse come era negli anni ’30-40-50 del secolo scorso: le scuole per l’innovazione, collegate con le aziende e il territorio, dove ognuno fa la propria parte ma collaborativamente per preparare persone che abbiano capacità di pensare, capacità critica e che sappiano fare.

Ornella Scandella

Più professioni nella vita, docente, ricercatrice e – per hobby e studio – orientatrice. Seguendo l’intervento ho raccolto alcuni spunti, in particolare quello della contendibilità delle funzioni rispetto al cambiamento dello scenario organizzativo. La contendibilità implica da una parte una competitività  aumentata – con aspetti positivi, ma anche ansiogeni, a fianco anche di una sicurezza economica -, dall’altra un rischio di disuguaglianze che va sempre più aumentando. La mia domanda è: come facciamo a conciliare queste prospettive con l’agenda 2030 posta dall’ONU che chiede una sostenibilità non soltanto ambientale, ma anche economica, sociale e culturale? In particolare, rispetto alla sostenibilità sociale, come conciliamo tutti questi aspetti che si aprono con il nuovo lavoro con le richieste ONU e gli appelli di altre associazioni? Ci offre qualche idea, qualche spunto?

Giuseppe Mulè

53 anni di lavoro alle spalle, di cui 35 come dirigente di un Istituto di ricerca e collaudi e altri 18 di professore a contratto al Politecnico, in entrambi i ruoli nell’ambito della pubblica amministrazione. Alcuni fattori hanno condizionato il mio ascolto della relazione del prof. Ichino: il cenno alla pubblicazione di un suo libro di diversi anni fa sulla pubblica amministrazione e l’odierna mancanza di un riferimento specifico alla pubblica amministrazione in Italia, non nel mondo. Sappiamo che in Italia c’è una pubblica amministrazione capace di vanificare qualunque tentativo di avanzamento? L’altro elemento che mi ha particolarmente colpito è il bisogno della forza lavoro di cercare un datore di lavoro. Mi chiedo: come si fa a trovare un datore di lavoro serio nella pubblica amministrazione? Dalla mia esperienza, le tecniche con le quali all’interno della pubblica amministrazione si riesce a bloccare qualunque tentativo di innovazione – anche metodi intelligenti e sofisticati, nell’interesse stesso della amministrazione – sono infinite: purché “tu non crei problemi”, lasciano fare quello chesi vuole. Mi chiedo se riusciremo mai ad avere una pubblica amministrazione in grado di affrontare il cambiamento a fronte del suo sistema attuale e, non per ultimo, il cambiamento del suo atteggiamento psicologico. Come facciamo a confrontarci con l’Europa con una pubblica amministrazione come questa?

Pietro Ichino

Il problema del funzionamento della macchina pubblica è centrale. Vorrei fare presente che quando parlo di scuola, formazione professionale, centri per l’impiego, rete dei servizi al mercato del lavoro, parlo di amministrazione pubblica; e rimane funzione pubblica anche laddove si scelga di ribaltarne il meccanismo di funzionamento tradizionale coinvolgendo gli operatori privati, per esempio secondo il meccanismo dell’Assegno di Ricollocazione previsto dalla riforma del 2015, che prevede che il lavoratore possa scegliere da chi farsi fornire il servizio dell’assistenza per la ricollocazione e si paga solo l’operatore che realizza l’obiettivo, cioè il successful placing come lo chiamano in Inghilterra o in Olanda. Questa è amministrazione pubblica, e mi riferisco a un’amministrazione che non funziona più secondo il vecchio schema sonnacchioso in cui la regola fondamentale è “purché non si creino problemi”, nulla turbi il sopore generale, bensì a una amministrazione pubblica che si doti di un management responsabilizzato su obiettivi specifici, misurabili, precisi, collegati a scadenze temporali precise, e in relazione a questi venga premiato o rimosso.

Quanto al tema della scuola e del controllo sull’efficacia dell’insegnamento e del servizio scolastico, la Fondazione Agnelli ci sta provando: è il primo tentativo di rilevazione in Italia. Può essere forse difettoso, impreciso, con errori nella determinazione dei criteri di valutazione… però per la prima volta si comincia a effettuare la misurazione dell’efficacia della funzione pubblica: un’azione fino a oggi a noi totalmente aliena, eppure necessaria, perché se non c’è la capacità di valutazione, non c’è neanche la possibilità di responsabilizzare il management. Porto a esempio, perché l’ho studiato molto da vicino, il sistema scolastico britannico. In questo Paese, c’è una grande agenzia indipendente pubblica – la Ofsted [7] – che misura a tappeto l’efficacia dell’insegnamento impartito in ogni istituto scolastico. Uno dei suoi tre criteri fondamentali è l’analisi degli sbocchi successivi all’uscita dei ragazzi con il diploma, un monitoraggio realizzato esattamente con il sistema che sta cercando di cominciare ad applicare Eduscopio, l’osservatorio della Fondazione Agnelli, e che domani dovrebbe essere una attività affidata a una vera agenzia pubblica che la realizzi pienamente, un po’ come Invalsi si propone faticosamente di fare incontrando enormi resistenze.

