“[…] Perché il sentimento dominante, alla fine di questa bella storia, è per me il rimpianto? […] Talvolta c’è bisogno di una boccata d’aria fresca di alta montagna: credo che la lettura del libro sia stata questo, una bella storia in cui si è accompagnati deliziosamente da uno dei protagonisti, tanto che alla fine non ci si sente quasi più degli estranei”
.
Lettera pervenuta il 5 luglio 2018 – Gli altri commenti, recensioni e interventi su La casa nella pineta sono raccolti nella pagina web dedicata al libro .
.
Gentile Professore,
Le scrivo la mattina dopo aver terminato la lettura del suo libro, ma già dopo i primi capitoli avevo in mente di farlo. È stato un vero piacere farsi accompagnare da lei a conoscere la sua famiglia, i luoghi (fra l’altro la Versilia è cara anche a me, per quindici anni ho trascorso le vacanze a Marina di Pietrasanta con i miei genitori), le persone, le vicende, insomma: la storia. Sono stata felice di averla “conosciuta” più da vicino, dopo averla incontrata e ascoltata un paio di volte a Villapizzone (faccio parte di quel gruppo di ragazzi capitanati da padre Beppe Lavelli ai quali, una domenica di novembre dello scorso anno, se non ricordo male, ha illustrato gli ingranaggi meno evidenti di quel mondo del lavoro al quale ci affacciamo o del quale facciamo già parte).
Dopo una lettura così particolare e intima mi resta una sola domanda, forse rivolta inconsciamente più a me stessa che a lei, ma mi permetto comunque di scriverne: perché il sentimento dominante, alla fine di questa bella storia, è per me il rimpianto? Rimpianto di non aver vissuto quegli anni, quell’università, quegli incontri. Capisco bene che ci sia una forte componente di ingenuità in questo, poiché come lei ha scritto e vissuto in prima persona le difficoltà c’erano anche allora, e ben maggiori di quelle odierne a ben vedere. Non rimpiango certo gli anni di piombo, né l’immediato dopoguerra. Eppure sono convinta che il modo di vivere era un altro, che sento molto mio, ma ormai andato perso: il gusto delle cose semplici, la sobrietà, l’integrità morale a prescindere dal credo religioso, il senso irreprensibile della giustizia. Dove posso trovare oggi un don Milani? Dove una figura alla quale rivolgermi in tempi d’incertezza universale? Insomma, dove dei maestri? Perché mi creda, è di questi che la mia generazione (ho 29 anni) ha sentito più la mancanza, anche se ormai si arrangia – più o meno goffamente – a diventar grande.
Non posso certo dire di essere stata sfortunata: vengo da una famiglia molto diversa dalla sua numericamente (sono figlia unica, negli anni a Natale è stato raggiunto il numero massimo di nove persone a tavola), ma unita e che mi ha cresciuto secondo determinati valori, pur lasciandomi libera di fare le mie scelte. Ho studiato filosofia in Cattolica, sto finendo il dottorato all’università di Friburgo, in Germania. Ho incontrato mio marito, italiano e dottorando a Parigi, girando in Europa (e mi fa male vedere come oggi sia così facile darla per scontata, se non addirittura rinnegarla). Ci apprestiamo ad abbandonare l’università, che purtroppo ci obbligherebbe a campare tramite un’infinità di lavori “a progetto” in cui non crediamo e che fra l’altro sviliscono le nostre materie (storia e filosofia), per tornare in Italia senza eroismi come insegnanti/educatori precari, certo con qualche sogno nel cassetto, ma convinti di ritornare da europei nel nostro Paese, sperando di poter mettere al servizio delle nuove generazioni quello che abbiamo raccolto in questi anni di vita e di formazione all’estero.
Eppure, nonostante le innumerevoli opportunità ricevute e tutt’ora a disposizione, ci sentiamo in qualche modo “orfani”: ci sentiamo più vicini alla generazione dei nostri nonni rispetto a quella dei nostri genitori, tutto è incerto se non sull’orlo di un precipizio; si vorrebbe fare qualcosa, ma non si capisce né cosa né come. Mi sono ritrovata ad appassionarmi a figure come quelle di Piero e Ada Gobetti, per dire. I modelli di un tempo, quelli che ho ritrovato ad esempio nel suo libro, purtroppo non funzionano più come allora.
Del resto sono certa che l’unico modo per salvare questo presente così ambiguo sia quello di immergervisi completamente (forse proprio perché mi sono specializzata in metafisica!): non disprezzarlo dall’alto con fare spocchioso, lasciando che intanto questo passi incurante del disprezzo altrui, ma stare nelle brutture, nella narcosi imperante che offusca menti e cuori senza lasciarsi da essa scalfire, ma, come ripeteva Sua nonna, cercando sempre di vedere e far emergere il positivo in ciascuna situazione o in ciascun uomo. Come scriveva Tolstoj, “tutta la bellezza, la delizia, la varietà della vita è fatta di ombra e di luce” e non potrebbe essere tale altrimenti.
Tutto ciò è molto difficile, talvolta c’è bisogno di qualche appiglio in più, di una boccata d’aria fresca di alta montagna: credo che la lettura del suo libro sia stata questo, una bella storia in cui si è accompagnati deliziosamente da uno dei protagonisti, tanto che alla fine non ci si sente quasi più degli estranei.
Grazie dunque per averci aperto così calorosamente la porta della casa nella pineta.
Silvia Pogliano
.
.