“[…] Ricordate sempre che la vita, questa nostra umana e banale vita di tutti i giorni, è un dono meraviglioso, perché è una possibilità infinita di amore e di libertà […] Quando intuisci la grandezza e la profondità di un Amore che ha generato una creatura libera, allora senti nascere la gioia di essere una persona libera […]”
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Testo che don Giovanni Barbareschi, morto il 4 ottobre scorso, ha chiesto che venisse letto nel corso della sua messa funebre, preceduto da una nota biografica – Segue il testo dell’omelia di don Giuseppe Grampa nella stessa messa..
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Nota biografica (da Wikipedia)
Nato l’11 febbraio 1922, dopo l’8 settembre 1943, assieme a Teresio Olivelli, Carlo Bianchi, David Maria Turoldo, Mario Apollonio, Dino Del Bo, partecipa agli incontri che porteranno alla fondazione del giornale Il Ribelle. Il giornale delle Brigate Fiamme Verdi esce quando può per 26 numeri, facendo correre ai suoi sostenitori grandi rischi sia per stamparlo sia poi per distribuirlo: infatti uno dei tipografi, Franco Rovida, e lo stesso Teresio Olivelli finiranno la loro esistenza in un campo di concentramento. Oltre a questa attività si impegna con le Aquile randagie e l’O.S.C.A.R. con il compito di portare in salvo, in Svizzera, ebrei, militari alleati e ricercati politici.
Il 10 agosto 1944 va dal cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, pregandolo di andare ad impartire la benedizione ai partigiani uccisi in piazzale Loreto, ma il cardinale gli ordina di andare lui stesso[3], benché ancora diacono. Tre giorni dopo (13 agosto) viene ordinato sacerdote dal cardinale Schuster e celebra la sua prima messa il 15 agosto; la notte stessa viene arrestato dalle SS mentre si sta preparando per accompagnare in Svizzera degli ebrei fuggitivi.[4] Resta in prigione fino a quando il cardinale non ne ottiene la liberazione e, quando in seguito si presenta a lui, il cardinale si inginocchia e gli dice:
«Così la Chiesa primitiva onorava i suoi martiri. Ti hanno fatto molto male gli Alemanni?[5]» |
Passa qualche giorno e don Barbareschi parte per la Valcamonica, dove si aggrega alle Brigate Fiamme Verdi e diventa cappellano dei partigiani. Dopo essere stato arrestato viene portato nel campo di concentramento a Bolzano (Durchgangslager Bozen), da dove riesce a fuggire prima di essere trasferito in Germania; ritornato a Milano diventa il “corriere di fiducia” tra il comando alleato ed il comando tedesco durante le trattative per risparmiare da rappresaglie le infrastrutture milanesi. Dal 25 aprile 1945, su mandato del cardinale Schuster, si adopera per evitare rappresaglie contro i vinti e con l’avallo dei comandi partigiani e alleati opera per salvare il maresciallo Karl Otto Koch, il generale Wolff e il colonnello Dollmann (il quale il 4 marzo 1948 gli offrirà il suo diario personale come ringraziamento per avergli salvato la vita[6]).
Dopoguerra
Ritorna all’attività pastorale e all’insegnamento, è assistente della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) nella Diocesi di Milano, è tra i fondatori della Fondazione Giuseppe Lazzati e fa parte del consiglio di amministrazione della Fondazione Monsignor Andrea Ghetti-Baden. Grande amico di don Carlo Gnocchi, lo aiuterà nella sua opera e diventerà il suo curatore testamentario; lo aveva conosciuto il 17 marzo 1943, alla stazione di Udine, mentre rientrava in Italia con gli alpini reduci dal fronte russo. Fino all’ultimo si è impegnato in modo attivo perché non si dimentichi cosa hanno significato gli anni della Resistenza in Italia.[7].
Ultima intervista al cardinale Martini
Il Corriere della Sera.it, edizione del 9 ottobre 2012, ha reso pubblico un video, del 24 luglio 2012, nel quale don Giovanni Barbareschi intervistava il cardinale Carlo Maria Martini, per la ricorrenza del 50º anniversario dall’apertura del Concilio Vaticano II. Il cardinale, nell’occasione, ebbe a dire tra l’altro: “Mi pare che don Barbareschi, che stimo e apprezzo da tanti anni come patriarca, sia in diocesi rappresentante della tradizione e questa sia un’occasione per rendergli omaggio. Grazie. La ringrazio anch’io e sono felice di incontrarla qui”.
