Se è difficile individuare un criterio unico per la determinazione di un salario minimo orario che possa applicarsi in ciascuna delle regioni italiane, figuriamoci quanto lo sia individuarne uno che funzioni allo stesso tempo per la Romania e per la Germania o il Lussemburgo
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Intervista a cura di Laura Carcano pubblicata l’Agenzia di stampa La Presse il 19 marzo 2019 – In argomento v. anche le opinioni espresse recentemente da Giuliano Cazzola e da Claudio Negro
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Milano, 19 marzo (LaPresse) – Introdurre un salario minimo europeo? “Avrebbe l’obiettivo di proteggere i lavoratori italiani dalla concorrenza di quelli dell’est, soprattutto serbi, rumeni e polacchi. Ma una misura di questo genere appartiene al mondo della fantascienza: è difficilissimo individuare un criterio unico per la determinazione di un salario minimo orario che possa applicarsi in ciascuna delle regioni italiane, figuriamoci quanto lo sia individuarne uno che funzioni allo stesso tempo per la Romania e per la Germania o il Lussemburgo”. Parola di Pietro Ichino, giuslavorista, già senatore del Partito democratico, considerato il padre del Jobs act, intervistato da LaPresse sulla proposta del premier Giuseppe Conte.
DOMANDA. Questa del premier Conte è una idea di destra o di sinistra?
RISPOSTA. Questo è un terreno sul quale sinistra e destra si incontrano e si sposano facilmente. Negli USA propone qualche cosa di analogo Bernie Sanders, all’estrema sinistra dello schieramento politico, sostenendo che dovrebbero essere inibite le importazioni di prodotti provenienti da Stati che non applichino un minimum wage almeno pari a quello statunitense. E la proposta fa sponda al protezionismo del presidente Trump: in entrambi i casi l’obiettivo politico è di proteggere i lavoratori statunitensi dalla concorrenza straniera. Una cosa diversa da ciò che propone Conte è quella proposta da Macron nella sua recente lettera agli europei, che è in pratica una riedizione aggiornata della convenzione n. 26 del 1928 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.
D. Che cosa dice quella convenzione?
R. Impone che si adottino «metodi che permettano di fissare le aliquote minime di salari per i lavoratori occupati nelle industrie o in rami di industrie (in modo particolare nelle industrie a domicilio), ove non esista un regime efficace per la fissazione dei salari mediante contratto collettivo o in altro modo, e laddove i salari siano eccessivamente bassi.» Si può pensare a una direttiva europea che riprenda, aggiorni e perfezioni una norma di questo genere.
D. Invece un salario minimo unico continentale nell’Unione Europea che effetto avrebbe?
R. Il premier Conte lo propone con l’obiettivo di proteggere i lavoratori italiani dalla concorrenza di quelli dell’est: soprattutto serbi, rumeni e polacchi. Ma una misura di questo genere appartiene al mondo della fantascienza: è difficilissimo individuare un criterio unico per la determinazione di un salario minimo orario che possa applicarsi in ciascuna delle regioni italiane, figuriamoci quanto lo sia individuarne uno che funzioni allo stesso tempo per la Romania e per la Germania o il Lussemburgo.
D. L’introduzione di un salario minimo o minimum wage secondo lei è impossibile nel nostro Paese?
R. Non sostengo questo. Osservo soltanto che è una misura molto problematica: un minimum wage adatto ai livelli di produttività e di costo della vita delle regioni del Nord sarebbe troppo alto per quelle del Sud; e viceversa. Per varare uno standard minimo capace di funzionare bene occorrerebbe prevedere un suo variare almeno col variare del costo della vita in ciascuna regione; ma questo urterebbe un tabù della nostra cultura sindacale: verrebbe subito bollato come un ritorno alle “gabbie salariali” degli anni ’50 e ’60.
