LA CASSAZIONE E IL JOBS ACT

La sentenza della Corte Suprema dell’8 maggio scorso n. 12174 può essere vista come riconferma di un principio ovvio; ma il modo in cui questo principio è applicato nel caso concreto sembra indicare il persistere di una “fronda giudiziale” contro la riforma dei licenziamenti del 2012-2015

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Commento “a caldo” della sentenza della Corte di Cassazione n. 12174/2019 pubblicato sul sito
lavoce.info il 24 maggio 2019 – In argomento v., oltre al portale e agli articoli di cui viene fornito il link nel testo, anche il mio articolo pubblicato sul mensile Mondoperaio, n. 9, settembre 2014, La fine del regime di job property

 

 

Scarica il testo della sentenza della Cassazione 8 maggio 2019 n. 12174

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Nei primi commenti a caldo, la sentenza della Corte di Cassazione 8 maggio 2019 n. 12174, in tema di sanzioni contro i licenziamenti ingiustificati, da alcuni viene additata come un terzo episodio – dopo il “decreto dignità” e la sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale – di sgretolamento della riforma di questa materia varata col Jobs Act del 2015; da altri invece viene considerata come la riconferma di un principio da tempo pacifico, sul quale nessuno può ragionevolmente dissentire. Cerchiamo di capire come stanno davvero le cose.

Dalla property rule alla liability rule

La riforma Fornero del 2012 contiene la regola generale secondo cui la reintegrazione nel posto di lavoro – qualificabile secondo la teoria generale come una property rule – deve essere disposta dal giudice soltanto quando l’invalidità del licenziamento dipenda dall’accertamento di un fatto: la lesione di un diritto assoluto della persona. Per esempio, la discriminazione razziale o religiosa, la rappresaglia antisindacale, il fatto che la lavoratrice licenziata fosse incinta o puerpera, e così via. Quando, invece, l’invalidità del licenziamento viene dichiarata sulla base di una valutazione discrezionale, da parte del giudice, circa la gravità del motivo economico o disciplinare addotto dal datore di lavoro, la sanzione applicabile non è la reintegrazione nel posto di lavoro ma soltanto – come in tutti gli altri ordinamenti europei – un indennizzo, entro un minimo e un massimo stabilito dalla legge: quella che la teoria generale qualifica come una liability rule. In questo quadro, è logico che la stessa legge Fornero preveda la reintegrazione anche per il caso in cui il fatto contestato dall’impresa al lavoratore come infrazione disciplinare non sia mai accaduto: qui la pronuncia del giudice non si basa su di una valutazione discrezionale circa la sufficienza del motivo addotto dall’impresa, ma sull’accertamento di un fatto: un vero e proprio grave abuso del potere disciplinare, che si concreta in una contestazione menzognera.

Negli anni immediatamente successivi, tra il 2012 e il 2014, si registra però una diffusa tendenza dei giudici del lavoro a ridurre la portata effettiva di questa riforma, attraverso un’interpretazione estensiva dei casi nei quali si deve applicare la reintegrazione e non l’indennizzo. Sono espressione di questo orientamento le sentenze che equiparano al caso di “inesistenza del fatto contestato” il caso in cui il fatto contestato sia effettivamente accaduto, ma sia ritenuto dal giudice (talora molto opinabilmente) poco rilevante sul piano disciplinare. Per contrastare questa tendenza giurisprudenziale il legislatore del 2015, nell’articolo 3 del decreto n. 23 (Jobs Act), aggiunge all’espressione “insussistenza del fatto” l’aggettivo “materiale”. Perché si applichi la reintegrazione occorre proprio che il fatto non sia “materialmente” accaduto.

L’ultima pronuncia della Cassazione

Nel caso a cui la sentenza n. 12174 si riferisce, i giudici di merito avevano in precedenza applicato rigorosamente la nuova norma. L’impresa aveva contestato alla lavoratrice l’abbandono del posto di lavoro; la lavoratrice aveva ammesso il fatto (dunque, il fatto “materialmente” sussisteva); i giudici avevano ritenuto quel fatto non sufficientemente grave da giustificare il licenziamento e avevano quindi condannato l’impresa all’indennizzo. Senonché la Corte suprema ora cassa la sentenza e rinvia la causa al giudice di merito perché accerti che il fatto (pur materialmente accaduto) abbia un qualche rilievo disciplinare.

In astratto, quel che la Corte dice è ragionevole e tutto sommato conciliabile con il dettato della norma vigente: per esempio, se la lavoratrice avesse lasciato il posto di lavoro alla fine dell’orario, a ben vedere non si potrebbe neanche parlare di “abbandono del posto di lavoro”; la contestazione sarebbe sostanzialmente vuota di qualsiasi significato apprezzabile. In quel caso il licenziamento dovrebbe essere annullato non sulla base di una opinabile valutazione discrezionale del giudice circa il grado di gravità della mancanza, ma perché la mancanza è radicalmente inesistente. Se però esaminiamo la controversia concreta sulla quale la Corte è intervenuta con questa sentenza, le cose appaiono in un’altra luce: perché in questo caso – e la sentenza ne dà conto esplicitamente – la lavoratrice ha ammesso non solo di aver abbandonato il posto, bensì anche di averlo abbandonato durante l’orario di lavoro. La sentenza di merito non si basa sull’“inesistenza della mancanza”, bensì sulla sua modesta gravità. Qui, dunque, il giudizio negativo sul licenziamento dipende non dall’accertamento di un fatto, ma da una valutazione del giudice circa il suo grado di rilevanza disciplinare. E per questi casi il legislatore è stato chiarissimo nell’indicare la sanzione dell’indennizzo e non quella della reintegrazione.

Lo ha fatto per chiudere lo “spiraglio” che anche dopo il 2012 ha consentito per esempio, sempre con l’avallo della Cassazione, al giudice calabrese di reintegrare il commesso di supermercato ladro abituale di vino, perché “consumava sempre la modesta refurtiva nel luogo di lavoro”, oppure al giudice toscano di reintegrare il pompiere scoperto a compiere una rapina, ma “per una volta sola e fuori orario di lavoro”, o al giudice veneziano di reintegrare il dirigente bancario che froda l’istituto, ma solo occasionalmente”, e così via. Di casi di questo genere sono pieni i repertori.

Il disallineamento tra giurisprudenza e dettato legislativo

È alla chiusura di quello “spiraglio” che la Cassazione oggi si oppone. Lo fa enunciando una massima di diritto in linea generale condivisibile, ma applicandola a un caso cui la massima non si attaglia; e finisce così col collocarsi in linea di continuità con l’orientamento giurisprudenziale che il legislatore del 2015 ha inteso esplicitamente e inequivocabilmente contrastare: quello, cioè, tendente a erodere la portata della riforma dei licenziamenti, reintroducendo la reintegrazione in un’area nella quale la riforma del 2012 aveva inteso sostituirla con l’indennizzo.

Si conferma così il disallineamento, su questo punto delicato, di una parte della giurisprudenza rispetto alla legge vigente. Nella motivazione della sentenza n. 12174 si parla, a questo proposito, di “interpretazione della legge costituzionalmente orientata”; ma quando il testo legislativo è, come in questo caso, univoco nel suo contenuto, il giudice ordinario, se lo ritiene in contrasto con la Costituzione, non può disapplicarlo: ha il dovere di sollevare la questione davanti alla Corte costituzionale.

 

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