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TESTO DI DON GIOVANNI BARBARESCHI LETTO DA DON GIUSEPPE GRAMPA NEL CORSO DELLA MESSA FUNEBRE
Chiedo, se possibile, che questa mia ultima parola venga letta alla S. Messa del mio funerale.
Torno alla casa del Padre.
Dichiaro e confermo la mia libera e totale adesione a Gesù Cristo e alla sua – e mia – Chiesa.
In questa mia adesione totale ho avuto momenti di difficoltà, di incertezza. Ne ho sofferto molto.
Con la grazia di Dio non ho mai abbandonato la mia fede. In quasta luce sono molto riconoscente alla mia mamma per la sua testimonianza di fede semplice, autentica, profonda.
Nella mia vita ho avuto modo di soffrire un poco… Ne ringrazio il Signore perché nella faticosa accettazione di ogni dolore ho avuto modo di intuire che quanto stava avvenendo era un invito ad amare un po’ di più e un po’ meglio.
Tutte le volte che ho accettato faticosamente che un volto umano della croce mi fosse “maestro”, mi sono poi ritrovato un poco più buono, più uomo, più vicino al mio Dio. Ed ho capito che ogni sofferenza, ogni croce è la unica strada che conduce a Dio, perché è l’unica strada che permette all’uomo di vivere la sua libertà con un atto d’amore.
Torno alla casa del Padre felice ed entusiasta di questa meravigliosa avventura che è stata la mia vita. Grazie mio Dio e mio Padre della vita che mi hai dato, grazie del Sacerdozio.
Essere prete è stato tutto per me. È stato il senso più vero e profondo della mia esistenza, il significato della mia vita.
“Essere prete” è qualcosa che va oltre l’esercizio del ministero. Celebrare, confessare, amministrare i Sacramenti è un modo di esprimere la consacrazione sacerdotale, ma non esaurisce la profondità e l’ampiezza di quella vocazione. Essere prete è la scelta libera di una volontà che risponde a una chiamata e consacra il suo io più profondo. Accettando quella chiamata tu decidi che il tuo io si possa realizzare solo in quella linea, nella linea di essere prete in tutto quello che fai, che dici, che pensi, che sogni, che ami…
Così hocercato di viviere la mia vocazione e ne sono felice.
Vorrei ringraziare tutti colore che mi hanno voluto bene e con il loro amore hanno sostenuto, alimentato, la mia gioia di vivere e di essere prete. Non tento un elenco… Sarebbe troppo lungo e certamente incompleto. Solo mi permetto una eccezione per la mia mamma, il mio papà, tutta la mia famiglia, culla della mia fede e del mio Sacerdozio.
Vorrei ringraziare alcuni Superiori ed alcuni confratelli. Anche qui l’elenco sarebbe troppo lungo e certamente incompleto. Alcuni mi stanno aspettando, altri li aspetterò io in Paradiso, e saremo felici, ancora, tutti insieme.
Vorrei chiedere scusa a tutti coloro per i quali, con qualche parola o con qualche gesto, sono stato causa di sofferenza. Nella luce della morte posso assicurare che la mia intenzione non era di offendere o fare del male. Certamente posso avere sbagliato: per questo chiedo sinceramente di perdonarmi.
A quanti mi hanno conosciuto e seguito nelle molteplici modalità del mio ministero sacerdotale, vorrei, nella luce dell’eternità, affidare la mia ultima parola: ricordate sempre che la vita, questa nostra umana e banale vita di tutti i giorni, è un dono meraviglioso, perché è una possibilità infinita di amore e di libertà.
Non si può che esserne entusiasti e contagiare gli altri col nostro entusiasmo.
Quando in alcuni momenti di solitudine umana e di grazia intuisci la grandezza e la profondità di un Amore che ha generato una creatura libera, allora nel profondo del tuo io senti nascere la gioia, la gioia di essere una persona libera, la gioia di poter rispondere a un Amore gratuito… E avverti l’esigenza, la necessità, di gridare a tutti che Dio è Amore e che la vita di ogni uomo è questa libertà di rispondere a quell’Amore, questa libertà di amare.
