Mezzo secolo di storia della sinistra italiana vista con gli occhi di un “irregolare”: irregolare non soltanto nella Chiesa, nel partito, nel sindacato, nel movimento studentesco cui per qualche tempo ha partecipato, ma anche come avvocato e come professore
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Trascrizione dell’intervento svolto da Lucia Annunziata per la presentazione del libro La casa nella pineta a Roma il 13 giugno 2018 (la pubblicazione è autorizzata dall’Autrice, che, impegnata all’estero, non ha ancora potuto rivederla) – Le altre recensioni, foto, documenti e interventi relativi al libro sono raccolti nella pagina web a esso dedicata .
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Quando mi sono vista arrivare il libro di Pietro Ichino, ho letto il sottotitolo e ho dato una prima scorsa alle prime pagine, ho pensato che appartenesse a un genere letterario che in questo periodo sta avendo una certa diffusione: quello del mémoir di una famiglia borghese, meglio se con un côté ebraico, che racconta come essa se la sia cavata nel secolo scorso, attraverso gli anni ’60, il sessantotto, gli anni di piombo e così via. Ci sono sempre, qui, una nonna e una mamma per lo più raffinate, bene educate e bene educanti, depositarie del lessico e delle tradizioni familiari, con la loro ricetta degli spinaci con le uvette o della torta di mele, che costituiscono il vero asse portante della famiglia. Ci sono le avversità e i successi di quest’ultima raccontati con garbo. E non è inutile che vengano raccontati, perché sono queste le storie di cui è fatto il Paese; ma sono, appunto storie di famiglia e tutto finisce lì. Il libro di Pietro Ichino è un’altra cosa. Perché lui racconta, sì, la storia della propria famiglia, ma lo fa per raccontare vicende che riguardano l’intero Paese; e questo racconto aiuta a perfezionare la conoscenza che abbiamo di queste vicende, aggiunge alcuni dati preziosi e alcuni punti di vista illuminanti.
Il racconto parte, come è giusto, dalla casa nella pineta: il bene che si trasmette di generazione in generazione lungo il secolo scorso, segno dell’agio di cui la famiglia gode. Ma si sposta ben presto sulla figura di Pietro, che si caratterizza per sentirsi sempre un po’ fuori posto, un po’ “irregolare”. È figlio legittimo della buona borghesia milanese, ma fin dall’adolescenza cerca di spogliarsi di questa condizione, poi incoraggiato dalla predicazione di don Milani e dagli entusiasmi sessantottini lo fa per davvero andando a lavorare con gli operai e per gli operai, però anche lì è un irregolare: gli operai si chiedono e gli chiedono che ci fa lì, perché non se ne sta nel mondo che lo ha partorito. Si ritrova nella Cgil e nel Pci, il grande partito della sinistra bene organizzato, e anche lì è un irregolare, perché non condivide l’idea di fondo dell’antagonismo tra lavoro e impresa. Arriva fino in Parlamento, ancora molto giovane, e sperimenta le durezze della disciplina di partito; con l’incoraggiamento e il consiglio di due grandi di cui ha la ventura di trovarsi accanto, Pietro Ingrao e Bruno Trentin, riesce anche a farsela andar bene quella disciplina, ad accettarla. Ma è il partito che finisce col non accettare lui. E si ritrova improvvisamente fuori: fuori dal Palazzo, nel quale ha vissuto un passaggio decisivo per la sinistra italiana, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80; fuori dal sindacato dove ha lavorato per i primi dieci anni della sua vita adulta.
