Anche sul piano dell’azione sindacale è sempre più evidente l’importanza del nuovo spartiacque fondamentale della politica italiana ed europea, tra pro-UE ed euroscettici – Occupazione: perché gli ultimi dati positivi non bastano per essere ottimisti
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Intervista a cura di Guido Bossa, in corso di pubblicazione sul mensile della FNP-Cisl Contromano, luglio 2019 – In argomento v. anche il mio articolo del 24 maggio scorso L’unità sindacale possibile, e quello di Francesco Daveri, Se il PIL non cresce, la disoccupazione non scende .
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Professor Ichino, nei primi mesi dall’insediamento alla guida della Cgil Maurizio Landini ha proposto due iniziative che indubbiamente hanno dato una scossa al mondo del lavoro: il rilancio dell’unità sindacale e la minaccia di uno sciopero generale in autunno contro la politica economica del governo. C’è forse una contraddizione nel concatenamento fra le due iniziative, perché secondo il Segretario generale il nuovo sindacato unitario dovrebbe nascere “dal basso, dalla partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori iscritti e non, assecondato dalle scelte dei gruppi dirigenti”, mentre l’azione di protesta, concepita come un acceleratore del processo unitario, può partire solo per iniziativa dei vertici confederali. Ma, a prescindere da queste considerazioni, lei ritiene che il Segretario della Cgil abbia colto nel segno, cioè che stiano maturando i tempi per una ricomposizione del mondo del lavoro? E se sì, su quali basi l’unità si può ricostruire?
L’appello all’unificazione di Cgil, Cisl e Uil lanciato da Maurizio Landini da piazza Maggiore a Bologna il 1° maggio aveva un significato implicito molto chiaro: il neo-segretario generale della Cgil intendeva comunicare a tutti il proprio intendimento di voltar pagina rispetto a una stagione recente nella quale egli stesso, in veste di segretario generale della Fiom, aveva provato a dar vita a un movimento politico nell’area della sinistra. L’intendimento, cioè, di tornare a essere il Maurizio Landini contrattualista, sindacalista puro. E un Maurizio Landini meno arcigno verso Cisl e Uil di quanto egli stesso si fosse mostrato negli anni passati in veste di segretario generale della Fiom. Se questo ora è chiaro – e va salutato come un fatto sicuramente positivo per il sistema italiano delle relazioni industriali – molto meno chiaro è quanto l’appello all’unificazione possa davvero aprire una fase di transizione dalla mera unità d’azione all’unità organica, almeno fra le tre confederazioni sindacali maggiori.
Che cosa suscita la sua perplessità?
Su la Repubblica dello stesso 1° maggio Landini, in un’intervista, osservava che nel secolo passato la divisione tra i sindacati era un riflesso di contrapposizioni politiche oggi del tutto superate; ed è vero. Ma è ancora ben percepibile la distanza tra le concezioni del rapporto tra lavoro e impresa – quindi del ruolo del sindacato – che ancora oggi ispirano rispettivamente la Cgil e la Cisl.
Questo, certo, è un problema. Colpisce, poi, anche una contraddizione che investe proprio la Cgil: una indagine Ipsos ha dimostrato che alle europee quasi il 20% degli iscritti ha votato Lega, con un gradimento per Salvini che sfiora il 44%; e anche se il Pd resta il primo partito tra i tesserati della confederazione di Corso d’Italia, aumentano i simpatizzanti e gli elettori dei Cinque Stelle. Come si spiegano queste cifre, e quale successo può avere, con queste premesse, un’iniziativa di sciopero generale?
Questi dati sono di per sé positivi, perché mostrano una Cgil capace di rappresentare le forze di lavoro sulla base dei loro interessi specifici e indipendentemente dalle loro scelte elettorali. Per altro verso, in una situazione nella quale sei elettori su dieci votano per Lega o M5S una confederazione sindacale incapace di raccogliere adesioni anche in quella maggioranza politica si condannerebbe a una sostanziale debolezza. Detto questo, resta il fatto che anche sul piano dell’azione sindacale è sempre più evidente l’importanza del nuovo spartiacque fondamentale della politica italiana ed europea: quello che oggi divide le forze politiche favorevoli a una accelerazione del processo di costruzione di una Unione Europea sovrana e le forze politiche contrarie o che tendono comunque a rallentare e depotenziare quel processo. È sempre più evidente quanto direttamente e pesantemente questa scelta incida sugli interessi dei lavoratori. E dunque quanto sia importante che una grande Confederazione sindacale si schieri con chiarezza da una parte o dall’altra. Ecco, su questo terreno osservo un ritardo della Cgil: al suo interno convivono, rispetto a questa scelta fondamentale, posizioni diametralmente opposte.
L’ultimo sciopero generale unitario proclamato da Cgil, Cisl e Uil risale al 12 dicembre 2011, contro la legge Fornero, che però poi è stata modificata per iniziativa dell’attuale governo, contro il quale i sindacati sono unitariamente schierati. Quale reale capacità di incidenza hanno oggi i confederali sulle politiche sociali e del lavoro, anche se si muovono unitariamente?
Questa capacità, effettivamente, nell’ultimo decennio si è dimostrata molto scarsa.
Facciamo l’esempio della politica fiscale. Il governo, e principalmente la componente leghista, che dopo la manifestazione unitaria di Reggio Calabria ha manifestato l’intenzione di incontrare i confederali, punta alla flat tax, mentre fra i sindacati torna a farsi strada l’idea di una patrimoniale sulle grandi ricchezze. Come si può aprire un confronto da punti di partenza così distanti? E riusciranno i sindacati a resistere al palese tentativo di Salvini (nella foto qui a sinistra – n.d.r.) di dividere il loro fronte?
