LA QUESTIONE DEL MINIMUM WAGE – 2. SOLUZIONE O PROBLEMA?

Le proposte sul tappeto rischiano di produrre una uguaglianza formale fittizia che maschera ineguaglianza sostanziale e genera illegalità –  Meglio una decentralizzazione dei contratti che al Sud allineerebbe i salari alla produttività reale, facendo emergere il sommerso, al Nord garantirebbe salari adeguati

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Articolo
di Giuliano Cazzola pubblicato sul Bollettino ADAPT, 11 marzo 2019 – In argomento v. anche Minimum Wage – 1. Qualche osservazione di buon senso
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Giuliano Cazzola

Nelle “Dieci bugie” raccontate nell’ottimo saggio (Mondadori) di Antonio Barbano, la quinta – scrive – è di tutte la più ingiusta. “Lo racconta l’esperienza di una giovane ragioniera, impiegata in una agenzia di assicurazioni in Campania. È il giorno del pagamento dello stipendio. La ragazza riceve la sua busta paga di 1.200 euro, insieme ad un assegno circolare a lei intestato e non trasferibile dello stesso importo. Esce dall’agenzia – prosegue Barbano – si reca all’ufficio postale dove deposita l’assegno sul suo conto, prelevando 500 euro in banconote. Rientra in ufficio e consegna la somma di denaro al suo datore di lavoro. È il prezzo di un ricatto, comune nel Sud – conclude –a molte aziende e a molte lavoratrici”. “L’ironia della sorte – aggiunge ancora Barbano – ha voluto che questo profilo coincidesse in parte con l’azienda di famiglia del vice presidente del Consiglio, Luigi Di Maio, dove il pagamento in nero degli operai si associava all’abusivismo del capannone e ai debiti non saldati con Equitalia”.

Ma per quali motivi la ragazza campana accetta questo trattamento? Barbano spiega che, se sporgesse denuncia, faticherebbe a trovare un altro lavoro. Ci permettiamo di aggiungere che, forse, quella giovane ragioniera si considera meno sfortunata di una sua amica che è pagata in nero. O di un’altra che è disoccupata. A lei almeno versano i contributi sull’importo scritto in busta paga.

In ogni caso all’impiegata della società di assicurazioni viene corrisposta una retribuzione che, nei fatti, è inferiore all’importo del reddito di cittadinanza (RdC) e ancor di più alla cifra (858 euro) al di sotto della quale un assistito dai centri per l’impiego (CpI), in regime di RdC, è autorizzato a rifiutare il lavoro che gli viene offerto. Perché accade tutto questo? Si può discettare a lungo su di una subcultura intessuta di illegalità, molto diffusa nel Mezzogiorno. Poi bisogna fermarsi lì per non cadere nella trappola delle valutazioni antropologiche, che, purtroppo, stanno tornando di attualità.

Nell’ottica di razionalizzare e semplificare l’attività ispettiva, nell’ambito del Jobs Act, è stato istituito, persino, l’Ispettorato nazionale del lavoro (di cui ora è a capo addirittura un Generale), sottoposto alla vigilanza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali la cui funzione principale è rappresentata dal coordinamento su tutto il territorio nazionale della vigilanza in materia di lavoro, assicurazione e contribuzione obbligatoria. Il fatto è che fenomeni irregolari ed illeciti come quelli narrati, in certe realtà, sono talmente diffusi da essere evidenti e, alla lunga, tollerati anche da chi avrebbe il potere di accertarli e reprimerli (tav.1).  Ma, prima o poi, la realtà si impone, quando le regole non servono la società ma si ha la pretesa che sia la società ad adeguarsi forzatamente alle regole.  “Ma non basteranno da sole le denunce – sostiene Barbano –  a cambiare un costume che ha un contesto specifico di precarietà. E che dimostra quanto falsamente ideologica sia la supposta omogeneità del mercato del lavoro in Italia e quanto sia perciò ipocrita e pericolosa l’idea di un contratto unico, uguale per tutti tanto nella parte normativa quanto in quella salariale, deciso dai sindacati e dalle associazioni datoriali con una contrattazione centralizzata”.

