L'”EUROPA DI TUTTI I GIORNI” E I SUOI CITTADINI UN PÒ “VIZIATI”

Nel grande dibattito sulla UE si parla troppo poco degli aspetti della sua vita che stanno funzionando molto bene: aumentano gli scambi commerciali, la mobilità dei lavoratori e degli studenti – Diamo per scontati tutti i benefici che ce ne derivano, a cominciare dalla pace nel continente, dimenticando che non lo sono affatto

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Fondo di Maurizio Ferrera pubblicato sul
Corriere della Sera del 7 novembre 2018 – In argomento v. anche l’articolo di Roberto Casati del 1° ottobre 2017, La guerra che fu, e oggi l’Europa; inoltre quello di Enrico Morando e Giorgio Tonini del 19 gennaio 2018, La scelta “indipendentista” e quella europeista.
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Il prof. Maurizio Ferrera

Le elezioni europee del prossimo maggio avranno luogo alla fine di un vero e proprio “decennio orribile” per la UE. Prima il terremoto finanziario importato dagli Usa, poi quello del debito sovrano. La Grande Recessione, con i suoi costi sociali. E, ancora, gli attentati terroristici, la crisi dei rifugiati, lo tsunami dell’immigrazione, la Brexit. Un’inedita sequenza di choc, che hanno fatto vacillare le fondamenta dell’Unione.

Eppure l’edificio non è crollato. Al contrario, sono stati fatti passi avanti nell’integrazione economica, avviando un delicato percorso di condivisione dei rischi. Non si è fatto abbastanza, certo, e su alcuni fronti (ad esempio la dimensione sociale) si è persino tornati un po’ indietro. Ma nel suo complesso l’Unione ha saputo resistere alle enormi tensioni.  Anche se insicurezza e paure non sono scomparse,  la stragrande maggioranza dei cittadini europei (Regno Unito escluso) ha recuperato oggi fiducia nella UE.

A dispetto delle varie tempeste, quella che potremmo chiamare l’ “Europa di tutti i giorni” ha continuato imperterrita a funzionare. Un fenomeno contro-corrente del tutto trascurato. Fra il 2010 e il 2017 il volume di merci scambiate nel mercato unico è aumentato del 7%. Sono cresciuti  i flussi di mobilità per ragioni di lavoro così come la quota di lavoratori trans-frontalieri. I trenta milioni e passa di nazionali UE che risiedono in un paese diverso dal proprio non hanno smesso di pagare tasse e contributi e di usare il welfare del luogo in cui vivono, alle stesse condizioni dei nativi.  La piattaforma online EURES – che elenca i posti di lavoro disponibili nei vari paesi – ha assistito milioni di persone, soprattutto giovani, a trovare impiego nel proprio o in altri paesi. Milioni di europei hanno beneficiato dei fondi strutturali messi a disposizione da Bruxelles. Gli Stati Uniti d’Europa non esistono (ancora?), ma chi si è spostato nell’area Schengen ha continuato a non accorgersi delle frontiere, mentre chi è atterrato al di fuori dell’area si è messo in coda seguendo i cartelli “EU citizens” e ha tirato fuori il passaporto color porpora.  Ci sono aspetti dell’Europa di tutti i giorni che sono più integrati rispetto agli stessi Stati Uniti.  Per tutti i minorenni UE, i musei europei sono gratuiti, negli USA chi è “out of state” (ad esempio, un residente della California invece che dell’Oregon) deve pagare il biglietto. Lo stesso dicasi per le tasse universitarie: nessuna discriminazione sulla base della nazionalità nella UE,  mentre gli studenti che provengono da altri stati (americani) pagano tasse molto più alte nelle università pubbliche.  E che dire di Erasmus? Nell’ultimo trentennio, il programma  ha interessato circa 4 milioni di studenti,  quasi un milione di insegnanti e altrettanti apprendisti, mezzo milione di giovani nel volontariato. Forse ancora pochi sul totale della popolazione UE.  Ma uno scambio Erasmus segna per la vita, così come un soggiorno di lavoro. A contar male, più di un terzo degli europei di oggi sono stati coinvolti direttamente o indirettamente (tramite i figli, ad esempio) in periodi di studio o lavoro al di fuori del proprio paese nativo.  La popolazione del nostro continente è sempre più europeizzata e il fenomeno è destinato a crescere con il ricambio generazionale.

Josè Ortega y Gasset

Nel grande dibattito sulla UE, nessuno considera  questa Europa di tutti i giorni. La ragione è semplice: fa così parte del nostro mondo che abbiamo smesso di percepirla. Siamo diventati come i “bambini viziati” di cui parlava il filosofo spagnolo Ortega y Gasset negli anni Trenta del secolo scorso.  Così come la  democrazia liberale, diamo ormai per scontata anche l’Europa integrata: i suoi benefici, le sue opportunità quotidiane.  Della UE, i media e i politici parlano in genere come un’entità astratta e lontana, tendono a vederne  le cose che non funzionano. Per sentire parole di apprezzamento e ammirazione dobbiamo attraversare i  confini esterni, entrare in contatto chi e vive sotto un regime oppressivo.  Pochi mesi dopo l’invasione russa della Crimea, nel 2014, al mercato di Odessa due musicisti di strada intonarono l’Inno alla Gioia di Beethoven, simbolo della UE. A poco a poco  si formò una folla che con il canto esprimeva  il proprio desiderio di Europa, cioè di libertà e benessere, e al tempo stesso la condanna dell’autoritarismo di Putin. Nacque un movimento e nei giorni successivi l’inno UE fu intonato contemporaneamente ad una certa ora in tutti gli aeroporti della Crimea. In una recente visita a Mosca, Matteo Salvini ha detto che lì si sente a casa sua, cosa che non gli succede quando viaggia nella UE. E’ sinceramente difficile immaginare cosa ha spinto il nostro Vicepresidente del Consiglio a fare una simile dichiarazione.

Sottolineare la vitalità e i pregi dell’Europa di tutti i giorni non significa disconoscere  i difetti della UE come sistema istituzionale. Al contrario, è una ragione in più per dispiacersene e  per spronare chi ci governa  a correggerli. Ortega y Gasset diceva che sono proprio le élite a dover difendere  tutto ciò che i bambini viziati danno per scontato.  I sondaggi rivelano che esiste ancora un  vasto potenziale elettorale per un rilancio del  progetto d’integrazione. Le indagini  sugli orientamenti delle classi politiche nazionali sono meno confortanti. A questo livello prevale una percezione “strumentale”: la Ue è un bene solo se è vantaggiosa per il proprio paese, è un sistema di regole da usare finché conviene.  Non lo dicono solo i leader sovranisti (che giocano a fare i bambini arrabbiati) ma anche segmenti importanti dei popolari e, seppur in misura inferiore, dei socialisti e democratici.  Le prime comunità europee furono create da Padri Fondatori riposabili e lungimiranti. La Ue di oggi sembra invece un’ orfana lasciata a se stessa.

L’infrastruttura dell’Europa di tutti i giorni  ha dato prova di robustezza e può procedere col pilota automatico.  Ma non a lungo.  In vista delle elezioni di maggio , abbiamo disperato bisogno di una élite capace di far leva sul tessuto “banale” di connessioni  a livello economico e sociale e per smorzare i  conflitti politici. Servono nuovi leader che emergano dal basso,  espressione di quelle maggioranze silenziose che si trovano a proprio agio in una Unione sempre più stretta.  E che proprio per questo vorrebbero che la Casa Europa diventasse meno litigiosa, più solida e resistente alle inevitabili intemperie della globalizzazione.

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