RACCONTI INTIMI E FAMILIARI PER PARLARE AL CUORE DI TUTTI

“Raccontare, con il pudore della sincerità, questioni che riguardano ognuno di noi […] fornire, proprio in tempi di smarrimento e di crisi, testimonianze dense di memorie e ricerca d’identità”

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Recensione a cura di Antonio Calabrò, nella rubrica
Libri a confronto, pubblicata sul Quotidiano Nazionale (Il Giorno, La Nazione, Il Resto del Carlino) il 1° luglio 2018 – Le altre recensioni de La casa nella pineta sono raccolte nella pagina dedicata al libro  .
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Il mare della Versilia, tra le chiome dei pini e quelle dei lecci

Scrivere di sé e delle persone care, per raccontare, con il pudore della sincerità, questioni che riguardano un po’ tutti. E fornire, proprio in tempi di smarrimento e di crisi, testimonianze dense di memorie e ricerca d’identità. Lo fa molto bene Pietro Ichino in “La casa nella pineta – Storia di una famiglia borghese del Novecento”, Giunti. La casa è in Versilia, dove fin dai primi de Novecento le famiglie Pellizzi e Ichino trascorrono i mesi delle vacanze tra affetti (i cugini Pontecorvo, Sereni, Ascarelli e Sraffa-Tivoli: studiosi che segneranno la grande cultura europea), feste, discussioni d’arte e letteratura. Giochi, nell’allegro passaggio di testimone tra generazioni. E un lessico famigliare che rimanda a valori forti di solidarietà e responsabilità. Un incontro con don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana, attento alla “Chiesa dei poveri”, nel 1959, segnerà per sempre Pietro, allora bambino: accennando al benessere della caas milanese e di quella tenuta versiliese, il sacerdote sentenzia: “Per tutto qusto ancora non sei in colpa, ma dai ventun anni, se non restituisci tutto, incomincia a essere peccato”. Nasce da qui l’idea del “dovere della restituzione”: la difesa dei lavoratori più deboli da avvocato della Cgil, l’impegno politico (deputato per il Pci) e poi un solido riformismo per affrontare i problemi dell’economia e del lavoro, proponendo soluzioni che migliorino la vita, non sogni ideologici. Cultura e buona politica. Con un’idea chiara della responsabilità di un’élite: lo sguardo lungo e generoso sull’interesse generale. C’è un’altra casa in Versilia, di cui dare conto. Quella in cui si rifugia Cesare Garboli, critico di straordinaria elegante intensità, nel maggio 1978, all’indomani dell’assassinio di Aldo Moro, per sfuggire alla cupezza romana degli “anni di piombo” e coltivare la passione per la letteratura. Ne fa un’affettuosa eppure severa rievocazione Rosetta Loy in un libro essenziale fin dal titolo, “Cesare”, Einaudi: una storia d’amore un incrocio di intelligenze, un’idea lucida sui doveri  del mestiere di scrivere: fare emergere e tramandare bellezza e civiltà.
Mai semplice, il ricordare, tra scarne felicità e dolorose inquietudini. In “L’estate del ’78”, Sellerio, Roberto Alajmo, uomo di scrittura e teatro, fa i conti con la figura della madre Elena, partendo proprio dall’ultimo incontro, nel luglio vigilia di esami di maturità. Ritratto d’una donna “che voleva afferrare il mondo, e il mondo le scappava dalle dita”, sino al volontario “destino penoso”. Disagio familiare, tra silenzi e malattie. Ma anche un gran bisogno d’amore, con il peso dell’essere figlio (guardare la madre per ritrovarsi in lei) e della responsabilità dell’essere padre, d’un piccolo Arturo cui alleviare, per come si può, la scommessa incerta dell’equilibrio nel diventare adulto. Emozioni forti. E una piccola dose d’ironia, in sapiente mescolanza.

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