Il Paese si condanna così a garantire una fittizia uguaglianza formale dei diritti che si traduce in un’ineguaglianza sostanziale e nell’illegalità. Al dunque, “la decentralizzazione dei contratti …. al Sud allineerebbe i salari alla produttività reale, facendo emergere il sommerso e prosciugando la disoccupazione, al Nord garantirebbe salari adeguati rispetto al maggior costo della vita”.

Il sistema, incentrato sulla contrattazione di prossimità, potrebbe essere “tenuto insieme” dall’istituzione di un salario minimo legale. Lo smic è l’ultima sfida gettata in campo dal M5S, dopo la vittoria di Nicola Zingaretti nelle “primarie” del Pd.

Ma in un contesto come quello che si delinea nel mercato del lavoro italiano dove tra breve farà la sua comparsa solenne il reddito di cittadinanza a cui il percettore potrà rinunciare solo per accettare un lavoro retribuito con una maggiorazione del 10%, vi è spazio per un salario minimo legale? A quale livello dovrebbe essere fissato? E a quale platea essere rivolto? In una relazione del dicembre scorso, il presidente del Cnel Tiziano Treu, sostenne che: “Il salario minimo non è certo l’unica misura che può contrastare il lavoro povero, ma potrebbe garantire – in virtù di una maggiore forza prescrittiva – una protezione più efficace nei confronti dei bassi salari, riducendo la discrezionalità e gli abusi nella determinazione dei livelli retributivi”. Nei confronti di alcuni gruppi di lavoratori, come ad esempio i giovani (che spesso alternano studio e lavoro) e gli apprendisti (per i quali il contenuto formativo costituisce un costo aggiuntivo per le imprese) – ecco il caveat di un grande giurista, ndr – dovrebbe essere utilizzata particolare cautela introducendo deroghe come già avviene in molti paesi europei”.

Nello scenario italiano, il concetto di salario e di compenso minimo orario non dovrebbe travalicare, pertanto, i criteri residuali previsti sia nella riforma del mercato del lavoro del 2012, sia nel jobs act (oggetto in questo caso dell’unica delega che non ha avuto attuazione). Un istituto di carattere universale contrasterebbe con il ruolo svolto, in Italia, dai minimi tabellari negoziati nei contratti nazionali ed elevati, da una giurisprudenza consolidata, a rappresentare quella “retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”, prevista dall’articolo 36 Cost.  Da noi il salario minimo esiste già anche se non si chiama così.

Inoltre l’esperienza insegna che, nonostante la finta intransigenza dei sindacati in difesa di un’unica contrattazione nazionale applicata dalle Alpi a Lampedusa, il ccnl, se necessario, è capace di adattarsi alle circostanze (meglio comunque di una legge). Premesso che gli sgravi contributivi sono accompagnati dalla c.d. clausola sociale in forza della quale essi sono concessi solamente ai datori che rispettano i contratti di lavoro, la storia delle relazioni industriali nel Sud è ricca di deroghe più o meno esplicite. Si va dai contratti di riallineamento per assicurare il rispetto della clausola sociale e i conseguenti benefici concedendo al datore del tempo per adeguarsi, fino ai provvedimenti per l’emersione del sommerso: dichiarazione ai CLES, concordato, regolarizzazione agevolata e contribuzione di favore per gli anni successivi.

A queste considerazioni si può obiettare che il punto di arrivo è comunque l’applicazione di un contratto nazionale. Salvo non voler ammettere, come diceva un filosofo del Romanticismo, “che la caccia val più della preda”. Perché ci si deve accontentare, in questi casi, solo della caccia.

Tav. 1. Attività di vigilanza Inps 2017

N. accertamenti ispettivi (totale) 19.991
di cui, accertamenti ispettivi con esito irregolare 15.458
N. lavoratori in posizione irregolare 109.075
di cui lavoratori completamente in nero 5.243
Totale Generale accertato (milioni di euro) di cui: 894
Importo prestazioni indebite annullate (milioni di euro) 199
Importo evaso accertato (compreso sanzioni in milioni di euro) 694

(fonte: Rapporto 2018)

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