Un amore mansueto e intelligente, per l’umanità e il mondo che la circonda, nutrito dell’umorismo e dell’autoironia di chi sa che l’assoluto non è di questa terra e neppure dei sentimenti umani
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Intervento svolto al Castello di Caprese Michelangelo il 6 luglio 2019, per l’inaugurazione della mostra di dipinti, incisioni e sculture di Gigi Pedroli – In argomento v. anche Gigi Pedroli: pittore, scultore, amico del mondo e poeta .
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Uscirà a settembre un libro che avrà sulla copertina un’incisione stupenda di Gigi Pedroli, quella del Naviglio in festa. È il racconto di una vita a suo modo avventurosa. E di una città, Milano appunto, che lo ha accolto, orfano di entrambi i genitori a due anni, lo ha istruito e aiutato a coltivare il suo talento con la rete delle sue scuole pubbliche e istituti religiosi negli anni ’30 e ’40; poi negli anni ’50 e ’60 gli ha offerto un apprendistato straordinario a contatto con i migliori designer italiani e stranieri; della città della quale infine, nell’età matura, ha scoperto un tesoro nascosto: il respiro profondo di un quartiere, quello dei Navigli, custode di un intreccio secolare di cultura artistica e artigiana e al tempo stesso di tradizioni popolari non travolte dalla modernizzazione, col quale si è trovato in una sintonia totale. E dove la sua ispirazione è riuscita a venire alla luce.
Il libro racconta come l’ambiente del Naviglio Grande per un verso, per l’altro la scoperta dell’acquaforte, abbiano rotto l’incantesimo che aveva in qualche modo congelato, o quanto meno frenato la sua creatività negli anni precedenti. Come se solo qui, tra l’Alzaia e la Ripa del canale di origine medievale che attraversa Milano, la sua simpatia per il genere umano, il suo ottimismo e il suo umorismo avessero incominciato finalmente a sentirsi a casa. E come se tra la superficie tenera che attende l’incisione, chiedendo di essere scalfita con sicurezza, e il mondo immaginario nascosto nei recessi della sua mente si fosse stabilita finalmente una sinapsi, un canale di comunicazione che consente all’idea di prendere una forma visibile.
Nella maturazione artistica di Gigi Pedroli quella lastra di zinco ha operato come un catalizzatore, riuscendo a innescare una reazione tra le molte fonti della sua arte: il talento innato per il disegno trasmessogli con il Dna dalla madre, il “privilegio” dell’istruzione di prima qualità che un’istituzione religiosa gli ha offerto in quanto orfano, la tecnica appresa alla scuola serale che una provvida amministrazione comunale gli ha messo a disposizione senza frapporre barriere d’accesso, il suo innato sguardo affettuoso e curioso verso il mondo circostante, la fortunata frequentazione del mondo del design contemporaneo ai livelli più alti, ma anche la sua capacità di far proprio il meglio dell’arte della pittura e del disegno comprendendone le nuove tendenze, pur mantenendo sempre da ciascuna di esse il dovuto distacco.
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In seguito, dalle incisioni quel medesimo suo mondo si trasferirà nei dipinti a olio, o nei disegni a matita in bianco e nero che delle incisioni hanno soltanto l’apparenza. Ma è sulla lastra di zinco che lui sente scattare la scintilla; è nell’incisione che si aprono le cataratte dell’ispirazione. Ed è il mondo del Naviglio che incomincia a ispirargli figure finora mai viste.
Non è più il tempo delle nature morte e dei paesaggi del suo periodo giovanile: sulla lastra di zinco il Pedroli quarantenne incomincia a raccontare l’umanità come lui la vede. Non raffigura i suoi personaggi secondo i canoni della bellezza correnti, bensì in una loro quieta, normale e accettata deformità: teste, braccia asimmetriche e grandi mani, membra non tra loro proporzionate perché non cercano una bellezza convenzionale; non sono “copie dal vivo”, ma prodotti dell’immaginazione di un pittore che ama le persone per quel che sono intimamente e non per la loro corrispondenza a questo o quel modello. Lui, poi, non li ritrae nelle situazioni in cui siamo soliti vederli superficialmente giorno per giorno, nelle quali dominano la forza di gravità e i rapporti consueti tra le persone e le cose: li ritrae in una visione fuori dello spazio che sperimentiamo quotidianamente. E fuori del tempo. Una visione nella quale può essere che umani e animali poggino piedi o zampe per terra, ma può accadere anche che volino alti nel cielo, o si librino a mezz’aria sotto lo sguardo interrogativo, ammirato o adorante della persona che si trova sotto, talora suonando una tromba, talora porgendole un fiore.
