NON È IL VOTO DEI VERI POVERI CHE SPIEGA IL SUCCESSO DEL M5S DEL 2018

Risposta ad Antonio Polito: l’assistenza può essere  necessaria ma solo il lavoro  fa uscire davvero dalla povertà – I dati veri sul disagio sociale ed occupazionale

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Articolo di Claudio Negro pubblicato il 25 aprile 2019 sul n. 48 di Mercato del Lavoro News, bollettino della Fondazione Anna Kuliscioff – Su questo sito sono disponibili anche le schede sulle statistiche relative al mercato del lavoro italiano curate da C.N. per lo stesso periodico: v. tra le ultime quella del 4 aprile sull’andamento dell’occupazione  e la precedente sulla questione del minimum wage .
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Claudio Negro

Sul Corriere della Sera del 18 aprile Antonio Polito picchia duro su quelle che, secondo lui, sono le inadeguatezze e gli errori della sinistra nella gestione della crisi del welfare: avere “dimenticato il disagio sociale”, avere ritenuto che “alla povertà doveva pensarci il lavoro”, “ che il problema sociale si potesse risolvere con l’istruzione” e di avere agito solo in difesa dei “garantiti con un lavoro e un reddito, come i destinatari degli 80 € di Renzi”. Avere ignorato i “perdenti della nuova competizione sociale” che “il populismo ha raccolto dietro le sue bandiere”.

La tesi di Polito è che il welfare consista nello stendere “una rete sotto la quale nessun cittadino può cadere”. Si tratta di un punto di vista, peraltro piuttosto distante dalle posizioni che esprimeva Il Riformista quando Polito ne era direttore, che vorrei contestare nel merito, non per far polemica con Polito, del quale ho sempre avuto grande stima, ma perchè la sua posizione è emblematica di una tendenza autoflagellatoria che si va manifestando nella sinistra riformista.

Innanzitutto credo che vada ampiamente ridimensionata la vulgata dei “perdenti… i forgotten men” i poveri che costituirebbero l’esercito dei populisti: nella stessa pagina del giornale l’articolo di Dario Di Vico mostra che le cifre comunemente accettate vanno riviste alla prova dei fatti: 1 milione 650.000 le persone già individuate come destinatarie del Reddito di Cittadinanza (RdC), cui si possono aggiungere 206.000 nuovi destinatari delle nuove domande prenotate ma ancora non lavorate (75% di 100.000 domande moltiplicato 2,65 individui per famiglia) e, per precisione statistica, circa 80.000 immigrati residenti da meno di 10 anni e quindi non aventi diritto. Totale 1.936.000, assai lontani dai 5.058.000 stimati dall’ISTAT e sui quali sono sempre stati fatti tutti i conti e le valutazioni.

Anche pensando che la cifra possa ulteriormente crescere per varie ragioni, difficilmente potrà essere raggiunta la metà dei poveri “attesi”. Chi ha decretato il successo del M5S alle elezioni del 2018 non sono questi “dimenticati”: anche se tutti in blocco avessero votato M5S non avrebbero rappresentato neppure il 25% degli oltre 10 milioni di voti riportati dal partito.

La leggenda dei forgotten come base dei populisti non funziona..!

A meno di introdurre una categoria nuova: quella del forgotten percepito, ossia chi, pur non rientrando nei criteri per definire la povertà assoluta, povero si sente. Naturalmente il sentiment è un indicatore serio e da non sottovalutare, ma va ricondotto a qualche riscontro oggettivo se dobbiamo tenerne conto nel definire politiche di protezione sociale. Ora, le soglie utilizzate dall’ISTAT per definire lo stato di povertà assoluta non sono irragionevolmente basse: ad esempio, è considerata povera una famiglia composta da due adulti e due minori che viva in una grande città del Nord e che non riesca a spendere 1.746,82 € al mese, o una famiglia composta da 5 adulti che non sia in grado di spendere 1.466,77 € al mese in un piccolo centro del Sud.

Sulla base di queste soglie la stima di 5 milioni di poveri è verosimile: tuttavia questi 5 milioni quando veniamo al dunque non saltano fuori!

