LA CREPA INTERNA DELL’ARTICOLO 39

Attuare la disciplina costituzionale della contrattazione collettiva nazionale con efficacia erga omnes, come qualcuno oggi torna a proporre, ci riporterebbe a un sistema di relazioni industriali nel quale la categoria sindacale, definita dall’ordinamento statuale, preesiste al contratto collettivo invece che esserne originata

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Articolo in corso di pubblicazione nel volume di Scritti in onore di Roberto Pessi, Il diritto del lavoro e la sua evoluzione, ed. Giappichelli, anticipato sul settimanale della diocesi di Pistoia La Vita, 25 giugno 2018 – In argomento v. pure I paradossi e l’ingiustizia del contratto collettivo nazionale 
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In questa strana stagione politica nella quale sembra che il valore di ogni esperienza e di ogni sapere sia azzerato, si torna a discutere dell’opportunità di dare attuazione alla seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione. Chi questo propone farà bene a riflettere sui motivi che hanno indotto gran parte della dottrina giussindacalistica a ritenere che questa norma costituzionale sia nata male. Di più: che il suo stesso impianto sia strutturalmente sbagliato. E che proprio in questo suo essere sbagliato vada cercato il motivo prevalente della perdurante disapplicazione della previsione costituzionale, a settant’anni dalla sua entrata in vigore.

Vediamo la questione più da vicino.

Quando la norma venne scritta, nell’immediato dopoguerra, si era chiusa da soli tre anni l’esperienza dell’ordinamento corporativo: cioè di una Camera delle Corporazioni in seno alla quale i “sindacati unici” dei lavoratori, che erano enti pubblici, stipulavano i contratti collettivi con le associazioni imprenditoriali, enti pubblici anch’esse. Leggi e regolamenti stabilivano i settori o “categorie sindacali” nei quali gli uni e le altre dovevano operare e ai quali si sarebbero applicati i contratti collettivi stipulati. In altre parole, la categoria preesisteva al contratto collettivo, costituendo l’alveo entro il quale esso doveva collocarsi. Era questo il sistema del cosiddetto “inquadramento costitutivo”.

Il legislatore costituente, stabilendo il principio della libertà sindacale (articolo 39, primo comma) ha voluto, innanzitutto, liberare la contrattazione collettiva da quella vera e propria gabbia: lavoratori e imprenditori sono dunque ora liberi di associarsi secondo il criterio che preferiscono, quindi nell’ambito di una categoria non predeterminata dalla legge, bensì definita liberamente da loro stessi mediante il contratto. E sono liberi di stipulare, o rifiutar di stipulare, il contratto collettivo con la controparte che preferiscono. Sarà poi il contratto collettivo effettivamente stipulato, e proprio per il fatto di essere stato stipulato, a definire la “categoria sindacale” effettiva. La conseguenza principale del principio di libertà sindacale è dunque questa: non è più la “categoria” che preesiste al contratto collettivo, come nel sistema corporativo, ma è il contratto collettivo che preesiste alla categoria e le dà vita.

Senonché, subito dopo aver sancito il principio di libertà sindacale il legislatore costituente si è preoccupato anche di riempire quello che gli appariva come un vuoto istituzionale, apertosi con la soppressione della Camera delle Corporazioni. E ha pensato bene di farlo dando vita a una sorta di… “Camera delle Corporazioni democratizzata”. Ne è nato il meccanismo delineato nel quarto comma dell’articolo 39, dove si prevede che in ciascuna categoria si costituisca una “rappresentanza sindacale unitaria” composta in proporzione al numero degli iscritti di ciascun sindacato registrato, unica abilitata a stipulare il contratto collettivo nazionale con efficacia erga omnes nell’ambito della categoria stessa. È evidente che un meccanismo siffatto può funzionare soltanto in quanto venga preliminarmente definita la categoria, nell’ambito della quale la “rappresentanza sindacale unitaria” dovrà poi essere costituita e potrà contrattare. Così la categoria torna a preesistere al contratto collettivo; e la contrattazione è privata del potere di dare vita liberamente a nuove categorie, o quanto meno di ridefinire quelle esistenti.

