“Onestà” non è soltanto non rubare, ma anche non usare il potere legislativo a soli fini di propaganda, non produrre leggi che sono fatte solo per poter lanciare qualche slogan, come quello ridicolo della “Waterloo del precariato”
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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi, pubblicata da Italia Oggi il 21 luglio 2018 – In argomento v. anche la mia intervista al Quotidiano nazionale il 14 luglio, Un decreto destinato produrre effetti scarsi, nel bene e nel male
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Il decreto Dignità «è frutto di una totale improvvisazione», dovuta anche alle divisioni interne al Movimento5Stelle sulle politiche del lavoro. «Vi sono più anime, alcune anche contrarie per esempio al ripristino dell’articolo 18», è l’analisi di Pietro Ichino, giuslavorista, considerato il padre della riforma del lavoro del 2015, senatore del Pd nella precedente legislatura. Divisioni nel M5s che in futuro potrebbero evolvere e dar luogo anche a una «convergenza con il Pd».
Domanda: Professor Ichino, partiamo da un dato di cronaca: lo scontro in atto tra il governo Conte e il presidente dell’Inps Tito Boeri, in merito alle stime sulla perdita di posti di lavoro dopo il decreto Dignità. Stime realistiche o no?
Risposta: Stime molto diplomatiche: l’Inps ha vistosamente corretto la perdita di posti al ribasso, proprio per evitare di poter essere accusato di faziosità antigovernativa.
Però Salvini ha chiesto le dimissioni di Boeri e Di Maio ha parlato di una manina che ha inserito la stima sugli 8mila posti nella relazione tecnica, salvo poi scoprire che la stima era disponibile da giorni prima che fosse resa pubblica. Che cosa sta succedendo?
R. Succede che il “governo del cambiamento” sta rispolverando una delle idee più vecchie del dibattito sulle politiche del lavoro, un’idea che risale addirittura agli anni ’70 e che credevamo archiviata definitivamente.
Quale?
R. Quella secondo cui non soltanto la retribuzione, ma tutto il resto della disciplina dei rapporti di lavoro sarebbe una “variabile indipendente”. L’idea che si possano aumentare liberamente non soltanto gli standard salariali, ma anche i costi derivanti dalle rigidità della regolazione giuridica, senza che questo influisca sui livelli occupazionali. In altre parole, l’idea dell’onnipotenza del diritto del lavoro.
D. Invece?
R. C’è un margine entro il quale gli standard inderogabili correggono delle distorsioni del mercato senza effetti depressivi sui livelli occupazionali. Si può anche decidere di andare oltre quel margine, ritenendo che ci sia un guadagno in qualità del lavoro che compensa la perdita di quantità; ma in questo caso, appunto, bisogna saper fare bene i conti, saper guardare la realtà in faccia. E non prendersela con un’agenzia indipendente, qual è l’Inps o la Ragioneria generale, che sta svolgendo con molto scrupolo e misura il proprio compito tecnico.
D. Secondo lei, il decreto ha almeno il potere di accrescere la tutela dei diritti dei lavoratori?
R. Certo, il decreto stabilisce vincoli più stringenti. La questione è: a chi giova questo giro di vite e quanto? Quali costi comporta, e a carico di chi sono questi costi? Proprio per rispondere a questi interrogativi è indispensabile un dialogo stretto fra il legislatore e gli esperti delle scienze sociali, in particolare dell’economia e della statistica. Solo chi è convinto che i vincoli, le tutele, siano una variabile indipendente, può dileggiare il responso di questi esperti.
D. Che novità ci sono sul fronte della riforma dei centri per l’impiego? Era uno dei punti dell’accordo di governo.
R. Già, era un aspetto molto positivo di quell’accordo, e metteva opportunamente il dito nella piaga di una grave inadempienza dei governi Renzi e Gentiloni: quella sul piano dell’implementazione dell’assegno di ricollocazione. Il capitolo 14 dell’accordo M5S-Lega, in materia di politiche del lavoro, conteneva soltanto due cose, molto apprezzabili, anche se espresse in forma forse troppo generica: un forte investimento sui servizi per l’impiego e la reintroduzione dei buoni-lavoro per le imprese. Senonché, a meno di due mesi dalla firma di quel “contratto”, viene emanato un decreto nel quale di queste due cose non c’è traccia, mentre ce ne sono tutt’altre, frutto evidentemente di una totale improvvisazione.