Le due posizioni che lei ha menzionato sono davvero diametralmente opposte. Sono però accomunate dalla stessa dose di inattuabilità. Una flat tax che non voglia attestarsi su un’aliquota media, dalla quale i ceti popolari sarebbero penalizzati in modo intollerabile, produce necessariamente una perdita di gettito fiscale che si misura in decine di miliardi: oggi, dunque, è politicamente impensabile. Per altro verso, una patrimoniale ordinaria che voglia produrre un gettito apprezzabile, utilizzabile per una politica seria di investimenti pubblici, dovrebbe necessariamente colpire il ceto medio: se la si limitasse alle grandi ricchezze produrrebbe un gettito irrisorio. Inoltre, essa potrebbe colpire soltanto i beni immobili, perché se estesa ai beni mobili questi fuggirebbero dall’Italia producendo un danno molto superiore al suo gettito: l’esperienza della tassa del Governo Monti sui natanti è stata molto istruttiva. In realtà non ci sono scorciatoie per la crescita economica del Paese, che il Governo possa offrire al Sindacato, o il Sindacato possa proporre al Governo.
Vuol dire che non c’è alcuno spazio per un rilancio della concertazione tra Governo e Parti sociali sulle politiche economiche e industriali?
La concertazione può essere una cosa utilissima, può dare una marcia in più al Governo; ma a una condizione: che tra Governo e Parti sociali ci sia una visione comune almeno sugli obiettivi da raggiungere e i vincoli da rispettare. Se manca questo presupposto, la concertazione non può funzionare; anzi, può diventare un freno per il Paese. E oggi non vedo una visione comune su obiettivi e vincoli non soltanto tra Governo e Parti sociali, ma neppure all’interno stesso della compagine governativa.
Sempre dal lato del Governo, ma nella sua componente grillina, si punta sul salario minimo, che sembra mettere in un angolo la contrattazione nazionale.
Il progetto del ministro Di Maio (nella foto qui a destra – n.d.r.), incorporato nel disegno di legge Catalfo ora in discussion e al Senato, colloca lo standard retributivo orario minimo a un livello tale, che ne risulterebbero aumentate per legge le retribuzioni di metà dei lavoratori italiani. Concepire una misura di questo genere equivale a far propria l’idea della “retribuzione come variabile indipendente”: l’idea, cioè, che si possa disporre un aumento generale significativo delle retribuzioni per decreto, senza che questo influisca negativamente sui livelli occupazionali. Questa è un’idea molto sbagliata.
D’altra parte si assiste a una vera e propria proliferazione di contratti “pirata” con salari sempre più bassi e tutele ridotte, che secondo l’ex presidente dell’Inps Tito Boeri riguarderebbe il 10% della forza lavoro in Italia. Anche sul versante della contrattazione, insomma, si registra un indebolimento del sindacato. Poi, però, l’Istat certifica per la prima volta un calo della disoccupazione al di sotto del 10%. Sono dati contraddittori, di difficile interpretazione. Lei come li legge?
Il calo del tasso di disoccupazione non è di per sé contraddittorio con la diffusione di bassi salari e tutele ridotte. D’altra parte, l’andamento del tasso di disoccupazione non è mai il risultato di scelte di politica economica compiute qualche mese prima. E neppure la conseguenza immediata del trend congiunturale: nella fase negativa del ciclo, di solito, il calo dell’occupazione si verifica con un ritardo dai sei ai dodici mesi rispetto al calo della produzione; e nella fase positiva il calo della disoccupazione si verifica di solito con lo stesso ritardo. Il calo che si registra oggi potrebbe essere ancora una coda della ripresa che si è registrata fino alla fine del 2018.
Sul piano dell’occupazione vede più rosa o più nero nel nostro futuro prossimo?
Non mi farei grandi illusioni sulla base dell’ultimo dato pubblicato dall’Istat. Come spiega bene Francesco Daveri su lavoce.info, ragionando sui dati dell’ultimo decennio, se il PIL non cresce la disoccupazione non scende. Vedrei più rosa se vedessi un Paese capace di essere più attrattivo per gli investimenti; ma vedo, al contrario, un Paese la cui capacità di attrarre gli investimenti ha subìto dei colpi molto duri in questi ultimi mesi.
A che cosa si riferisce, precisamente?
Innanzitutto al fatto che il nostro Governo attuale sta facendo carta straccia di una serie impressionante di impegni assunti dai Governi precedenti, come se fossero impegni assunti da un altro Stato: dagli impegni sulle regole di bilancio al trattato sulla TAV; dagli impegni presi per il gasdotto transadriatico, alle promesse fatte per l’ILVA di Taranto. Poi mi riferisco alla volatilità del nostro quadro legislativo: per esempio, con la riforma del 2015 avevamo allineato il nostro ordinamento del lavoro a quello dei maggiori nostri partner europei; con il “decreto dignità” siamo tornati a costituire una anomalia nel panorama internazionale, da questo punto di vista. Nessun imprenditore investe volentieri in un Paese nel quale il quadro normativo è così volatile e gli impegni assunti vengono disattesi così facilmente. È un aspetto particolare, e particolarmente dannoso, del nostro difetto di cultura delle regole; o, se si preferisce, di quella che gli anglosassoni chiamano civicness.
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