Intervista a Pietro Ichino, a cura di Barbara Millucci, pubblicata sul Corriere della Sera il 27 agosto 2018 – In argomento v. anche La causale che protegge il lavoro (degli avvocati), pubblicato su lavoce.info il 24 luglio, e la mia intervista pubblicata su Italia Oggi il 21 luglio, Il decreto improvvisazione .
.
Professor Ichino, perché ha sostenuto che con la stretta sui contratti a termine prevista nel decreto dignità aumenterà il contenzioso giudiziale?
È presumibile che il contenzioso aumenti, perché per limitare i contratti a termine il legislatore non ha utilizzato una tecnica normativa che pone vincoli o disincentivi di applicazione immediata, bensì la tecnica del filtro giudiziale del “giustificato motivo”.
Quale avrebbe potuto essere la scelta alternativa?
Avrebbe potuto essere quella di agire sul costo dei contratti a termine, aumentando la contribuzione previdenziale; oppure quella di agire sulla percentuale ammessa di personale a termine, in riferimento all’organico aziendale. La scelta, invece, di obbligare l’impresa a verbalizzare il “motivo” dell’assunzione a termine e di affidare al giudice il controllo caso per caso comporta una grande e ineliminabile incertezza circa l’esito della controversia. È questa incertezza che aumenta il contenzioso giudiziale.
Come e in quali punti specifici si potrebbe migliorare il decreto dignità, per la parte riferita al lavoro?
A mio modo di vedere uno dei difetti più gravi del nostro diritto del lavoro, in generale, è la sua volatilità: il fatto che esso cambia in continuazione, con una stratificazione progressiva di leggi, delle quali ciascuna costituisce di per sé un elemento di complicazione. Con il decreto n. 81/2015 avevamo cercato di accorpare e semplificare tutta la legislazione accumulatasi nei decenni passati. Da questo punto di vista, il decreto dignità è un passo indietro. E non ha certo favorito l’aumento degli investimenti nel nostro Paese.
Cosa pensa dell’aumento dell’indennità minima in caso di licenziamento che sale da 4 a 6 mesi? Fu proprio lei a proporre il contratto a tutele crescenti nel 1996 e a tradurlo in disegno di legge nel 2009.
Nel 2015 cercammo di allineare l’ammontare dell’indennità, sia nel minimo sia nel massimo, rispetto agli altri maggiori Paesi europei; il minimo di 4 mensilità si collocava comunque al di sopra rispetto ai nostri partner, e il massimo di 24 era pari soltanto al massimo spagnolo, essendo tutti gli altri inferiori. Ora, l’aumento del minimo a 6 e del massimo a 36 torna a disallineare nettamente il nostro ordinamento rispetto agli altri.
Che novità ci sono sul fronte della riforma dei centri per l’impiego?
Per ora nessuna, nonostante che questo costituisse il punto principale del capitolo dedicato al lavoro, nel “contratto” di governo M5S-Lega. Spero che su questo fronte di importanza cruciale ora qualche cosa si muova.
Il decreto dignità può considerarsi l’inizio dello smantellamento del Jobs Act?
Sul punto cruciale dei licenziamenti il decreto lascia inalterata la struttura portante della nuova disciplina, modificando soltanto l’entità degli indennizzi: qui la modifica può considerarsi marginale. Mi sembra più grave il mutamento di filosofia nella disciplina dei contratti a termine, di cui abbiamo parlato prima.