Insomma, il quarto comma dell’articolo 39, se attuato, porrebbe una rilevantissima limitazione al principio di libertà sindacale enunciato nel primo. Per mettere bene a fuoco il problema, si pensi alla summa divisio tra operai e impiegati, che nel sistema corporativo era imposta alla contrattazione collettiva dall’“inquadramento costitutivo”: se quella divisione fosse stata introdotta autoritativamente, in sede di applicazione del quarto comma, sarebbe stato in seguito necessario modificare la legge istitutiva per arrivare all’inquadramento unico operai-impiegati con un’unica disciplina collettiva applicabile a tutti. Oppure, si pensi alla vicenda sindacale dei piloti, che nel corso degli anni ’70 riuscirono a imporsi come controparte contrattuale nel settore della gente dell’aria, a stipulare un proprio contratto collettivo distinto rispetto a quello del settore e così a dar vita a una “categoria” a sé stante, separata dal resto dei dipendenti delle compagnie aeree. Questo non avrebbe potuto accadere, o sarebbe stato molto più difficile, se il sistema della contrattazione collettiva fosse stato regolato dal meccanismo previsto dal quarto comma dell’articolo 39.

Il prof. Federico Mancini

Nel corso degli anni ’50 non soltanto la Cisl, ma anche la Cgil si oppose all’attuazione del meccanismo previsto dal quarto comma dell’articolo 39, per il timore che nella legge venisse infilata anche una disciplina limitativa del diritto di sciopero, come previsto dall’articolo 40. Ma ben presto a questo motivo per così dire tattico, a sostegno della scelta di non attuare il quarto comma, la cultura gius-sindacale aggiunse il motivo più serio e per così dire strategico: se ne incaricò Federico Mancini, allievo di Tito Carnacini, con la famosa prolusione bolognese del 1963, dedicata a mostrare il contrasto interno all’articolo 39, tra primo e quarto comma, per sostenere la necessità che quest’ultimo rimanesse lettera morta. In quell’occasione il giuslavorista bolognese, reduce da diversi anni di insegnamento insieme a Gino Giugni e a Giuseppe Pera alla Scuola sindacale di Firenze della Cisl, mostrò anche come il meccanismo previsto dal quarto comma corrispondesse all’idea di una contrattazione collettiva destinata a svolgersi soltanto al livello nazionale, poiché quel meccanismo era strutturalmente inadatto a essere applicato alla contrattazione aziendale, che invece stava incominciando – soprattutto per iniziativa della stessa Cisl – a diffondersi nelle fabbriche di maggiori dimensioni.

Oggi, all’argomento proposto da Mancini mezzo secolo fa se ne aggiunge un altro: mentre il quarto comma dell’articolo 39 fa riferimento esclusivo al numero degli iscritti a ciascun sindacato, gli accordi interconfederali del 2011-2014 che hanno affrontato la questione della verifica di rappresentatività dei sindacati stipulanti hanno scelto invece un criterio fondato sulla media tra il dato associativo (numero degli iscritti) e il dato elettorale (numero dei voti ottenuti nelle ultime elezioni delle rappresentanze sindacali): nessuna legge ordinaria potrebbe recepire questo criterio scelto dalle organizzazioni sindacali maggiori, per conferire efficacia erga omnes ai contratti collettivi nazionali, senza violare l’attuale ultimo comma dell’articolo 39. C’è però chi sostiene che questa norma costituzionale – chiaramente riferita soltanto alla contrattazione collettiva di livello nazionale – non osterebbe a una legge che si limitasse a regolare l’efficacia dei contratti collettivi di livello inferiore: i cosiddetti “contratti di prossimità”.