Dicevo che il racconto è importante per la ricostruzione di quel che è accaduto in Italia e in particolare nella sinistra italiana e nel movimento sindacale in quegli anni, perché Pietro Ichino vede quegli eventi da un osservatorio privilegiato, a diretto contatto con i protagonisti. Molto belle e importanti, in particolare, le pagine sulla vicenda cruciale della Fiat: la lotta operaia dell’80 che si inasprisce a seguito del licenziamento di una sessantina di lavoratori accusati di contiguità con i terroristi, trasformandosi da vicenda soltanto sindacale in vicenda politica, fino al famoso comizio di Enrico Berlinguer al cancello di Mirafiori. Ecco, quel momento a molti è apparso come un momento alto della storia della sinistra italiana, con il partito comunista che assume la guida degli eventi; proprio lì, invece, Ichino vede la crepa interna, invisibile dal di fuori. Racconta che in quelle settimane circola, tra i parlamentari comunisti, una raccolta di fondi a sostegno della lotta degli operai della Fiat; e lui intuisce ciò a cui quei fondi sono realmente destinati: a sostenere uno sciopero a oltranza che si vuole trasformare in occupazione della fabbrica. Senonché proprio la sua esperienza di lavoro sindacale incominciata nell’autunno caldo del ’69 gli dice che l’occupazione, così come i picchetti duri ai cancelli di Mirafiori, non sono segno di forza del movimento, ma al contrario segno di debolezza. Perché il movimento è forte, e dimostra la propria forza, proprio quando sa fare a meno dei picchetti ai cancelli; quando basta il fischio del delegato per far fermare l’intero reparto con dentro tutti gli operai. Magari soltanto per un quarto d’ora, che fa pesare meno lo sciopero sulle loro buste-paga; ma è un quarto d’ora che al tavolo delle trattative pesa molto di più del blocco di un’intera giornata, o addirittura a oltranza, ottenuto coi picchetti ai cancelli per non fare entrare la gente. Perché tra quella gente cui si impedisce di entrare c’è anche chi non è d’accordo. E potrebbe essere la maggioranza. Insomma, lo sciopero a oltranza destinato a sfociare nell’occupazione della fabbrica è, in realtà, segno di una grave debolezza del movimento, rispetto agli obiettivi che si propone.
Ichino non dà il suo contributo alla raccolta di fondi per sostenere quella lotta. Lo confida a Gerardo Chiaromonte, responsabile della “Sezione lavoro” della Direzione del partito, dicendogli il motivo per cui la deriva verso l’occupazione della fabbrica gli sembra un segno di debolezza, non di forza; e Chiaromonte a sua volta gli confida la sua preoccupazione per la piega che le cose hanno preso con il comizio di Berlinguer ai cancelli di Mirafiori, confidandogli che neppure lui ha dato il suo contributo alla raccolta di fondi. La crepa, dunque, è già aperta, perfino al vertice del partito. I fatti non tardano a mostrare quanto quelle preoccupazioni siano fondate. Dopo pochi giorni il dissenso che i picchetti ai cancelli avevano cercato di occultare esplode, con la “marcia dei quarantamila” che segna la fine di un’epoca. Una sconfitta pesante della concezione della lotta sindacale come espressione dell’antagonismo tra lavoro e capitale, come manifestazione sociale di un disegno politico rivoluzionario.
Dunque, anche il responsabile della sezione Lavoro del partito Chiaromonte dissente dalla linea scelta del segretario generale del partito Berlinguer. Ma il dissenso è confessato solo in via confidenziale. Il grande partito funziona così. Un po’ pesante, certo; e il libro di Ichino descrive bene questa pesantezza. Ma è anche una sicurezza per il sistema. Oggi forse ne sentiamo un po’ la mancanza.
Le pagine in cui queste vicende vengono raccontate “in soggettiva”, viste con gli occhi del giovanissimo deputato comunista “irregolare”, sono tra le più belle del libro; e sono illuminanti, perché spiegano dal di dentro che cosa stava succedendo. Pietro Ichino, tra l’altro, guarda tutto questo anche con l’occhio dell’avvocato, che individua dettagli solo apparentemente piccoli, in realtà molto importanti e significativi. Osserva, per esempio, che dei sessanta dipendenti della Fiat licenziati con l’accusa di contiguità con la lotta armata, la maggior parte scompare nella clandestinità: la Direzione aziendale, dunque, aveva fatto le cose bene; aveva ragione lei; e chi lavorava dentro la grande azienda lo sapeva. Gravissimo errore, dunque, quello del movimento e del partito che hanno la pretesa di partire proprio dall’opposizione a quei sessanta licenziamenti per la grande prova di forza “antagonistica”.
Belle anche le pagine in cui Ichino racconta del suo lungo dialogo con Bruno Trentin, durante un viaggio verso Napoli. Trentin, in un certo senso un “irregolare” anche lui, era con Pietro Ingrao uno dei due grandi punti di riferimento della sinistra-sinistra: ricordo che al Manifesto Luciana Castellina, Lucio Magri, Rossana Rossanda, Luigi Pintor, consideravano “Bruno e Pietro” come i numi tutelari, rimasti nel Pci ma padri di tutta la sinistra. Anche Bruno Trentin soffriva di quella pesantezza del grande partito, ma la viveva come il costo che si doveva pagare per rimanere in contatto con le grandi masse popolari. E per poter svolgere quel ruolo pedagogico, che resta uno dei grandi meriti che al Pci tutti oggi riconoscono.