Come scrive Di Vico, forse il RdC avrà come utile effetto collaterale quello di renderci una statistica vera della povertà in Italia! Ma è opportuno azzardare qualche ipotesi circa i motivi per cui, con ogni evidenza, i dati reali tendono a divergere da quelli stimati.

Credo che la ragione sia simile a quella per cui i dati comunemente diffusi sull’ammontare delle rendite pensionistiche mostrano un panorama desolato di anziani alla fame, ma trascurano di dire che ogni pensionato reale è percettore mediamente di 1,5 rendite pensionistiche, il che cambia sostanzialmente il panorama. Analogamente una percentuale difficile da precisare, ma che probabilmente può aggirarsi attorno al 50% sulla base dei risultati sopra esaminati del RdC, dei teorici poveri è destinatario di un mix di interventi/sussidi a carico dei Comuni, delle Regioni o di altre provvidenze con svariate motivazioni (famiglie numerose, sostegno allo studio, maternità, aiuto disabili, aiuto affitto, ecc.) che alla fine determinano un reddito reale che le porta fuori dalla condizione di povertà statisticamente definita e dai requisiti previsti per il RdC. Non certamente ad una condizione di benessere, ma questa ben difficilmente può, nella realtà dell’Occidente del terzo millennio, essere garantita  dal Welfare.

E qui entra il discorso sul lavoro: non aveva torto la sinistra, a dire che è l’unico rimedio reale alla povertà. Il 26,7% (dati ISTAT 2017) dei poveri sono disoccupati in cerca di lavoro, l’11,9% sono disoccupati non attivi, solo il 4% sono pensionati. Soltanto il 6% degli occupati rientra nella fascia dei poveri (il che implica comunque aprire una riflessione sui working poors).

Inoltre: i dati ci dimostrano che effettivamente esiste un rapporto inverso tra istruzione e povertà. ISTAT ci dice che le famiglie in cui la persona di riferimento ha soltanto la licenza elementare cadono in condizioni di povertà nel 10.7% dei casi, e se ha la licenza media nel 9,6%. Se ha un titolo di studio superiore la percentuale di povertà precipita al 3,6%.. Occupazione e istruzione (in quanto funzionale all’occupazione) sono effettivamente le assicurazioni più certe contro la povertà. E allora il problema principale che dovremmo porci, prima ancora della rete di sicurezza è quello dell’istruzione – formazione e delle politiche di servizio al lavoro.

Infine: Renzi avrebbe privilegiato con gli 80 € i “garantiti”. In realtà si tratta di un’operazione diversa, dal segno non assistenziale: tagliare il cuneo fiscale-contributivo significa aumentare le retribuzioni nette e quindi ridurre il costo del lavoro. Un provvedimento sul versante della produttività e non del welfare, ancora insufficiente ma orientato nella direzione da sempre invocata da Sindacati e Imprenditori per far crescere occupazione e competitività.

Dal ragionamento di Polito pare uscire una visione del welfare come soluzione alternativa per chi non lavora, il che sarebbe del tutto condivisibile se si tratti di un sussidio temporaneo legato ad un percorso di inserimento lavorativo (come è in tutta Europa) salvo casi eccezionali di persone non in grado di lavorare per patologie o età (che però di solito sono assistite con rendite ad hoc), ma non se crea una condizione in cui, di fatto, si possa scegliere tra sussidio e lavoro.

Il che è esattamente ciò che produrrà il Reddito di Cittadinanza; ma ciò non infastidisce Polito, che anzi sottoscrive l’opinione del Prof. Tridico: “sottrarre le persone alla povertà conta di più che avviarle al lavoro”. Ma questa interpretazione ha molto poco a che fare con la “rete di sicurezza”.

Ma torniamo alla questione di fondo: quanti sono i poveri “veri” in Italia? Quanti sono i disoccupati anche non poveri? Qual’è la priorità di un’agenda di governo che pensi al futuro e non alle prossime elezioni? L’assistenza (pochi, maledetti e subito!) o l’occupazione?

Ovvio che l’uno non esclude l’altra, ma dove va messo l’accento? Questa, e va resa esplicita e valorizzata, è la distanza che corre tra il welfare del riformismo liberal socialista e l’assistenzialismo populista.

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