Le misure approvate dal Governo per frenare i contratti a termine sembrano destinate soltanto ad aumentare il contenzioso giudiziale, mentre un effetto opposto allo scopo perseguito potrebbe essere prodotto dal forte aumento degli indennizzi per i licenziamenti nei rapporti stabili
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Articolo pubblicato sul sito lavoce.info il 5 luglio 2018 – In argomento v. anche La dignità del lavoro non dipende dall’inamovibilità e Il decreto volatilità .
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Mettiamoci nei panni di una persona che aspira a un rapporto di lavoro che duri il più a lungo possibile, alla quale un’impresa offra un contratto a termine con la possibilità di scegliere tra la durata di 12 mesi, di 24, o di 36. Nella quasi totalità dei casi sceglieremmo il termine più lungo. Per questo aspetto, dunque, è molto difficile sostenere che il cosiddetto “Decreto dignità”, vietando i contratti di durata superiore a 24 mesi e penalizzando quelli di durata superiore a 12 mesi, faccia un buon servizio ai lavoratori.
Ora mettiamoci, invece, nei panni di una persona che, avendo lavorato con un contratto che cessa al termine di 12 mesi, aspiri a continuare a lavorare per la stessa impresa. La prosecuzione del rapporto può avvenire o con una proroga, oppure con la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Qui la questione da porsi è: “mi conviene che la legge vieti o penalizzi una proroga ulteriore, così l’impresa sarà costretta a ingaggiarmi a tempo indeterminato, oppure l’ostacolo farà sì che io venga lasciato a casa?”. In una parte dei casi è più probabile la prima ipotesi, in un’altra parte dei casi la seconda. Quale delle due ipotesi è la prevalente, nella realtà del tessuto produttivo?
Politiche del lavoro prive di sperimentazione
A questa domanda, nel nostro Paese, c’è una risposta “di sinistra”: “Se la proroga è vietata, è più probabile che il lavoro prosegua con la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato”. E c’è una risposta “di destra”: “Se la proroga è vietata, la persona interessata perderà il posto, oppure il lavoro regolare si trasformerà in lavoro nero”. Se fossimo un Paese più pragmatico ed evoluto, la risposta dovrebbe essere cercata con lo stesso metodo con cui si studia l’effetto di un farmaco: cioè attraverso esperimenti scientificamente rigorosi, nei quali si confronta il comportamento di un campione di soggetti cui si applica il trattamento (il farmaco, la nuova norma) con quello di un campione statisticamente identico “non trattato”. Ma da noi il pragmatismo ha poco corso: siamo dunque condannati a veder variare il contenuto della norma a ogni stormir di fronda politica, con l’effetto di una volatilità della regolamentazione del lavoro che sicuramente costituisce un costo per tutti, se non altro perché riduce l’attrattività del Paese per gli investitori esteri.
Ad aumentare l’incertezza del contenuto della regola viene poi un’altra norma contenuta nel “Decreto dignità”: quella che reintroduce l’obbligo della “causale”, cioè della verbalizzazione di un “giustificato motivo” per tutti i contratti a termine o relative proroghe che portino il rapporto a superare la soglia dei 12 mesi. Tutti sanno quanto scarsa sia la prevedibilità dell’esito della verifica giudiziale sulla “causale” indicata per un contratto a termine: dipende dalle infinite variabili di una istruttoria e discussione giudiziale sulle “vere esigenze aziendali”, e ancor più dall’orientamento del giudice che dovrà occuparsene, non conoscibile preventivamente. Tutti sanno che questa incertezza determina l’aumento del contenzioso giudiziale. Chi trae beneficio da questa incertezza? Non certo le imprese, ovviamente. Ma neppure i lavoratori. Se davvero il loro interesse è nel senso della restrizione degli spazi per il contratto a termine, questa può essere imposta in vari modi che non implicano alcuna incertezza: per esempio restringendo la percentuale dell’organico aziendale che può essere impiegato a termine.
La sola categoria che trae beneficio dall’incertezza del contenuto pratico della norma è quella degli avvocati giuslavoristi; i quali, infatti, hanno molto sofferto nell’ultimo quinquennio della riduzione di oltre due terzi del contenzioso giudiziale in materia di contratti a termine, conseguente alle riforme del 2012 e del 2015. Ora recupereranno.
Incertezza dei costi e volatilità delle regole deprimono la domanda di lavoro
Una cosa, però, è certa: quel che muove il Governo a varare il “Decreto dignità”, per la parte di esso dedicata al lavoro, non può essere davvero la riduzione del flusso dei contratti a termine: altrimenti non si spiegherebbe l’aumento del 50 per cento di tutti gli indennizzi (peraltro già mediamente superiori rispetto a quelli in vigore in tutti gli altri ordinamenti europei) previsti dalla riforma del 2015 in materia di licenziamento nei rapporti a tempo indeterminato. Per effetto di questo aumento, ora un imprenditore che si trova a dover ingaggiare una persona, senza avere alcuna certezza circa le sue competenze effettive e la sua capacità di rispondere alle esigenze aziendali specifiche, è esposto al rischio – se nel giro di uno o due anni le cose vanno male – di un esborso pari a sei mensilità della retribuzione: un forte incentivo ad assumere il più possibile a tempo determinato. È ragionevole prevedere che l’incremento del flusso delle assunzioni a termine prodotto da quest’ultima norma sarà più che sufficiente per neutralizzare il decremento prodotto dalle prime due, di cui si è detto.
Si dirà: “però l’aumento dell’entità dell’indennizzo ridurrà la probabilità di licenziamento a cui sono esposti i lavoratori stabili”. Senonché i dati disponibili mostrano che, di fatto, questa probabilità non è aumentata né a seguito della riforma del 2012 (legge Fornero), né a seguito di quella del 2015: la denunciata “precarizzazione dei posti di lavoro stabili” non si è verificata affatto; e presumibilmente non si verificherà neppure il fenomeno inverso per effetto di un aumento dell’indennizzo.
Il solo effetto del “Decreto dignità”, per la parte dedicata al lavoro, è dunque un aumento della volatilità della legislazione, che costituisce di per sé un vantaggio per il ceto forense, ma un disincentivo a investire nel nostro Paese. Con il conseguente effetto depressivo sulla domanda di lavoro e in definitiva sul potere contrattuale dei lavoratori. Che cosa, poi, tutto questo abbia a che fare con la dignità del lavoro, resta un mistero.
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