Ma torniamo all’autore-protagonista del libro. Non è un “irregolare” soltanto nel partito, nel sindacato, nel movimento studentesco cui per qualche tempo ha partecipato: è un “irregolare” anche come avvocato. Perso il seggio parlamentare, lavora ancora per conto proprio, rifiutando ancora di entrare finalmente nello studio legale dei nonni e dei genitori, facendo – sono le sue parole – l’“avvocato scalzo”. In quel periodo si dedica a riversare in un libro tutto il diritto del lavoro che ha studiato dal vivo, nel lavoro di zona alla periferia nord di Milano; e con quella monografia vince il concorso a cattedra, saltando tutti i passaggi intermedi della normale carriera universitaria: un po’ irregolare anche in questa veste.
Qui si innesta una terza stagione raccontata nel libro: quella degli anni di piombo, dello stillicidio di assassini e ferimenti a opera dei terroristi di sinistra, i quali a un certo punto incominciano a concentrare le loro attenzioni sugli economisti e i giuristi del lavoro: viene ucciso Ezio Tarantelli, vengono feriti Gino Giugni e Filippo Peschiera, poi di nuovo uccisi Massimo D’Antona e Marco Biagi. Il perché di questa attenzione al diritto del lavoro è un tema dell’ultima parte del libro, nella quale Ichino racconta anche la vicenda impressionante di Amarilli, la studentessa della sua stessa Facoltà, venuta da Padova con un compagno, per unirsi al gruppo delle “nuove Brigate Rosse” che prepara un attentato proprio a lui, al professore di diritto del lavoro. Racconta che l’aveva notata, quella studentessa, per la sua bellezza, e aveva anche discusso con lei nel corso di un dibattito politico promosso dagli studenti; ma mai si sarebbe aspettato di poterne essere aggredito. Perché le canne puntate sui giuslavoristi? Perché sono i giuslavoristi che, con le loro architetture legislative o contrattuali, costruiscono le soluzioni per dare uno sbocco costruttivo ai conflitti, per rendere possibile la collaborazione tra lavoratori e imprese; mentre i rivoluzionari hanno bisogno che i conflitti non abbiano altra soluzione che lo scontro violento. È ancora l’“antagonismo” della vecchia sinistra che viene fuori, sebbene in una forma tragicamente diversa da quella perseguita con scioperi a oltranza e occupazioni di fabbrica dalla sinistra sindacale.
È al termine del capitolo sugli anni di piombo che, ancora una volta, viene fuori l’anima del giurista, dell’avvocato. Questa volta, però, non per esaltare il ruolo delle norme giuridiche, quanto per avvertire del loro peso tutto sommato marginale nel determinare l’evoluzione dei rapporti di produzione: parlando della parte della sinistra che imputa alle grandi leggi sul lavoro dell’ultimo quarto di secolo – il “pacchetto Treu” del 1997, la legge Biagi del 2003, le leggi Fornero del 2011-2012, per arrivare al Jobs Act del 2015 – il diffondersi della precarietà nel tessuto produttivo, Ichino sottolinea quanto sia ingenuo pensare che basti cancellare queste norme per ritornare all’“età dell’oro” perduta.
Quell’ingenuità – dice – nasconde la nostalgia per l’epoca in cui il ritmo dell’evoluzione tecnologica era lento, in cui l’azienda poteva candidarsi a essere la casa dei propri lavoratori “dalla culla alla tomba”: un’epoca passata che non si può richiamare in vita col solo riprodurre l’ordinamento giuridico che la accompagnò. Ma quell’ingenuità nasconde anche una nostalgia meno confessabile: la nostalgia per il trentennio nel quale ci siamo permessi di vivere spendendo ogni anno l’equivalente di trenta miliardi di euro più di quanto producevamo, prendendoli a prestito. Ora che non possiamo più permettercelo, e anzi dobbiamo incominciare a pensare a restituire quei soldi, ci fa comodo pensare che la stretta odierna sia solo il frutto della malvagità dell’establishment, dei grandi finanzieri che ci hanno presi in ostaggio, degli odiati mercati. È un modo per continuare a non fare i conti con la realtà.
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