Come fa la Ofsted a dare un rating a ciascun istituto scolastico? Confronta gli esiti tra le posizioni di partenza e quelle di uscita degli studenti, perché non è la stessa cosa insegnare nel centro di Londra o in una periferia degradata. La Ofsted è attentissima a misurare la qualità in ingresso dei ragazzi – perché conosce il dato sulla loro origine – e sulla base di quello ottiene dei dati nei quali appaiono istituti che non sono l’eccellenza, ma sono in cima alla graduatoria perché rispetto al punto di partenza fanno più di quanto non faccia la scuola nel centro di Londra, che pure in assoluto produce risultati apparentemente migliori. Ci sono altri indici sui quali Ofsted costruisce la sua valutazione, di cui uno è la valutazione delle famiglie: è un indice fondamentale, perché le famiglie hanno una precisione chirurgica nell’individuare le cose che non funzionano nella struttura scolastica; bisogna saper rilevare e sfruttare questa preziosa fonte di informazione che può essere costituita da un questionario sulla soddisfazione delle famiglie, nel quale si chiede la loro collaborazioe per l’individuazione dei punti deboli. La Ofsted addirittura manda al Chief teacher [8] l’indicazione: “Il professore di inglese o di matematica della tua sezione ha una serie di segnalazioni di grave inefficienza”. Sulla base di questi dati oggettivi, l’agenzia costruisce un rating, chiamato star system perché attribuisce delle stelle (una, due, tre stelle a ciascun istituto scolastico), e se un istituto va sotto il minimo necessario e non prende neanche una stella, entra in zona Warning: “Attenzione sei sotto lo standard minimo: o ti tiri fuori in due anni da questa situazione incresciosa, oppure ti chiudiamo”. In Gran Bretagna mediamente l’1,5% degli istituti ogni anno viene chiuso per questo motivo. Cosa succede quando l’istituto chiude? Il Chief Teacher viene licenziato e i professori vengono automaticamente trasferiti negli istituti circonvicini tramite una comunicazione (senza consultazioni o altre procedure sindacali): una lettera nella quale si riporta che l’istituto non era in grado di valorizzare il loro lavoro e si formula l’augurio che il nuovo istituto sia invece in grado di farlo meglio.

Questo sistema è certamente stressante, genera qualche ansia negli addetti; però è un sistema in cui al centro c’è il diritto degli studenti: c’è bisogno di un sistema che metta al centro del funzionamento della scuola il diritto degli studenti, una cosa che in Italia non avviene e ancor meno all’università, che è basata sui diritti e gli interessi dei professori e non degli studenti. C’è una valutazione, sì, ma non c’è la responsabilizzazione rispetto ai risultati della valutazione; non vedo mai chiudere un dipartimento perché la valutazione è negativa, mentre avremmo bisogno di un sistema in cui una valutazione che non assegna neppure una singola stella, porti al rischio del trasferimento degli addetti in una struttura più efficiente, capace di valorizzare meglio il loro lavoro.

La scuola italiana non fa questo: siamo la scuola nella quale quando lo Stato ha proposto l’assunzione di professori del Sud nelle scuole del Nord – per via di una carenza di professori nelle scuole del Settentrione – si è gridato addirittura alla “deportazione”; e alla fine si sono assunti in sovrannumero i professori al Sud lasciando le classi scoperte al Nord.

Vorrei che questa rivoluzione, che nella scuola è ancora troppo indietro, incominci a essere fatta anche nel settore della formazione professionale, un ambito dove essa è oltremodo necessaria. Un dato impressionante: quando l’ISFOL [9] ha cercato di misurare il tasso di coerenza tra la formazione impartita e i risultati, ovvero gli sbocchi occupazionali, sono emersi dei dati raccapriccianti: ci sono centri con l’80-90% di tasso di coerenza, ma ce ne sono anche altri con il 10-20%; ci sono ragazzi che vengono truffati – letteralmente truffati – perché si chiede loro di investire il loro tempo in un corso che non serve a niente, che è una nullità dal punto di vista dell’empowerment professionale. Perché non chiudiamo questi centri? Perchè in genere (non voglio generalizzare, ma è così nella maggior parte dei casi) un assessore alla formazione professionale preferisce distribuire miliardi di finanziamenti alla formazione professionale secondo criteri clientelari piuttosto che essere vincolato da criteri obiettivi che impongono di far andare i soldi là dove il tasso di coerenza è molto alto, e far chiudere invece i centri dove esso è intollerabilmente basso. Provate a immaginare che cosa significherebbe in Sicilia applicare un criterio di questo genere, dove la Regione ha alle sue dipendenze 5.000 formatori, dei quali la maggior parte non tiene neanche un corso, ma quando lo tiene ha tassi di coerenza pari a zero. Questo è il problema.

