Se l’obbiettivo è aumentare l’occupazione, ridurre l’orario di lavoro per decreto non è una grande idea, soprattutto se a parità di retribuzione – Una discussione sull’organizzazione dell’orario di lavoro, soprattutto nei contratti collettivi, sarebbe comunque utile
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Articolo di Cyprien Batut, Andrea Garnero e Alessandro Tondini, pubblicato sul sito lavoce.info il 16 aprile 2o19 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico del 24 aprile 2017
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Più ricco il Paese, meno si lavora
“Lavorare meno per lavorare tutti”. Torna nel dibattito italiano uno slogan antico dal fascino duraturo. Dal dopoguerra a oggi, le ore di lavoro annuali per lavoratore sono scese in maniera significativa in quasi tutti i paesi Ocse. Se consideriamo appunto i paesi Ocse, più una nazione è ricca, minori sono le ore di lavoro, tanto che il paese in cui si lavora di più è il Messico, quello in cui si lavora di meno la Germania (anche se la comparazione soffre di definizioni e fonti diverse e va quindi trattata con precauzione). A guardare il trend storico, è assolutamente possibile lavorare meno, lavorando tutti, ma il segreto è, come al solito, la produttività. Se si lavora “bene”, si può produrre di più e meglio e quindi essere più ricchi lavorando meno.
Figura 1 – Ore medie totali di lavoro per lavoratore nei paesi Ocse
Senza aspettare la crescita e la produttività, che in Italia latitano da tempo, si può forzare la mano con un intervento legislativo?
Chi lo propone crede nella teoria della “ripartizione del lavoro” (work-sharing) e cioè che per un determinato livello di produzione, ridurre il numero di ore per lavoratore, anche a salario invariato, permetta di aumentare il numero di persone che lavorano perché le imprese non hanno altri margini di aggiustamento. Una diminuzione delle ore lavorate porterebbe anche ad aumenti di produttività, perché chi lavora meno tende a essere più produttivo. Secondo la teoria “classica”, invece, una diminuzione dell’orario di lavoro, senza una riduzione salariale equivalente, corrisponde a un aumento del costo orario del lavoro e quindi a un calo dell’occupazione.
Gli studi sugli Stati che hanno ridotto l’orario
Cosa dice l’evidenza empirica? La letteratura al riguardo è limitata a pochi paesi e in alcuni casi ancora oggetto di dibattito animato, ma i risultati per ora non sembrano fornire elementi per validare la teoria della ripartizione del lavoro.
Le leggi francesi degli anni Ottanta e Novanta con cui i governi socialisti approvarono riforme significative dell’orario di lavoro a parità di salario sono state oggetto di vari studi. Bruno Crépon e Francis Kramarz (2002), per esempio, analizzando la riforma francese del 1982, che ha ridotto le ore settimanali da 40 a 39 a salario invariato, non trovano un effetto positivo sull’occupazione, ma, anzi, un aumento del rischio di disoccupazione a causa del costo orario più elevato, in linea con le previsioni della “teoria classica”. Matthieu Chemin e Etienne Wasmer (2009) studiano l’impatto della famosa riforma delle 35 ore di fine anni Novanta e anch’essi, comparando con il resto della Francia l’andamento dell’occupazione in Alsazia-Mosella, regione meno toccata dalla riforma in quanto più autonoma per motivi storici, non trovano effetti particolari (lo studio, però, è stato non poco criticato in patria).
I risultati per altri paesi vanno in direzione simile. In Germania, per esempio, Jennifer Hunt (1999) non trova effetti positivi delle riduzioni graduali degli orari di lavoro avvenute tra gli anni Ottanta e Novanta. Anche nel caso del Québec, dove l’orario di lavoro è stato gradualmente ridotto da 44 a 40 ore, non si sono registrati aumenti del numero di occupati (Mikal Skuterud, 2007). Stessa storia in Cile: la riduzione nel 2001 da 48 a 45 ore non ha avuto effetti tangibili sul numero di occupati (Rafel Sanchez, 2013). Un paese in controtendenza, invece, è il Portogallo dove secondo Pedro S. Raposo e Jan C. Van Ours (2010) la riforma che nel 1996 ha fatto scendere da 44 a 40 le ore di lavoro settimanali ha ridotto il tasso di distruzione di posti di lavoro (cioè licenziamenti o chiusure aziendali) con un effetto positivo sul totale dell’occupazione. Gli autori, cercando di comprendere il risultato in controtendenza con il resto della letteratura, ipotizzano che l’effetto positivo sia dovuto ai più ampi margini di flessibilità di aggiustamento dell’orario di lavoro che la riforma ha dato alle imprese.
Le esperienze europee non sembrano suggerire che ridurre le ore di lavoro porti ad aumenti dell’occupazione. Tuttavia, la discussione sul tempo di lavoro resta pertinente se si volge lo sguardo, e gli obiettivi, verso altre questioni: uno studio sulle riforme in Francia e Portogallo (Anthony Lepinteur, 2018), per esempio, fa vedere come quelle degli anni Novanta abbiano portato nei due paesi a un aumento del benessere dei lavoratori, con un effetto duraturo nel tempo. Altri studi, poi, mostrano come, in casi specifici, orari ridotti possano avere effetti benefici sulla produttività del singolo lavoratore (si vedano, per esempio, John Pencavel, 2015 e Marion Collewet e Jan Sauermann, 2017).
In conclusione, tornando al caso italiano, pare sconsigliabile muoversi per decreto, tanto più se l’obiettivo è quello di aumentare l’occupazione. Una discussione più ampia sull’organizzazione dell’orario di lavoro, anche e soprattutto nei contratti collettivi, sarebbe però utile, per uscire da una logica di orario di lavoro come strumento di controllo e mettere un accento più forte sulle questioni di produttività e benessere.
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