Nascono così le sue coppie di amanti sereni nei loro surreali lineamenti asimmetrici, in bicicletta o in monopattino, o librati su di un mare metafisico, magari seduti su di una chitarra volante; oppure pensosi, seduti a un tavolo con gli occhi persi nel vuoto, sotto una lampadina che dà luce all’intero loro mondo interiore, o seduti sulla panchina con un fiore in mano; i suoi bambini e ragazzi dalle teste enormi, per lo più con le rotelle ai piedi: l’oggetto del desiderio del Gigi bambino, che ora diventa il segno dell’era del benessere accessibile a tutti; le sue indossatrici alla sfilata di moda, anch’esse con le rotelle ai piedi. In altre incisioni par di vedere il ceto medio milanese laborioso e tranquillo che alle dieci di sera è già pronto ad andare a dormire, ma che ogni tanto spicca il volo: non per fuggire lontano, soltanto per seguire qualche sogno. Qui nascono anche gli animali di Pedroli: gatti sornioni che sorvegliano un mondo di cui si sentono i veri padroni, oppure colti nell’atto di saltar giù dal cornicione, anzi dal cielo, sulla testa di due amanti che brindano; cavalli e asini mansueti; pollastri in volo tenuti al guinzaglio da uno stralunato padrone; api, farfalle, ranocchie, lucertoloni, serpenti e altri animali strani che popolano l’albero della vita. Qui nasce anche il suo tema della nave con le rotelle, o di quella che al posto dell’albero ha una quercia radicata nella sua stiva: dove la nave sul mare è la vita e l’albero ciò che le dà un senso legandola all’eternità.
È come se l’atto dell’incisione della lastra di zinco, a differenza dell’atto di dipingere con il pennello, spingesse Gigi Pedroli a una figurazione surreale: non la descrizione di un fatto, di un evento particolare, ma la rappresentazione di un’idea. I suoi uomini e donne che si guardano seduti su di una panchina, o intorno a un tavolo domestico sotto la lampadina, sono un inno all’amore che è dato a tutti cercare e trovare, anche ai non più giovani, anche ai non più belli. E le api e le farfalle che ronzano intorno al suo “Albero della vita” sono un inno alla vita stessa e alla bellezza del creato.
In nessuna raffigurazione dei Navigli come in quelle di Pedroli si esprime lo spirito segreto di questo luogo. Il Naviglio Grande affollato di natanti delle forme più fantasiose, tranne quelle di una normale barca, di nuotatori dalle mani enormi e dai corpi informi, di pesci e altri animali di ogni tipo, ma anche di personaggi incongruamente aggrappati ciascuno a una sua scala emergente dall’acqua, non è certo la “veduta” del canale milanese maggiore in un dato momento, ma è una sua trasfigurazione: è la sua essenza, fatta di un brulicare di abitanti che ci si affollano; è l’idea dell’amore della città per il suo unico corso d’acqua, privo del grande respiro del fiume, eppure tanto più vivo e intensamente vissuto dei fiumi che attraversano le altre grandi città.
Giorgio Bagnobianchi, grande conoscitore delle opere di Pedroli e ideatore di questa mostra (al quale oggi va il nostro augurio di guarigione dalla malattia che lo ha colpito), vede nella maggior parte delle sue figure soffiare “un gran vento burlone” che spazza via le nebbie e “deforma tutto il mondo popolare delle case di ringhiera, con i ballatoi a far da raccordo tra operose esistenze, facendolo diventare uno spazio fantastico che racconta una storia apparentemente minore ma ricca di poetica umanità”. Quel vento “fa volare personaggi, animali, case, canali e architetture donando loro levità e leggerezza inconsuete [deforma] corpi e fisionomie rendendoli contemporaneamente infantili e sofisticati. Tutti, proprio tutti, uomini, donne, animali, sono apparentati da un segno grafico inconfondibile, una grafia che li rende simili, generati con il medesimo attonito stupore dallo stesso padre creatore, così che potremmo denotare Gigi come un demiurgo, una laica divinità intenta a creare, con le sue argille colorate, storie e personaggi tesi verso una meta ignota, un altrove magico”.
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Nella stagione che vede finalmente esprimersi appieno il suo talento e il suo estro artistico, a Gigi Pedroli incominciano a interessare anche le tecniche della decorazione e cottura di quella materia prima meravigliosa che è la terra creta. Incomincia dunque a frequentare l’antichissima Fornace Curti, che da secoli è al servizio della bellezza di Milano e dintorni. In un primo tempo vi si reca solo per decorare dei piatti e dei vasi torniti da altri; e impara la tecnica. Ben presto, però, gli viene l’idea che piatti e vasi potrebbe anche farseli da sé. E farseli a modo suo: non è mica detto che debbano essere fatti col tornio, perfettamente rotondi e levigati. Nascono così i suoi primi vasi, dalle rotondità stupendamente irregolari, con forme e fregi che via via richiamano i modelli prodotti dall’arte vasaria mediterranea dei secoli e millenni precedenti, ma sempre reinterpretati nello stesso modo visionario con cui Pedroli interpreta la figura umana: cioè scoprendo le risonanze estetiche sorprendenti prodotte dalla forma che rompe gli schemi e… si deforma. Dai piatti e dai vasi passa poi talvolta ad altri oggetti funzionali: nasce così la stupenda stufa dalla forma irripetibile che tuttora troneggia in un angolo della sala grande del Centro dell’Incisione, sull’Alzaia del Naviglio Grande.
