NEGLI ANNI ’70 E ’80 LE RADICI DEI MALI DI OGGI

Alle origini delle convulsioni politiche e sindacali attuali le vicende italiane raccontate ne La casa nella pineta – La quantità e la qualità dell’occupazione aumenterebbero se si riducesse il cuneo fiscale e contributivo, e se funzionassero bene i servizi nel mercato del lavoro

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Intervista a cura di Gerardo Marrone pubblicata sul
Giornale di Sicilia il 16  luglio 2018 – Le altre interviste e recensioni su La casa nella pineta, insieme ad altri documenti, lettere e commenti, sono raccolte nella pagina web dedicata al libro
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Pietro Ichino non ha mai avuto paura di andare controcorrente. Innanzitutto in Diritto del Lavoro, che è “materia sua” essendo tra i più noti e stimati docenti di questa disciplina, ma non solo. L’ex parlamentare, che ha appena pubblicato con Giunti editore un’autobiografia dal titolo “ La casa nella pineta”, non cede alle… mode sovraniste; e a chi gli chiede “che Italia sarà” risponde così: “La speranza è che sia pienamente integrata in una nuova Unione Europea. Non riesco a pensare niente di meglio da augurare ai nostri figli e nipoti”.

“La casa nella pineta”. Un ricordo personalissimo che può trasformarsi in metafora del Paese, tra spazi d’incanto e inquietanti zone d’ombra?
“Più che di metafora del Paese, parlerei di un racconto in cui i ricordi personalissimi e anche gli spazi d’incanto, come lei li chiama, si intrecciano con la storia del Paese nel secolo passato. Una storia che ho vissuto da un osservatorio privilegiato”.

Professor Ichino, Lei ha 69 anni, mica è così vecchio! Perché ha deciso di dare alle stampe un’autobiografia?
“Di motivi ne avevo più d’uno. Il primo è stato quello di adempiere il dovere di restituire. Il secondo è stato la necessità di rispondere a chi mi chiedeva: com’è possibile che tu, discepolo di don Lorenzo Milani, ora ti batti per smontare il diritto del lavoro che si proponeva di adempiere i precetti del priore di Barbiana?”.

Appunto: come è possibile?
Non ho mai inteso smontare il diritto del lavoro: semmai liberarlo da alcune sue gravi contraddizioni. Comunque, per rispondere a questa domanda non potevo fare altro che raccontare per filo e per segno la mia esperienza di sindacalista nella Cgil negli anni ’70, poi di deputato comunista nell’ottava legislatura. Le radici della crisi attuale del nostro diritto del lavoro stanno tutte nella storia del movimento sindacale e della sinistra politica di quegli anni”.

Nel suo libro lei attacca chi “alimenta la convinzione che i mali di cui soffre il mercato del lavoro oggi siano causati dalla legge Biagi, dalla Fornero, dal Jobs Act”. Allora, lasciamo tutto com’è?
Certo che no. Ma dobbiamo renderci conto che, così come non sono state affatto queste leggi a generare le difficoltà che incontriamo nel mercato del lavoro, allo stesso modo non saranno nuovi tratti di penna sulla Gazzetta Ufficiale a risolvere questi problemi”.

Quindi?
“Il difetto più grave del nostro mercato del lavoro, oggi, non sta tanto nella disciplina legislativa, quanto nella mancanza di un sistema capillare di servizi efficienti di informazione, orientamento scolastico e professionale per chi esce da un ciclo di studi, formazione e riqualificazione mirate agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti, assistenza intensiva per chi è in difficoltà nella ricerca di una nuova occupazione. È sul terreno dei servizi, dell’implementazione amministrativa, che le cose funzionano malissimo o non funzionano affatto”.

Lei è stato deputato dal ’79 all’83, senatore dal 2008 a pochi mesi fa. Dal Pci al Pd, passando per Mario Monti e la sua Scelta civica. È (anche) colpa vostra, se oggi i tanto vituperati “populisti” hanno conquistato la maggioranza?
“In qualche misura certamente sì, togliendo dal discorso il Pci che c’entra poco, perché avremmo potuto fare meglio le molte cose giuste che abbiamo fatto dal novembre 2011 all’anno scorso. Ma quello che è accaduto in Italia il 4 dicembre 2016 e il 4 marzo 2018 è soprattutto l’effetto di un vento che ha soffiato forte in tutto il mondo occidentale: una sorta di riflusso dopo un quarto di secolo di globalizzazione galoppante. Da noi, poi, questo vento è stato rafforzato dal fatto che nel 2011 abbiamo dovuto bruscamente prendere atto che non potevamo andare avanti a spendere 30 miliardi di euro all’anno in più di quello che producevamo, come avevamo fatto per tutti i tre decenni precedenti; e per di più abbiamo dovuto anche chiederci come incominciare a restituirli. Il rattrappimento della spesa pubblica che ne è conseguito è stato vissuto come uno smantellamento dello Stato sociale, con uno sconvolgimento senza precedenti nell’opinione pubblica”.

Come se ne esce?
“Anche studiando la storia, le nostre radici”.
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