BETTER TO HAVE ROUTES INSTEAD OF ROOTS

Chi pensa che la tendenza all’aumento dei contratti a termine sia una conseguenza degli interventi legislativi dell’ultimo quarto di secolo si illude di poterla contrastare ripristinando vecchie tecniche normative; ma la tendenza è globale – Per aumentare sicurezza sociale e salari occorre puntare sul diritto a una formazione mirata e di qualità

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Intervista a cura di Enrico Marro, pubblicata sul
Corriere della Sera il 22 febbraio 2019 – In argomento v. anche i dati riportati dal n. 43 del bollettino della Fondazione Anna Kuliscioff, Mercato del Lavoro News
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Professor Ichino, le scelte politiche in materia di lavoro implicano sempre delle ricadute sul rapporto tra flessibilità e sicurezza economica e professionale. Dopo una stagione in cui i governi hanno puntato soprattutto sulla flessibilità ora la bilancia sembra pendere dal lato della sicurezza, con il governo Conte. Mi riferisco al decreto dignità, ma a ben vedere anche al reddito di cittadinanza. Perché, secondo lei?
La sicurezza economica è un bene della vita che tutti i governi si propongono di perseguire. I governi Renzi e Gentiloni lo hanno fatto rafforzando la posizione del lavoratore nel mercato, nella transizione dal vecchio al nuovo lavoro, rendendo universale il trattamento di disoccupazione, la cosiddetta NASpI, aumentandone durata ed entità, e istituendo il diritto all’assistenza intensiva nella ricerca del nuovo lavoro, retribuita “a risultato” con l’assegno di ricollocazione. Il governo Conte ha invece ritenuto di farlo ripristinando vecchie rigidità del rapporto di lavoro e abolendo il diritto dei disoccupati all’assegno di ricollocazione. I fatti diranno quale delle due strategie sia la migliore.

Non crede che si sia arrivati a questo punto anche perché nella stagione della flexsecurity si è attuata la flessibilità (contratti a tutele crescenti, contratti a termine liberalizzati, voucher, ecc.) senza la sicurezza?
Non mi pare che i dati disponibili dicano questo. Su cento rapporti di lavoro a tempo indeterminato, i licenziamenti erano ogni anno 1,4 prima della riforma Fornero del 2012, sono rimasti 1,4 il 2012 e il 2015, e se sono aumentati a 1,5 dal 2015 quello 0,1 per cento in più è dovuto soltanto alle maggiore complessità della disciplina delle dimissioni, che ha fatto sì che in alcuni casi le parti sono costrette a sciogliere il rapporto simulando un licenziamento: tant’è vero che il tasso delle dimissioni dal 2015 è diminuito appunto dello 0,1 per cento.

Non sarebbe stato meglio, col senno di poi, partire con la sicurezza (cioè le politiche attive e la riforma degli ammortizzatori, della formazione, del collocamento) e poi attuare la flessibilità? Usando una metafora si potrebbe dire che prima di lanciarsi nel vuoto è meglio aprire il paracadute.
I dati, però, dicono che non c’è stato alcun salto nel vuoto: i licenziamenti non sono affatto aumentati nelle aree nella quali la legge Fornero e poi la riforma del 2015 si applicano. Il che significa che i due interventi legislativi sono stati calibrati abbastanza bene. C’è, è vero, una tendenza all’aumento dei contratti a temine; ma è una tendenza che si osserva in tutti i Paesi dell’Occidente sviluppato. Chi pensa che questa sia una conseguenza degli interventi legislativi degli ultimi anni, si illude di poterla contrastare ripristinando vecchie tecniche normative. Ma il risultato di questa illusione è quello che i dati di questi giorni stanno riportando.

Quale?
In ottobre e novembre, in termini di stock, si è registrato un forte aumento dei contratti a termine, +47.000, e una riduzione dei contratti a tempo indeterminato, -35.000, invertendosi il saldo positivo dei primi sei mesi dell’anno. Evidentemente il “decreto Dignità”, almeno per ora, non sta producendo i risultati voluti.

Ci sono segnali contrastanti sull’atteggiamento dei giovani. Da un lato si osserva una grande disponibilità o anche richiesta di flessibilità per meglio organizzare la propria vita tra lavoro e tempo libero, dall’altro, soprattutto negli ultimi mesi, si nota una più alta aspirazione all’impiego pubblico quale fonte di stabilità. Secondo lei come stanno le cose?
Non si deve mai generalizzare. Certo, nel nostro Paese prevale una cultura del lavoro arretrata, non al passo coi tempi. Solo una parte della nuova generazione ha fatto proprio il motto del ministro del Lavoro del Governo Clinton, Robert Reich, secondo il quale nel mercato del lavoro “better to have routes instead of roots”, ovvero: “meglio avere percorsi che radici”.

Sicurezza significa anche un salario adeguato. Da questo punto di vista fa una certa impressione il dato fornito dal presidente dell’Inps, Tito Boeri, secondo il quale quasi il 40% dei lavoratori del Mezzogiorno riceve una retribuzione inferiore ai 780 euro del reddito di cittadinanza pieno.
Il dato riportato da Tito Boeri indica il rischio gravissimo che corriamo con il c.d. “reddito di cittadinanza”: il rischio, cioè, di un disincentivo al lavoro. L’Italia soffre già di un tasso di partecipazione al mercato del lavoro bassissimo: 58 per cento della popolazione in età attiva, con punte notevolmente più basse nel Mezzogiorno: proprio lì la nuova misura varata dal governo rischia di produrre un abbassamento ulteriore, oppure un rafforzamento ulteriore degli incentivi a lavorare al nero.

Lo stesso dato, però, sembra anche confermare che alla flessibilità del lavoro non corrisponde un salario premiante, come forse dovrebbe essere. Lei che dice?
È così. Però, in una economia aperta e concorrenziale qual è la nostra, l’aumento delle retribuzioni non possiamo attendercelo dall’aumento degli standard inderogabili: può produrlo stabilmente soltanto un aumento della produttività del lavoro. Per questo dobbiamo investire molto più di quanto stiamo facendo su di un sistema di formazione efficace, mirata a ciò che la parte più evoluta del tessuto produttivo richiede.

Non crede che le parti sociali (imprese e sindacati) siano rimaste indietro rispetto a questi temi, arroccate su contratti di lavoro che non hanno fatto nulla per superare la dicotomia tra insiders e outsiders che lei per primo ha evidenziato tanti anni fa?
Anche qui non generalizzerei. Il contratto collettivo dei metalmeccanici stipulato nel dicembre 2017 da Federmeccanica con Fiom Fim e Uilm segna un aggiornamento molto importante del sistema delle relazioni industriali; tra le altre cose, per la prima volta istituisce un diritto soggettivo alla formazione professionale efficace. Certo, altri settori sono ancora rimasti indietro. All’ammodernamento del sistema, comunque, non giova certo la politica del lavoro del nostro governo attuale, volta a ripristinare vecchie ingessature del rapporto di lavoro e a smontare tutto quello che i governi precedenti hanno fatto per rafforzare i servizi alle persone e alle imprese nel mercato del lavoro.

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