Quella che viene indicata come l’età dell’oro del lavoro ha avuto vita breve non per effetto di una controrivoluzione capitalistica, ma semplicemente perché fondata su un indebitamento sfrenato; e nessun regime può sopravvivere facendo affidamento su di una illimitata disponibilità del mondo circostante a continuare a fargli credito
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Questo scritto, anticipato il 1° ottobre 2018 sul Bollettino Adapt, costituisce la traccia dell’intervento che ho svolto domenica 7 ottobre, nell’ambito delle Conversazioni Giuseppe Pera a San Cerbone (Lucca), nel corso della tavola rotonda con Luisa Corazza e Marta Fana, introdotta e moderata dal giudice del lavoro Luigi Cavallaro – Lo scritto di quest’ultimo, cui il mio intervento si riferisce, è pubblicato in Lavoro e cittadinanza. Dalla Costituente alla flessibilità: ascesa e caduta di un binomio, a cura di L. Baldissara e M. Battini, Milano, Fondazione Feltrinelli, 2017, pp. 49-66 – In argomento v. anche Dialogo tra un giurista e un economista sulla riforma dei licenziamenti ,
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- Il ragionamento proposto da Luigi Cavallaro, in estrema sintesi
Di quanto è accaduto in Italia nell’ultimo mezzo secolo in materia di lavoro e welfare, Luigi Cavallaro ci propone il suggestivo racconto che riassumo nei punti che seguono (chiedendogli scusa di qualche eccesso di schematicità, necessario per l’immediatezza della nostra discussione).
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Tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, sotto la spinta di forti lotte del movimento operaio, attraverso una grandiosa stagione riformatrice favorita sul piano politico dalle “convergenze parallele” di DC e PCI (Moro-Berlinguer), l’ordinamento italiano dà attuazione al principio costituzionale del diritto al lavoro nella sua accezione piena, come “diritto sociale”, attraverso una ristrutturazione in senso laburista – ma Luigi poi arriva a parlare di una vera e propria esperienza di “socialismo” – della propria costituzione materiale.
- Questa si attua attraverso uno scambio tripartito, nel quale le imprese accettano di farsi garanti del diritto al lavoro dei propri dipendenti (art. 18 St. lav.), nel quadro di una pianificazione statale del processo produttivo, in cambio della garanzia pubblica di un sostegno della domanda interna ed estera (leva monetaria, svalutazione, inflazione) e, nella metà dell’economia nazionale a partecipazione statale, in cambio dell’impegno del Governo a coprire sistematicamente le perdite aziendali. I lavoratori, dal canto loro, rappresentati dalle confederazioni sindacali maggiori, accettano una politica di relativa moderazione salariale, in cambio di un welfare pensionistico già generosissimo nel settore pubblico (pensione piena con soli 15 anni di contribuzione e senza requisito di età), ma reso molto generoso anche nel settore privato dalla riforma del 1969: aggancio delle pensioni all’ultima retribuzione indipendentemente dai contributi versati, possibilità di pensionamento senza requisiti anagrafici, col solo requisito di 35 anni di contribuzione, oppure con 20 anni di contribuzione e 55 (donne) o 60 anni di età.
- Senonché “corpose e arcaiche culture reazionarie”, favorite dalla crisi petrolifera incominciata nel 1973 e dalla fiammata inflazionistica conseguitane, nella seconda metà degli anni ’70 riescono a “imprimere al percorso riformatore una brusca frenata” per mezzo di uno “sciopero del capitale” attuato con lo spostamento di valuta all’estero. I salvataggi delle imprese in crisi ad opera dello Stato e l’ampio ricorso alla Cassa integrazione guadagni non valgono a impedire il calo dell’occupazione industriale, che indebolisce il movimento sindacale.
- Si arriva così alla c.d. “svolta dell’EUR” del febbraio 1978, nella quale le confederazioni maggiori riconoscono l’impresa come “vero e unico polmone del sistema economico” e accettano di restaurare le sue prerogative, la sua libertà d’azione.