D. Lei vuol dire che il M5s non ha una linea chiara in quanto a politica del lavoro?
R. Sì, in realtà nel M5S convivono orientamenti molto diversi tra loro in materia.
D. Analizziamo l’arcipelago grillino sul fronte lavoro?
R. C’è un’ala che riproduce le posizioni della vecchia sinistra, di cui il capo fila è il professor Tridico e di cui fanno parte per esempio i senatori Puglia e Paglini; ma c’è anche l’ala più vicina al tessuto produttivo dell’Italia del Centro-Nord, che è molto critica nei confronti del vecchio sistema di protezione del lavoro. Mi riferisco per esempio alle posizioni dell’onorevole Lombardi, nettamente contraria al ripristino dell’articolo 18. Poi c’è la posizione di Nunzia Catalfo, ora presidente della commissione lavoro del senato, che considero una delle migliori teste pensanti del Movimento in questa materia.
D. Avete lavorato insieme al Senato nella passata legislatura, giusto?
R. Sì, in Commissione Lavoro e ho sempre trovato in lei orecchie attente alle ragioni altrui e forse anche una condivisione, almeno al livello degli obiettivi generali, della riforma del 2015.
D. Con questo Movimento lei vede delle possibili convergenze con il Pd?
R. Le vedo a una condizione: cioè che il M5S accetti preliminarmente in modo chiaro l’impegno a proseguire il percorso di integrazione dell’Italia nella nuova Unione Europea.
D. Come si spiega questo attivismo del governo sul fronte del lavoro?
R. Il ministro Di Maio deve mostrare che non è soltanto Salvini a essere iperattivo. Il problema è che l’attivismo senza un progetto serio alle spalle, senza una vera strategia di politica del lavoro, serve soltanto alla propaganda. “Onestà” non è soltanto non rubare, ma anche non usare il potere legislativo a soli fini di propaganda, non produrre leggi che sono fatte solo per poter lanciare qualche slogan, come quello ridicolo della “Waterloo del precariato”.
D. Quanto è di “sinistra” questo provvedimento?
R. Se per “sinistra” si intende la vecchia sinistra che è la principale responsabile di un sistema di protezione del lavoro fallimentare, sì, questo provvedimento è “di sinistra”. Ma io preferisco la sinistra che ha prodotto il “pacchetto Treu” nel 1997 e la riforma del 2015. E considero del tutto in linea con queste due riforme anche la legge Biagi del 2003.
D. Del decreto-dignità salverebbe qualcosa?
R. Salverei l’aumento del differenziale contributivo tra contratti a termine e contratto stabili, se fosse applicato solo ai contratti futuri e se fosse perseguito interamente con una riduzione del cuneo previdenziale sui contratti stabili.
D. Un punto di tensione tra M5S e Lega si registra sulla reintroduzione dei voucher. Che ne pensa?
R. Su questo punto ha ragione la Lega: i buoni-lavoro, ben regolati come lo erano nella loro ultima versione, sono una ottima cosa ed è un grosso peccato essercene privati.
D. Una manutenzione del Jobs act era stata auspicata sul finire della passata legislatura anche dal Pd. Quali sarebbero i punti di intervento necessari?
R. Soprattutto l’implementazione della parte della riforma relativa ai servizi per l’impiego: su questo punto il bilancio dei governi Renzi e Gentiloni è, colpevolmente, molto negativo. E tornare a estendere il campo di applicazione della riforma anche al settore pubblico.
D. Da ex parlamentare del Pd, come giudica l’opposizione che in questo momento sta facendo il partito guidato da Maurizio Martina?
R. Mi piacerebbe un’opposizione più decisa nella difesa dell’interesse delle nuove generazioni a una drastica riduzione del nostro debito pubblico. Un’opposizione che sapesse mettere con maggiore determinazione al centro del proprio discorso il processo di integrazione dell’Italia nella nuova Unione Europea, dunque la necessità di proseguire con decisione sulla strada che abbiamo imboccato nel 2011. Un’opposizione che mostrasse qualche senso di colpa non per quello che ha fatto in quella direzione negli anni passati, quando era maggioranza, ma per averlo fatto troppo poco e male.
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