Nelle ceramiche il suo genio e il suo ingegno toccano forse il loro punto più alto. Perché qui gli oggetti metafisici della sua pittura visionaria escono dall’immagine bidimensionale diventando forme solide, affascinanti al tatto oltre che alla vista. Grezze o smaltate, talvolta alternando il grezzo e lo smalto, sempre letteralmente straordinarie perché irripetibili ciascuna nel proprio genere. Nessuno di questi oggetti che escono dalla sua mente e dalle sue mani ha la forma di quelli che solitamente chiamiamo con lo stesso nome; eppure in ciascuno di essi si vede e si tocca l’essenza prima dalla quale quell’oggetto è nato: che sia un vaso dall’andamento eccentrico di un tronco d’olivo, o una teiera a forma di gallina, o un’anfora felicemente asimmetrica, o un piatto dal bordo incerto nel quale trovi non il tuo nutrimento di un giorno, ma l’immagine del senso stesso della tua vita, oppure la grande stufa sorniona a forma di tutto tranne che di stufa, eppure così intimamente ed essenzialmente stufa da deliziare gli occhi mentre scalda le membra.
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A metà degli anni ’90 Gigi Pedroli prova ad andare al di là dei piatti e dei vasi, incominciando a modellare delle figure umane o di animali. Poco dopo incomincia a sperimentare anche la tecnica della fusione in bronzo.
Nascono così le sue prime sculture bronzee – bambini e animali – che gli vengono ispirate dal figlio più piccolo Davide, nell’aia di Breccia, dove i Pedroli vivono vicino a Como quando non sono impegnati a Milano e dove il bimbo si diletta con un asinello e alcune caprette; poi ci sono i galli, le galline, le civette, i gatti.
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Nel suo studio alla Fornace Curti Gigi Pedroli tiene in permanenza della calce viva. Quando gliene viene l’ispirazione, la mescola con della sabbia e la spalma sul muro o su una lastra ricoperta di sabbia incollata che deve fare da supporto al suo dipinto. Lui ne è affascinato al punto di dedicarle una bellissima canzone d’amore intitolata appunto Calce viva: una sorta di fiaba surreale e struggente che descrive quel suo sprigionare calore e cambiar colore quando è stesa sul muro, quella sua sete che l’acqua stenta a spegnere, quel suo calmarsi soltanto quando arriva a unirsi con la pittura raggiungendo la perfezione nella forma dipinta: “velo steso appassionato d’amore vetrificato”. “Due figure su calce affrescata, le trovarono un giorno su quel muro e la gente rimaneva incantata, per quei toni vibranti d’amore”: anche la canzone parla delle sfumature di colore ineffabili che il suo autore riesce a far nascere dal connubio tra la calce e la pittura nei suoi affreschi.
L’amore di Pedroli per la calce viva produce dei meravigliosi affreschi. È questa una tecnica pittorica che gli consente di immergere le sue figure surreali in una atmosfera di indefinibile dolcezza, ottenuta per mezzo di sfumature di colore che lasciano senza fiato. “I colori – osserva ancora Giorgio Bagnobianchi – si son fatti via via più poetici, accostati per timbro più che per tono. Rimasta è la vocazione materica, il prevalere di sostanze colorate terrose che formano l’humus dal quale emergono opere fantastiche”.
La tecnica dell’affresco la utilizza anche per realizzare delle pitture su tavole intonacate di piccole dimensioni – intorno ai 50 centimetri di lato, talvolta anche meno – che possono essere trasportate e appese o murate dove si vuole. Una figura ricorrente su queste tavole, insieme all’albero della vita popolato da molti animali, è quella di un cavaliere medievale vestito di una tunica e con l’elmo in testa, su di un cavallo che procede al passo in una landa deserta passando accanto a un albero carico di fiori.
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Oggi le mani di Gigi Pedroli non hanno più l’agilità che hanno avuto fino a qualche anno fa; e soffrono anche soltanto la stretta di un saluto. Anche gli occhi non sono più quelli di un tempo e stentano a leggere libri o giornali. Ma non si è interrotta la sua capacità di creare le sue figure sulla lastra di zinco, sulla tela o con la terra creta. Né quella di trarre dal pianoforte o dalla chitarra la sua musica: quella dei brani che tante volte hanno accompagnato le serate al Centro dell’Incisione, oppure anche una musica che gli suona dentro, destinata a non restare fissata in alcuno spartito. La suona sommessamente soltanto per sé e per la vite canadese che pende fuori della finestra aperta, esprime l’armonia tra lui stesso e il mondo che lo circonda, la casa incantata sull’Alzaia del Naviglio Grande animata dalla sua generosa e ineffabile Gabriella.
