Bene affidare alla contrattazione l’individuazione delle tecniche di protezione più adatte al lavoro mediante piattaforme digitali; ma sarà comunque necessaria una legge che regoli gli aspetti previdenziali e fissi uno standard retributivo orario minimo, determinato in funzione del costo della vita in ciascuna regione o macro-regione
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Intervista a cura di Nicola Pini, pubblicata su l’Avvenire del 19 giugno 2018 – In argomento v. anche l’intervista pubblicata il giorno prima su La Stampa .
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Professor Ichino, a fronte della diffusione del lavoro temporaneo, il governo si propone di introdurre una disciplina più restrittiva dei contratti a termine, introducendo causali specifiche per l’attivazione e limitando il numero delle ripetizioni dei contratti. Che cosa ne pensa?
Se lo scopo è quello di disincentivare le assunzioni a termine e incentivare quelle a tempo indeterminato, la via maestra consiste nell’aumentare il costo della contribuzione sulle prime e ridurlo sulle seconde. Cercare di farlo, invece, con la vecchia tecnica delle “causali” significa soltanto fare un grosso regalo agli avvocati, facendo tornare ad aumentare il contenzioso giudiziale, che dal 2012 a oggi si è fortemente ridotto.
Ma la decontribuzione in corso sui contratti stabili sta funzionando? L’Istat sta registrando un calo degli occupati a tempo indeterminato…
Il numero assoluto degli occupati a tempo indeterminato sta lentamente ma costantemente aumentando: sono circa seicentomila in più di quanti erano tre anni fa. L’Istat ci avverte, certo, che stanno aumentando anche gli occupati a termine; e che la loro percentuale sul totale degli occupati è oggi di un punto più alta rispetto a tre anni fa. Però questa percentuale è oggi intorno al quindici per cento del totale, in linea con la media dell’Unione Europea. Dobbiamo, sì, cercare di favorire il più possibile le assunzioni a tempo indeterminato; ma dobbiamo farlo insistendo con la diminuzione del costo dei contratti stabili rispetto a quelli a termine; e anche evitando di annunciare a giorni alterni il ripristino del vecchio articolo 18, che costituisce, quello sì, un fortissimo disincentivo contro le assunzioni stabili.
Un altro ambito dell’azione del governo riguarda i rider e il lavoro nella cosiddetta gig economy. Cosa pensa delle proposte in merito?
Un intervento per assicurare a tutti i lavoratori delle piattaforme digitali le protezioni essenziali è sicuramente necessario. Farlo qualificandoli tutti come lavoratori subordinati ordinari e imponendo la relativa disciplina con tutte le sue rigidità significherebbe ignorare le caratteristiche essenziali di questa forma nuova di organizzazione del lavoro. E di fatto soffocarla.
Il ministro Di Maio ha annunciato un decreto ma oggi propone un tavolo di confronto con le aziende per concordare nuove tutele. Qual è la strada migliore da seguire?
Per la generalità dei lavoratori di questo settore occorre prevedere uno standard retributivo minimo, l’assicurazione antiinfortunistica e quella pensionistica. Si può farlo imponendo che le retribuzioni vengano pagate attraverso la piattaforma istituita presso l’Inps per il lavoro occasionale, che sta funzionando bene. Poi, dove l’attività sia più intensa e continuativa, anche le protezioni devono aumentare
A proposito di lavoro occasionale, può essere utile l’annunciata reintroduzione dei voucher?
Non si tratterebbe di reintrodurli, perché in forma digitale già esistono, appunto attraverso la nuova piattaforma Inps. Si tratterebbe di consentirne l’utilizzazione, entro limiti ragionevoli ben definiti, anche alle imprese con più di cinque dipendenti. E mi parrebbe una buona idea.
Cosa pensa dell’introduzione di un salario minimo, altro punto del programma di governo?
È sempre più necessario. Ma nell’introdurlo occorre fare molta attenzione, per evitare un doppio rischio: che sia inefficace, o che viceversa abbia l’effetto di ridurre le occasioni di lavoro regolare. Uno standard minimo adeguato ed efficace nel nord-Italia può essere proibitivo in Calabria o Lucania; viceversa, uno standard calibrato bene per il sud del Paese sarebbe del tutto incapace di “mordere” al nord. Anzi: al nord sarebbe controproducente, perché finirebbe coll’avere un effetto depressivo sulle retribuzioni concretamente negoziate, indicando alle parti un livello troppo ridotto.
Dunque?
L’unica soluzione che riesco a vedere è che lo standard minimo venga espresso in termini di potere d’acquisto effettivo. Per esempio: fatto 100 il costo della vita italiano medio, si fissa una retribuzione oraria minima di 7 euro, da riproporzionarsi in ciascuna regione o macro-regione in relazione al costo della vita che in essa l’Istat rileva.
Gabbie salariali?
No: soltanto elementare buon senso, fondato su di una osservazione pragmatica delle diversissime realtà regionali del nostro Paese. E anche sull’osservazione di come la Germania ha affrontato e risolto la questione dei gravissimi squilibri regionali tra est e ovest.