CONFESSIONI CORAGGIOSE NEL RACCONTO DI UNA VITA SPESA BENE

“Si resta sorpresi della finezza letteraria che traspare in questo libro […] Il lavoro sapiente sul complesso intreccio famigliare […] ci regala teneri e divertenti ritratti e aneddoti, così ricchi di pathos, educazione e umanità che fa rimpiangere, nel lettore stesso, la fine di quel mondo, che è anche la fine di una civiltà […]”

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Recensione di Diego Zandel pubblicata sulla
Gazzetta del Mezzogiorno il 30 agosto 2018 – Le altre recensioni de La casa nella pineta sono raccolte nella pagina dedicata al libro

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Ardengo Soffici, Il capanno dei Pellizzi

Si resta sorpresi della finezza letteraria che traspare nel nuovo libro di Pietro Ichino, che conosciamo per testi inerenti al suo lavoro di giuslavorista come Il lavoro e il mercato, Il lavoro ritrovato, A che cosa serve il sindacato, I nullafacenti. Stiamo parlando de La casa nella pineta dall’indicativo sottotitolo “Storia di una famiglia borghese del Novecento”, uscito per i tipi di Giunti. In esso Ichino dà fondo alla sua memoria e a quella recepita dalle persone che ha amato per raccontarci, non senza struggimento nella “voce”, la storia della sua famiglia che ha, su per li rami, legami illustri, a cominciare dai bisnonni Pellegrino Pontecorvo, nonno dello scienziato Bruno e del regista Gillo, e Giuditta Tagliacozzo, tra i cui discendenti non mancheranno grandi personaggi come, uno tra tutti, Eugenio Colorni, uno dei firmatari a Ventotene, con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi del famoso “Manifesto per un’Europa libera e unita”.

Sapiente il lavoro di Ichino su questo complesso intreccio famigliare che poi, strada facendo, si restringe al ramo proprio che vede i nonni Carlo e Paola Pellizzi e, quindi, i propri genitori, immersi in un interno/esterno famigliare attraverso il quale abbiamo uno spaccato di quella che era la vita, indubbiamente privilegiata, di una famiglia della buona borghesia milanese, che trova però, nel racconto, un epicentro nella villa che i Pellizzi avevano, e tuttora gli Ichino hanno, in Versilia. Una villa, Villa Amelia, nella pineta, sulla spiaggia con tanto di concessione del demanio, spiaggia che poi, nel mutare delle condizioni amministrative, sarebbe diventata pubblica. Ma, intanto, gli anni di concessione sono stati abbastanza lunghi perché la famiglia potesse goderne e, così, anche il piccolo Pietro e i tre fratelli, che ci regala teneri e divertenti ritratti e aneddoti, così ricchi di pathos, educazione e umanità che fa rimpiangere, nel lettore stesso, la fine di quel mondo, che è anche la fine di una civiltà: quella in cui i privilegi erano sempre vissuti e goduti senza esibizione, con sobrietà, nel rispetto altrui, per altro ricambiato,  e sottoposto a regole che oggi si sono perse in nome di un egualitarismo cafone, spesso violento, prevaricatore, sicuramente malinteso nell’ambito di quelli che sono gli ideali di libertà e uguaglianza. Dal libro di Ichino, in questo senso, verrebbe voglia di estrarre un decalogo di comportamento, del quale era severa osservante la nonna Paola. “La nonna” scrive Ichino “aveva una sua particolarissima attenzione al valore della parsimonia e della sobrietà, non solo come dovere etico ma anche come forma di eleganza esteriore”.

I genitori non sarebbero stati diversi. Il padre Luciano, che avrebbe sposato la figlia dei Pellizzi, Francesca, apparteneva allo stesso genere di famiglia, con tradizione di avvocati, studio a Milano, al quale Pietro doveva essere destinato se un richiamo di carattere sociale, nato in particolare dalla frequentazione di don Milani, spesso ospite, con alcuni dei suoi ragazzi di Barbiana, nella loro casa, non gli avesse in parte deviato il percorso. Il cristianesimo era il tratto distintivo della famiglia sul quale Pietro avrebbe costruito quella sensibilità sociale che lo avrebbe condotto a lavorare sul territorio milanese per la CGIL e a soli 29 anni fatto diventare deputato del Partito Comunista. Un’esperienza, quest’ultima, che si sarebbe rivelata molto importante soprattutto per spezzare, non senza forti contrasti e, comunque, anche importanti apprezzamenti – a cominciare da quelli di Napolitano e di Chiaromonte – con una dirigenza legata a vecchi schemi sindacali e contrattuali che cozzavano con quanto stava avvenendo nel mondo del lavoro, in Italia e nel resto d’Europa. Ichino, allievo del padre del diritto del lavoro Giuseppe Pera, ci porta poi dritto nella triste e tragica stagione del terrorismo, che sarebbe arrivata alla follia, priva di qualsiasi giustificazione in termini di rispetto per la vita umana e per la dialettica politica, di uccidere tra i migliori giuslavoristi italiani, Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi, costringendo a vivere Ichino stesso, in seguito a reiterate minacce, sotto scorta della polizia.

Parallelamente il racconto non trascura i passaggi famigliari che accompagneranno la sua vita, il matrimonio, la nascita dei figli, le morti dei nonni, poi del padre e infine della madre. Ichino lo fa con una delicatezza non esente anche da confessioni coraggiose che gli fanno onore per gli aspetti intimi non trascurati e che, nell’insieme, danno il senso di una vita ben spesa. Per sé e per gli altri.

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