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Negli ultimi anni le sue canzoni hanno commentato ironicamente le novità tecnologiche che via via facevano la loro comparsa, con le loro pretese di progresso, dal cecùp sanitario al fésbuc, dal Viagra al telefonino (protagonista a sorpresa nel finale di Giustin nel matt, per dire che è più savio lui dell’aucat che parla solo col suo cellulare). Al tempo stesso ci ha avvertiti della fragilità del sogno di superare i limiti del nostro essere umano con i bellissimi quadri dedicati alle macchine volanti: impegnati alla loro guida, i suoi personaggi sembrano chiedersi che cosa riesca a farli volare per davvero; e per prudenza non si sollevano troppo dalla terra quotidiana.
Lui non ha la pretesa di ergersi a giudice delle novità tecnologiche, e neppure si ripiega in una laudatio temporis acti. Osserva il mondo che cambia con simpatia, usando il suo straordinario umorismo per avvertire che, nonostante cecùp e fésbuc, cellulari e Viagra, in realtà il nostro animo resta sempre quello, con le sue ansie, il suo desiderio di amore, la sua capacità di vedere il bello anche in un bimbo che abbraccia il suo asinello, in un gatto accoccolato sulla stufa, o in un’ape che ronza intorno al fiore.
Gli basta esprimere il suo amore singolare per l’umanità e il mondo che la contiene: un amore semplice, mansueto e intelligente, non possessivo, nutrito dell’umorismo e dell’autoironia di chi sa che l’assoluto non è di questa terra e neppure dei sentimenti umani. Vediamo e sentiamo in lui una laica povertà evangelica: distacco dalle ricchezze apparenti che nasce da una serenità profonda e ispira serenità al prossimo; attaccamento alle ricchezze vere della vita, quelle per le quali gli occhi di Gigi Pedroli si illuminano e ridono: l’affetto per gli amici e degli amici, la grandezza nascosta degli ultimi (persone vere, che la città relega ai propri margini estremi e di cui egli ci insegna a vedere e amare l’umanità nelle sue canzoni milanesi, ma anche nei suoi racconti a tavola), la bellezza della natura. Nulla è più lontano da lui che il predicare una qualche verità, un qualche comandamento morale, un qualche credo politico che non sia lo stare dalla parte dei semplici e guardare il mondo con i loro occhi. Ma sono la sua stessa vita straordinaria e la sua stessa persona – come quelle dei veri profeti – che senza bisogno di teorie ti insegnano e ti inducono a cogliere il senso profondo della vita e di te stesso, a discernere ciò che di questo mondo conta veramente e resta per sempre (quante, infinite cose, piccole o immense!), da tutto ciò che non conta ed è destinato a perdersi, travolto dal tempo.
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Quando Gigi Pedroli oggi guarda indietro alla propria lunga esistenza, gli brillano gli occhi non di orgoglio per tutto quello che ha fatto, ma di stupore per quel tutto che gli è toccato in sorte. Rivede come se fosse ieri i giochi con gli altri bambini per le strade della periferia di Milano, i pianti alla finestra del bagno del collegio affacciata su una di quelle strade, dove da adolescente lo assaliva la nostalgia degli anni felici, il primo lavoro come disegnatore nel quale il suo talento ha incominciato a essere valorizzato all’ombra del Duomo, la fortuna dell’incontro con Gabriella, la sua musa ispiratrice, luce e guida dell’intera sua vita adulta. È lo stesso stupore e l’entusiasmo che senti vibrare nella sua voce quando descrive la bontà di un risotto alla milanese annaffiato con la Bonarda, come quando descrive la vite canadese che riveste interamente la casa che ospita il Centro dell’Incisione (nella foto qui sopra – n.d.r.), oppure l’ineffabile bellezza di un notturno di Chopin suonato su quel pianoforte Pleyell che forse è appartenuto al grande musicista e che la sorte ha voluto far approdare per vie misteriose sulle sponde del Naviglio, proprio al Centro dell’Incisione.
Ecco: lo stupore e l’entusiasmo di fronte alle cose più semplici ed essenziali della vita: forse questa è la chiave migliore per capire l’arte di Gigi Pedroli. E stupore e entusiasmo – credo – saranno le sensazioni che vi regaleranno le figure e le forme delle sue opere, raccolte in questa mostra straordinaria, insieme alla gratitudine per chi la ha ideata, voluta e realizzata.
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