Donde, alla fine degli anni ’70, il “diritto del lavoro dell’emergenza” ispirato al principio del “garantismo flessibile”: in particolare la legittimazione della contrattazione collettiva in deroga, la rimozione dei vincoli al contratto a termine e l’allargamento dell’area del lavoro precario con l’istituzione del contratto di formazione e lavoro (1978), poi il riconoscimento del part-time (1984), il progressivo smantellamento del meccanismo dell’avviamento al lavoro su richiesta numerica (1986-1991), il riconoscimento legislativo del licenziamento collettivo acausale con corrispondente inizio di restrizione della possibilità di uso della Cassa integrazione in alternativa alla riduzione degli organici (1991). Su questa linea si collocheranno poco dopo le leggi Treu (1997), Biagi (2003) e Jobs Act (2014-15).
- In parallelo rispetto a questo smantellamento del diritto del lavoro dell’età dell’oro, viene affermandosi prepotentemente l’idea della necessità di una stretta monetaria, che viene attuata in un primo tempo col rendere indipendente la Banca centrale dal Governo (Ciampi-Andreatta 1981), poi con la progressiva abdicazione dello Stato alla propria sovranità monetaria, fino al trattato di Maastricht (1992), all’ingresso nel sistema della moneta unica europea egemonizzato dall’ortodossia tedesca (2001), all’accettazione del pareggio di bilancio come principio costituzionale e all’attuazione delle ricette di politica economica e del lavoro provenienti da Bruxelles e Francoforte (2010-2012). Una “mutazione epocale che nel giro di due decenni porterà la nostra economia a riconfigurarsi da economia corporativa, di comando, mista, con elementi di mercato emergenti ma non prevalenti, a economia monetaria di produzione, cioè capitalistica, in cui ogni istanza pubblica di pianificazione e programmazione assumerà carattere subordinato”. Conclusione, ancora con le parole di Luigi Cavallaro: “La breve vita felice del diritto al lavoro è ormai finita”.
2, Una lettura molto diversa della stessa vicenda
Poiché la vicenda raccontata da Luigi l’ho vissuta molto da vicino lungo tutto l’arco dell’ultimo mezzo secolo, mi permetto di riempire alcuni vuoti nei punti c, d ed e, con qualche osservazione di rilievo non secondario che può portare a guardare ad essa da una prospettiva assai differente.
Per incominciare, mi sembra che nel racconto di Luigi manchi un “convitato di pietra” che nella storia reale di quella che lui descrive come l’età dell’oro è stato invece onnipresente e via via più importante: l’indebitamento pubblico. Nel corso degli ultimi due decenni del secolo scorso e del primo del nuovo secolo, per permettersi la “rivoluzione socialista” di cui si è detto al punto b – con lo Stato-Pantalone che copriva le perdite delle imprese dell’Iri, la Cassa integrazione che “integrava” il regime di job property e le pensioni Inps ai cinquantenni usate come indennizzo di ultima istanza per la perdita del posto – l’Italia non soltanto ha fatto sistematicamente ricorso all’inflazione e alla svalutazione della moneta, ma ha pure speso ogni anno mediamente l’equivalente di trenta miliardi di euro più di quello che produceva, finanziando questo eccesso di spesa attraverso un corrispondente indebitamento dello Stato. Indebitamento che, così, nell’arco del trentennio è arrivato a raddoppiarsi. Se si considera anche questo dato, è difficile non vedere nella “ristrutturazione dell’ordinamento in senso laburista” o addirittura “socialista”, indicata da Luigi come il fondamento della nostra età dell’oro, più che una espropriazione di potere padronale da parte del movimento operaio, una espropriazione di risorse delle generazioni future da parte della generazione mia e, con responsabilità meno grave, anche da parte della generazione cui appartiene Luigi. Ed è difficile non pensare che quell’età dell’oro ha avuto vita breve non per effetto della controrivoluzione capitalistica, ma semplicemente perché nessun regime può sopravvivere facendo affidamento su di una illimitata disponibilità del mondo circostante a continuare a prestargli denaro: prima o poi i creditori incominciano inevitabilmente a dubitare della possibilità che il proprio credito venga onorato e chiudono i cordoni della borsa. Questo, non altro, è ciò che è accaduto nella crisi del debito italiano del 2011.
In altre e più sintetiche parole: l’età dell’oro è finita perché quell’oro era per buona parte roba altrui. Per capire quel che è accaduto non c’è bisogno di scomodare le “arcaiche e corpose culture reazionarie” evocate da Luigi.