Passo alla domanda di Ornella Scandella: “Contendibilità vuol dire competitività, stress e rischio di disuguaglianza?”. È vero, è così. È chiaro che tutto va fatto con buonsenso, con senso della misura e anche con compassione per i deboli, i fragili. Noi vagheggiamo un sistema in cui nessuno viene messo sotto stress – in cui quando si è arrivati ad avere finalmente il posto ci si mette tranquilli e lì ci si siede – ma abbiamo già visto questo sistema, portato al suo limite estremo, all’opera nell’Unione Sovietica: un sistema produttivo in cui non c’era alcuna responsabilizzazione sui risultati e i posti erano sicuri. Chi oggi studia le dinamiche psicologiche e sociali in Unione Sovietica registra la nostalgia di quella società senza stress, anche se è evidente che a un certo punto quel regime è collassato. Dobbiamo renderci conto che se vogliamo stare in una società aperta, dobbiamo attrezzarci affinché la maggior parte della popolazione abbia gli strumenti per stare a questo gioco e per sostenere chi è più fragile, quelli che non ce la fanno, prenderli per mano, dare loro una collocazione, un lavoro che sia adatto a loro, e anche dare loro quel tanto di redistribuzione che proporrei non tanto in termini monetari quanto in servizi, in sostegno, come fanno le società ispirate alla socialdemocrazia scandinava: non tanto il sussidio quanto una società che è grado di rispondere alle esigenze essenziali.

Se rifiutiamo la contendibilità per paura dello stress, rischiamo di non essere in grado di valorizzare il merito: valotizzare il merito significa mettere un po’ sotto stress le persone. Valorizzare il merito è apparentemente contraddittorio rispetto al principio dell’uguaglianza – perché se valorizziamo il merito, non trattiamo in modo uguale chi merita e chi no – ma l’uguaglianza non va costruita azzerando il valore del merito, bensì cercando di dare a tutti gli strumenti per mettersi in condizione di accettare la sfida.

In questo vedo la grande modernità del pensiero di fondo di don Lorenzo Milani, secondo cui la lotta per l’uguaglianza e per la giustizia sociale è fondamentalmente una lotta che si vince attraverso lo strumento della scuola e della formazione: è questo che dà uguaglianza, che crea o almeno consente a tutti di mettersi ai blocchi di partenza; ci sarà poi chi corre un po’ meno, chi un po’ di più, chi cade e andrà sostenuto, ma dobbiamo proporci di avere un sistema di formazione e scolastico capace di porre tutti in grado di partire. È difficilissimo, l’Italia è molto indietro, ma è difficile anche perché abbiamo un’amministrazione pubblica che non è in grado di supportare questa sfida. Nella riforma del 2015 abbiamo tentato proprio nel settore del sostegno al lavoratore nel mercato del lavoro di rompere questa sonnolenza introducendo nella funzione pubblica il meccanismo premiale – un premio al merito – che è il voucher, dato solo a chi colloca per davvero. Ecco, questa è un’azione che ha incontrato resistenze fortissime nell’amministrazione pubblica. Se qualcuno vuole visitare il mio sito web, nella sezione del contratto di ricollocazione, può leggere la storia delle resistenze feroci che ha incontrato questa proposta, non solo prima che riuscissimo a tradurla in legge ma anche dopo, con l’impedimento alla sua realizzazione.

Parliamo di sofferenza umana: dobbiamo rispettarla, prevenirla, dove c’è dobbiamo curarla, ma non dobbiamo avere paura del fatto che qualcuno possa soffrire e che sia necessario sostenerlo. Non si risolve il problema della sofferenza eliminando ogni causa di stress nel sistema, a meno che non si voglia tornare a una società con l’elettroencefalogramma piatto… Ma quanta sofferenza ha generato questa amministrazione pubblica? Magari un po’ meno agli addetti, ma gli addetti sono solo 3 milioni mentre fuori ci sono altri 57 milioni di persone che ne hanno sofferto.

