La sentenza costituzionale sui licenziamenti ignora il confronto con il diritto costituzionale degli altri Paesi UE, segnando una inversione di tendenza nel processo di armonizzazione del nostro diritto del lavoro rispetto ai nostri partner – Resta però confermato il superamento del regime di job property basato sul vecchio articolo 18
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Il mio commento a caldo diffuso alla stampa l’8 novembre 2018, a seguito della pubblicazione della motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, che ha modificato il contenuto dell’articolo 3 del d.lgs. n. 23/2015, in materia di indennizzo del lavoratore nel caso di licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato – In argomento v. anche il mio commento all’ordinanza del Tribunale di Roma 26 luglio 2017 che aveva sollevato la questione di costituzionalità .
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Su una questione sostanzialmente identica a quella decisa dalla Corte costituzionale italiana con la sentenza n. 194/2018, nel 2015 il Conseil Constitutionnel, che è la Corte costituzionale francese, si è pronunciato in modo opposto: cioè ha riconosciuto come pienamente ragionevole e compatibile con i principi di uguaglianza e di protezione del lavoro la nuova legge francese che stabilisce i parametri per l’indennizzo collegandoli all’anzianità di servizio della persona licenziata (la legge francese li collegava anche alle dimensioni dell’impresa, ma il Conseil Constitutionnel ha ritenuto questa parte della norma – e solo questa – incompatibile con il principio di parità di trattamento fra i lavoratori). Credo che tra le due Corti quella che ha visto giusto sia quella francese. Sta di fatto che la sentenza della nostra, combinata con la correzione legislativa apportata nell’estate scorsa alla nuova disciplina, ha l’effetto di tornare ad allontanare l’ordinamento italiano rispetto agli ordinamenti dei nostri parner europei.
La riforma della materia dei licenziamenti avviata nel 2012 e completata nel 2015 si era proposta di allineare l’ordinamento italiano a quello degli altri Paesi europei, dove, nel caso in cui il giudice ravvisi un difetto del motivo del licenziamento, è sempre previsto un indennizzo, e con limiti massimi per lo più inferiori rispetto al nostro: in Germania 18 mensilità, in Francia 20, in Gran Bretagna al di sotto delle 12 mensilità; solo in Spagna è previsto un tetto massimo di 24 mensilità, ma con un minimo pari a 1 mensilità: una per ogni anno di anzianità in azienda. Dunque la riforma italiana del 2015, fissando un minimo di 4 e un massimo di 24, restava – diciamo così – al top della severità rispetto agli standard europei. Ora, poi, che il nuovo Governo ha aumentato il limite minimo a 6 e il massimo a 36, eravamo tornati a essere decisamente fuori-standard rispetto al resto d’Europa. Ebbene, la sentenza della Corte accentua l’anomalia, allargando notevolmente la discrezionalità del giudice nella determinazione dell’entità dell’indennizzo.
La nostra Corte costituzionale non si chiede come possa sostenersi che in Italia sia incompatibile con i principi di uguaglianza e di protezione del lavoro una norma in tutto e per tutto analoga a quella che si applica pacificamente da decenni in altri Paesi dell’Unione Europea. Né ritiene di doversi confrontare con giudizi di costituzionalità opposti, come quello espresso da una corte omologa, qual è il Conseil constitutionnel francese.
In Italia nei decenni passati si era registrato, in materia di licenziamenti, un tasso di contenzioso giudiziale nettamente superiore rispetto a quello degli altri maggiori Paesi europei; ma questo divario si era drasticamente ridotto, a seguito delle riforme del 2012 e del 2015. Ora è presumibile che esso andrà di nuovo allargandosi: a beneficio non della generalità dei lavoratori, ma degli avvocati giuslavoristi.
Colpisce, infine, che la Corte costituzionale ragioni sulla costituzionalità di una disciplina dei licenziamenti, e in particolare della congruità dell’indennizzo da essa previsto, ignorando del tutto il livello del sostegno economico e dei servizi di assistenza nel mercato del lavoro offerti al lavoratore licenziato; o comunque omettendo di attribuirgli alcun rilievo nella valutazione circa la ragionevolezza dell’indennizzo previsto dalla legge. Così implicitamente sancendo l’irrilevanza di questo dato per la determinazione del costo sociale del licenziamento.
La sola nota positiva, in questa sentenza, è che essa ribadisce esplicitamente la piena compatibilità con la Costituzione italiana, in materia di apparato sanzionatorio contro il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato, della scelta del legislatore ordinario, compiuta parzialmente con la riforma del 2012 e completata nel 2015, della sanzione indennitaria invece che di quella reintegratoria; resta dunque confermata la fine dell’anomalia italiana, nel panorama internazionale, costituita dal nostro vecchio regime di job property, fondato sull’articolo 18 nella sua prima edizione 1970. Di questi tempi, non è poco.
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