L’idea che sottende il suo racconto – oggi condivisa da molta parte della sinistra italiana – è che solo una robusta politica keynesiana, consistente nel “pompare domanda” nel sistema anche attraverso l’inflazione, abbia la virtù di rendere economicamente possibile il diritto al lavoro, e più in generale l’insieme dei diritti del lavoro. Ma J.M. Keynes predicava quella politica solo in riferimento alla congiuntura negativa; mentre nel trentennio di cui stiamo parlando essa è stata praticata nei periodi di vacche grasse come in quelli di vacche magre. Non dimentichiamo, poi, che l’inflazione keynesiana ha la funzione essenziale di ridurre i salari reali, in funzione di un aumento dell’occupazione, in una situazione di rigidità verso il basso dei salari nominali determinata principalmente dall’azione del sindacato; è quanto meno problematico ravvisare qualche cosa di “laburista” o addirittura di “socialista” in questo uso per così dire “antisindacale” della leva monetaria, salvo qualificare come laburista o socialista qualsiasi intervento statuale mirato a contrastare la fase negativa del ciclo economico.
3. Notazioni di contorno, più specificamente giuslavoristiche
Quando, nella seconda metà degli anni ’70, si incominciò a discutere della necessità di allentare i vincoli in materia di contratto a termine, le esigenze che venivano sottolineate da parte imprenditoriale nei settori del commercio e del turismo erano reali e facilmente dimostrabili: l’allentamento dei vincoli che ne seguì fu accettato dal sindacato – ho il ricordo personale di quelle trattative per avervi preso parte – perché appariva evidente che non si trattava affatto di richieste pretestuose e che l’imposizione drastica dell’assunzione a tempo indeterminato era irragionevole. E quando, negli stessi anni, si incominciò a parlare di un contratto di lavoro a termine a contenuto formativo con possibilità di “assunzione nominativa”, lo si fece perché si assisteva già allora a una drammatica difficoltà di inserimento nel tessuto produttivo per i giovani all’uscita dalla scuola o dall’università, causata dalla “tenaglia” del vincolo dell’assunzione numerica gestita dal collocamento pubblico, coniugato con il vincolo dell’assunzione a tempo indeterminato.
Poiché ho conosciuto e studiato da vicino il funzionamento del collocamento pubblico e delle graduatorie per l’assunzione numerica negli anni ’70 e ’80, mi sento di affermare – sulla base di argomenti compiutamente esposti a suo tempo – che esso costituiva una iattura per la parte professionalmente più debole dei lavoratori e in generale per gli outsider, forti o deboli che fossero. L’ordinamento italiano del lavoro non sarebbe certo più prodigo di vantaggi per i lavoratori se quel regime non fosse stato abrogato nel ’97, anche per effetto di una sentenza della Corte di Giustizia europea. Né i lavoratori italiani oggi starebbero meglio se nel 1984 il Pci e la Cgil fossero riusciti a far bocciare la norma che ha riconosciuto e regolato il lavoro a tempo parziale. O se fosse rimasto in piedi il divieto drastico di operare in Italia per le agenzie di lavoro temporaneo. Ma, soprattutto, non credo che i lavoratori starebbero meglio in un’ipotetica Italia – Paese manifatturiero esportatore – isolata sul piano istituzionale e su quello economico dal resto del continente europeo. Vedere nel processo di integrazione economica e politica dell’Italia nell’Unione Europea soltanto il risultato di una rivincita del capitale contro i lavoratori significa ignorare la dimensione continentale, quando non addirittura mondiale, che ormai assumono tutte le grandi questioni economiche e sociali, dalla regolazione del commercio a quella della finanza, dalla protezione dell’ambiente ai flussi migratori. Significa anche pensare che i lavoratori possano fare a meno degli imprenditori; ma, come non ci può essere impresa senza lavoro, così non può esserci lavoro senza l’impresa. Dove deperisce o addirittura sparisce l’impresa inevitabilmente deperiscono o spariscono anche i diritti dei lavoratori.
Detto questo, nondimeno apprezzo molto il “racconto” di Luigi per un aspetto: esso mette limpidamente in luce la natura vera del regime instaurato con l’articolo 18 dello Statuto del 1970: precisamente l’appartenenza di questa norma alla categoria delle property rules. Mi sono proposto altrove di argomentare più approfonditamente questa classificazione, anche per spiegare il senso tecnico-giuridico e le ragioni di politica del lavoro della sostituzione progressiva, tra il 2012 e il 2015, di questa property rule con una liability rule. Mi limito qui soltanto ad alcune brevi osservazioni su questo punto, volte solo a mostrare quanto poco – a mio modo di vedere – il vecchio regime di job property abbia a che fare con l’interesse generale dei lavoratori, con il laburismo, o con un socialismo che non intenda confondersi con le esperienze di “comunismo reale” fiorite nel secolo scorso nell’Europa dell’est.