Amici di ogni età e di ogni fede, ricordate questo di me, perché questo solo avrei voluto dirvi con la mia vita, con il mio Sacerdozio.
Perdonatemi se non ci sono riuscito o ci sono riuscito male…
Vi ringrazio amici e vi aspetto
don Giovanni
Milano Ottobre 2002
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L’OMELIA DI DON GIUSEPPE GRAMPA ALLA MESSA FUNEBRE
Caro don Giovanni, per queste tue parole che hai pensato come ultime per noi, davvero l’ultimo tuo dono, ti siamo grati.
Ma ora siamo noi che vogliamo dirti una parola che dia voce alla nostra riconoscenza. Non una parola di encomio che pure sarebbe doverosa ma che tu non vorresti in alcun modo, ma una parola di gratitudine, sì. Prima che un dovere è un bisogno del cuore.
Una parola che in qualche modo è suggerita dal testo evangelico appena ascoltato. Gesù dice d’esser venuto “perché nulla vada perduto”, nulla, nessuno vada perduto, finisca nell’oblio della morte.
Seguendo questa parola dovremmo fare un lungo elenco delle vicende che hanno segnato i tuoi 96 anni. Quante esperienze, quanti servizi hai reso alla Chiesa e al nostro Paese, quanti incarichi hai ricoperto, quante Istituzioni devono ricordarti. Non dovremo dimenticare ma ricuperare e custodire la viva memoria dei tuoi giorni.
Ma ora vorrei solo tentare di indicare due cifre che mi aiutano a ripercorrere questi lunghi anni.
Anni nei quali hai incontrato innumerevoli volti. Con tanti gesti, alcuni piccoli e familiari, altri grandi e quasi eroici tu ci hai detto il valore della persona, di ogni persona, di ogni volto. Volti di giovani innumerevoli che nella FUCI, nello Scoutismo, a cominciare dalle Aquile Randagie, alla Casa alpina di Motta, hai incontrato e accompagnato facendoti compagna di strada. Nessuna persona è stata per te un numero o una pratica né al Tribunale ecclesiastico né all’Istituto per il sostentamento del clero. Tra tutti i volti due hanno avuto il dono di una compagnia durata una vita: anche noi oggi diciamo grazie a Maria Teresa e a Grazia.
Ma ci sono persone, non poche, che ti sono state affidate dal nostro indimenticabile cardinale Martini. Aveva intuito la ricchezza della tua umanità e ti affidò i preti in difficoltà, in procinto di lasciare l’esercizio del ministero. Non era per te una attività d’ufficio ma esercizio di amicia, anzi di intimità . E infatti li ricevevi a casa tua e nella tua casa custodivi i documenti di quei difficili percorsi di discernimento.. Ti facevi carico anche delle loro precarie situazioni economiche disponendo di risorse che l’Arcivescovo ti assicurava. Quanto tempo hai ‘sprecato’ per tanti di noi e oggi il nostro cuore ti ringrazia di questo ‘spreco’.
Una seconda cifra raccoglie il senso dei tuoi lunghi anni. Voglio esprimerla con la folgorante parole di un grande testimone della fede, un resistente, un ribelle come te, un martire: il pastore della chiesa luterana confessante:Dietrich Bonhoeffer. Negli anni della follia nazista, anni che il tuo amico padre David Maria Turoldo ha chiamato “i giorni del rischio, quando tu salutavi a sera senza esser certo mai di rivedere l’amico al mattino”, in quei giorni, in carcere Bonhoeffer scriveva: “Solo chi grida per gli Ebrei può cantare il gregoriano”.
Tu, don Giovanni, hai gridato per gli Ebrei e per tutte le vittime, i perseguitati, gli uomini e le donne offesi nella loro dignità, hai gridato con la tua vita, con le scelte rischiose che ti portarono in carcere giovane prete fresco di prima messa, con le labbra serrate nonostante le torture per non tradire i compagni.
Tu hai gridato e adesso a piena voce puoi cantare il gregoriano insieme ai tuoi grandi amici. Uomini e donne come te affamati e assetati di libertà e giustizia, uomini e donne dalla schiena diritta, diritta come la tua.
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