Dobbiamo attrezzarci in modo che l’evento della perdita del posto di lavoro non sia una tragedia, ma un’opportunità. Ci sono Paesi nei quali quando un lavoratore sta per più di cinque, sei anni in una stessa azienda, gli si dice: “È meglio che cambi, solo i peggiori restano così a lungo in una stessa azienda”. Normalmente ci si muove; negli Stati Uniti questo si verifica all’ennesima potenza, e anche nel resto d’Europa accade; ma noi invece non abbiamo questa concezione: abbiamo l’idea della perdita del posto come una catastrofe. Non è così; ma lo diventa in un sistema che non è capace di sostenere il lavoratore nella transizione.

Certo è sbagliato pensare che si possa uscire dal circolo vizioso cambiando solo un pezzo del sistema: bisogna fare in modo che tutto l’insieme del sistema evolva in un modello nel quale chi perde il posto di lavoro abbia sicurezza economica, servizi efficaci, possibilità di scelta, un orientamento che gli consenta di compiere delle scelte con la prospettiva di realizzarle. Questo è ciò che dobbiamo proporci di realizzare nel nostro Paese.

Gabriel Attili de Angelis

Sono uno studente. Vorrei fare al prof. Ichino alcune domande più vicine alla nostra realtà di studenti di scuola superiore. Lei ha parlato di outsider, di nuovi modi di pensare … se il proposito è sempre quello di migliorare, di creare una scuola fatta per gli studenti e non per gli insegnanti, perché nelle scuole non si fanno schede di valutazione dei professori? E ancora, se noi giovani studenti dobbiamo fare la differenza nel mondo, ma se quando vogliamo farla ci zittiscono, come dobbiamo considerare questo desiderio di cambiamento nella scuola affinché non rimanga utopico ma si concretizzi?

Pietro Ichino

Lei ha perfettamente ragione: sulla valorizzazione della valutazione delle famiglie nella scuola media, e poi da parte degli studenti dai sedici anni in poi, l’Italia è indietrissimo, perché i professori non amano vedersi dare le pagelle dai propri studenti. Invece questo è uno strumento preziosissimo, anche se naturalmente il dato della valutazione degli studenti va a sua volt valutato e combinato con altri. La Ofsted usa questi indici: le valutazioni degli interessati, l’indice del tasso di coerenza e un terzo indice che è il test generalizzato, quello che noi chiamiamo il test Invalsi. Nessuno di questi tre indici può funzionare da solo, ma i tre indici insieme – quando danno dei risultati congruenti – sono estremamente concludenti. In Gran Bretagna lo star system di Ofsted, il suo operato, non è oggetto di contestazioni sindacali o politiche: quando a un istituto viene dato un rating negativo, o addirittura una scuola chiude, non succede il finimondo. Se abbiamo un vantaggio nel fatto di essere un Paese un po’arretrato – per certi aspetti – rispetto agli altri, è quello di poter copiare esperienze che in altri Paesi sono state accumulate con decenni di lavoro, di affinamento e di sperimentazione… un po’ come ha fatto il Giappone che ha recuperato cinque secoli di ritardo sociale e tecnologico imparando il meglio dall’Europa. Così dobbiamo fare noi e questo è, a mio modestissimo avviso, uno dei grandi vantaggi che possiamo avere dall’integrazione in Europa: questo processo di integrazione è un’occasione straordinaria che l’Italia non può permettersi di perdere.

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[1]             Jeremy Rifkin (Denver, 26 gennaio 1943) è un economista, sociologo e saggista statunitense. E’ autore di numerosi libri che trattano dell’impatto che i cambiamenti scientifici e tecnologici hanno su economia, società e ambiente.

[2]             La Fine del lavoro, 1995. Best-seller internazionale, in esso Rifkin prevede entro pochi anni il trionfo della macchine sul lavoro umano.

[3]             Letteralmente “carenza di abilità”.

[4]             Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.

[5]             Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro. L’Agenzia promuove la cultura della prevenzione dei rischi per migliorare le condizioni di lavoro in Europa.

[6]             Eduscopio è un progetto della Fondazione Agnelli che  analizza la qualità delle scuole superiori in relazione alla capacità dei licei e degli istituti tecnici di preparare e orientare gli studenti per gli studi universitari, alla capacità dei tecnici e dei professionali di preparare per il lavoro. Si avvale dei dati amministrativi relative alle carriere universitarie e lavorative dei singoli diplomati raccolti dai Ministeri competenti.

[7]             Office for Standards in Education, Children’s Services and Skills è il dipartimento responsabile dell’ispezione di una serie di istituti scolastici, incluse le scuole statali e alcune scuole indipendenti.

[8]             Dirigente dell’istituto scolastico.

[9]             Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori.

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