Innanzitutto, non opera nell’interesse generale dei lavoratori una forma di protezione del lavoro che per sua natura giova soltanto agli insider, ai lavoratori stabili dell’impresa di dimensioni medio-grandi, creando un ostacolo all’accesso a questa condizione da parte degli outsider. Non possiamo dimenticare che, anche al culmine di quella che Luigi chiama l’età dell’oro, della protezione offerta dall’articolo 18 godeva soltanto un lavoratore italiano su due in una posizione di sostanziale dipendenza dall’impresa (a metà degli anni ’90, circa 3,6 milioni di dipendenti pubblici e 5,5 milioni di dipendenti di imprese con organico superiore alla soglia dei 15). Che “socialismo” è quello che, per sua stessa struttura, esclude dai propri benefici una parte consistente della forza-lavoro?
In secondo luogo, un regime di job property – cioè un regime che sostanzialmente attribuisce al solo prestatore di lavoro la facoltà di recedere dal rapporto, salvi casi estremi di suo inadempimento o di catastrofe aziendale – è per sua natura caratterizzato da una maggiore vischiosità del mercato del lavoro, quindi da una peggiore allocazione delle risorse umane: è infatti un regime nel quale è più difficile che il lavoratore si sposti da un posto per il quale è, o è diventato, poco adatto a uno dove può essere più produttivo. Per convincersene, basti osservare ciò che accade nel settore pubblico, dove il principio della job property è applicato con la più alta intensità. E dove si assiste diffusamente e in modo particolarmente evidente a un circolo vizioso tra scarso impegno delle persone, scarsa produttività e basse retribuzioni (ma in qualche misura dello stesso circolo vizioso soffre di fatto l’intero tessuto produttivo nazionale). È dunque ragionevole ritenere che in un regime di job property il lavoro sia mediamente meno produttivo e quindi meno remunerato, a parità di altre condizioni, rispetto a un regime nel quale la protezione contro il licenziamento sia affidata a una liability rule.
Abbiamo visto come nei decenni passati la protezione offerta dall’articolo 18 abbia avuto un necessario complemento nella Cassa integrazione guadagni vecchia maniera: la quale consentiva di rispettare formalmente il principio della job property impedendo il licenziamento anche quando l’azienda versasse in una crisi irreversibile. Perché dove si può attivare la Cig, il licenziamento non può avere corso essendo questo vietato dalla regola dell’extrema ratio. Il risultato è stato una miriade di casi di crisi di aziende medio-grandi nelle quali ai lavoratori si è assicurata la titolarità formale di un rapporto di lavoro di fatto non più esistente per cinque, dieci, persino vent’anni di fila. Una vera trappola per quei lavoratori, il cui appeal nel mercato del lavoro è andato progressivamente riducendosi col protrarsi della loro inattività (salvo che si attivassero nel mercato irregolare) fino ad azzerarsi. Anche a voler prescindere dal costo insostenibile di questo meccanismo di “protezione”, in termini di spreco di denaro e di risorse umane, che cosa ha mai a che fare questo meccanismo con il laburismo o il socialismo, comunque li si voglia intendere?
Infine un’osservazione di carattere statistico. La probabilità per un lavoratore stabile di essere licenziato, in Italia, è rimasta sostanzialmente invariata, intorno all’1,4 per cento annuo, prima e dopo il 2012. Ed è rimasta la stessa per gli assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015 (a proposito: del diluvio di “licenziamenti a buon mercato” che avrebbe dovuto verificarsi, ai danni degli assunti a tempo indeterminato nel 2015, al termine del triennio di sgravio contributivo, quindi nel corso del 2018, non si è vista alcuna traccia). Sta aumentando, questo è vero, la quota degli assunti a termine, sia in termini di flusso sia in termini di stock (frazione di forza-lavoro occupata in un dato momento); ma questo non è un fenomeno soltanto italiano: si sta verificando in tutto l’Occidente sviluppato. L’idea che si possa tornare al rapporto tra lavoratori stabili e a termine degli anni ’60 col solo ripristinare la legislazione di allora è soltanto un’illusione.