D. Ma l‘Italia ha davvero bisogno di un salario minimo orario?
R. Potrebbe essere utile per coprire i pochi settori del lavoro subordinato dove oggi la copertura del contratto collettivo nazionale non arriva. Ma sarebbe utilissimo soprattutto per tutto il settore delle collaborazioni autonome continuative, ivi compresi i praticanti degli studi legali: settore privo non soltanto di un contratto collettivo ma anche dello stesso diritto del lavoro. E non sarebbe difficile adattare uno standard minimo espresso in termini orari alle esigenze proprie dei settori nei quali la retribuzione è stabilita “a pezzo”, come quello dei riders collegati alla centrale operativa mediante piattaforma.
D. Stefano Scarpetta dell’Ocse ha fatto notare che in Italia la percentuale dei lavoratori dipendenti coperta dai 900 accordi collettivi di settore a livello nazionale è tra il 96 e il 99 per cento Quindi quasi tutti i dipendenti oggi hanno già, di fatto, un salario minimo orario.
R. Questo è il motivo per cui nella legge-delega del 2014, il cosiddetto Jobs Act, avevamo inserito anche la delega al Governo per l’istituzione di uno standard minimo applicabile solo nei settori del lavoro subordinato e parasubordinato non coperti da contratto collettivo. Senonché poi la delega su questo punto non è stata esercitata.
D. Un salario minimo di nove euro all’ora non rischia di essere troppo alto comunque? Le imprese che operano in questi settori si troverebbero ad affrontare aumenti di costo che potrebbero spingerle a ridurre il numero di occupati?
R. Anche a me sembra che 9 euro sia uno standard orario eccessivo. Ci sono Paesi dell’OCDE con minimum wages notevolmente alti, come la Francia, che lo colloca a un livello pari circa al 60 per cento della retribuzione mediana, o la Germania che lo colloca all’incirca al 50 per cento. Ma non conosco Paesi che lo collochino all’80 per cento, come sarebbero i 9 euro italiani.
D. Però la nuova norma del 2017 sul lavoro occasionale adotta proprio il livello dei 9 euro come minimo orario.
R. Infatti quel livello per il lavoro occasionale è eccessivo. È uno standard che rischia di tagliar fuori un dieci per cento dell’occupazione attuale al Nord; ma al Sud sarebbe assolutamente fuori luogo. Infatti, al Sud il livello di diffusione del lavoro occasionale regolare, secondo quella norma, è pari a zero. Questo dovrebbe far riflettere.
R. Cazzola dice che le proposte sul tappeto rischiano di produrre una uguaglianza formale fittizia che maschera ineguaglianza sostanziale e genera illegalità. Meglio una decentralizzazione dei contratti che al Sud allineerebbe i salari alla produttività reale, facendo emergere il sommerso, al Nord garantirebbe salari adeguati. Lei che ne pensa ?
R. Su questo punto concordo pienamente con Giuliano Cazzola.
D. Di Maio dice di no perché il salario minimo non riguarda i settori con un contratto collettivo nazionale.
R. Sì, per questo aspetto il disegno di legge del M5S ricalca il Jobs Act.
D. Come si aggancia il salario minimo dei 5 stelle col loro reddito di cittadinanza?
R. Hanno fatto propria l’idea della retribuzione minima come cavallo di battaglia proprio perché si sono accorti di avere stabilito un sussidio di povertà di entità troppo alta: tale addirittura da diventare un disincentivo al lavoro a tempo parziale, se retribuito secondo i minimi tabellari dei contratti collettivi. Ma se pensano di poter aumentare i livelli salariali per legge, col solo mettere uno standard orario molto elevato sulla Gazzetta Ufficiale, si sbagliano di grosso.
D. Che cosa vuol dire?
R. Che i livelli retributivi aumentano in conseguenza dell’aumento della produttività del lavoro e di un sindacato capace di controllare che i benefici dell’aumento di produttività vengano ripartiti correttamente tra impresa e lavoro. A questo serve essenzialmente la contrattazione collettiva aziendale; ed è per questo che bisogna puntare sulla contrattazione aziendale. Come hanno fatto i Governi della passata legislatura, con risultati tutto sommato molto buoni, mi sembra.
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