La scarsa consapevolezza di questo problema giuridico, e della vicenda politico-sindacale che lo sottende, ha fatto sì che le Confederazioni maggiori, insieme a Confindustria, siano incorse ultimamente in un grave errore concettuale nel cosiddetto Patto per la fabbrica del 28 febbraio scorso. Mi riferisco al passaggio di questo accordo interconfederale in cui si chiede al CNEL di “effettuare un’attenta ricognizione dei soggetti che, nell’ambito dei perimetri contrattuali, risultino essere firmatari di contratti collettivi nazionali di categoria […], affinché diventi possibile, sulla base di dati oggettivi, accertarne l’effettiva rappresentatività”. La questione cruciale, qui, è evidentemente quella della definizione dei “perimetri contrattuali”, cioè delle categorie, cui il Cnel dovrebbe fare riferimento nella sua verifica della rappresentatività delle associazioni firmatarie dei contratti collettivi. Se davvero il Cnel potesse stabilire i “perimetri contrattuali” di cui parla il Patto per la fabbrica, per delimitare gli ambiti nei quali la rappresentatività degli agenti contrattuali deve essere misurata, questo implicherebbe il ritorno a un sistema in cui la categoria preesiste al contratto collettivo. Per esempio, sarebbe il Cnel e non il libero gioco del sistema delle relazioni industriali a stabilire se ai piloti d’aereo si deve applicare il contratto della gente dell’aria stipulato da Cgil, Cisl e Uil, oppure quello stipulato dal loro “sindacato di mestiere”. E non sarebbe una buona notizia per il principio di libertà sindacale.

Con questo accordo del febbraio scorso le grandi confederazioni hanno voluto lanciare un avvertimento al nuovo Parlamento: “il sistema delle relazioni industriali è in grado di autogovernarsi da solo: il legislatore è meglio che ne stia alla larga”. Ma se questo era l’intendimento, sarebbe stato necessario che i firmatari mostrassero una capacità maggiore di mettere a fuoco i problemi più importanti per il buon funzionamento delle relazioni industriali, come questo di cui stiamo discutendo, e di individuarne incisivamente le soluzioni appropriate. Il Patto per la fabbrica, invece, li lascia irrisolti.

Che fare, dunque, oggi di fronte al proliferare dei contratti collettivi nazionali, a volte in concorrenza tra loro nell’ambito di uno stesso settore produttivo? Il problema appare molto difficile e delicato, soprattutto se si osserva che l’applicazione di un criterio di maggiore rappresentatività dei sindacati stipulanti presuppone la predeterminazione della “categoria” nell’ambito della quale verificare la rappresentatività effettiva degli agenti contrattuali; ma i contratti collettivi stessi fanno riferimento a “categorie” diverse. Per esempio, nel settore assicurativo al contratto di settore stipulato dall’Associazione imprenditoriale ANIA con le Confederazioni sindacali maggiori se ne contrappone uno stipulato, dal lato dei datori di lavoro, dallo SNA, sindacato degli agenti di assicurazione, con alcuni sindacati dei lavoratori dotati di rappresentatività minoritaria nel settore assicurativo latamente inteso (comprendente le grandi compagnie), ma non nel settore specifico delle agenzie, dove in realtà il tasso di sindacalizzazione dei lavoratori è vicino allo zero e nessun sindacato ha una apprezzabile rappresentatività. Qui, se si assume come “categoria” (o “perimetro contrattuale”, per adottare la terminologia del Patto per la fabbrica) il settore assicurativo latamente inteso, non c’è dubbio che ANIA, Cgil, Cisl e Uil sono comparativamente maggiormente rappresentative; ma se invece si assume come “categoria” il solo settore delle agenzie di assicurazione, sul lato dei datori di lavoro è più rappresentativo sicuramente lo SNA, mentre sul lato dei lavoratori in questo settore in cui operano soltanto imprese di minime dimensioni nessun sindacato è dotato di una apprezzabile rappresentatività.

Il problema sarebbe molto più facilmente risolvibile se si rinunciasse ad attribuire efficacia erga omnes ai minimi tabellari stabiliti dai contratti collettivi nazionali, contestualmente orientandosi verso un sistema di retribuzione oraria minima governata dall’autorità statale attraverso un meccanismo di consultazione con le parti sociali. E la verifica di rappresentatività sindacale ci si limitasse a regolarla per legge – il più possibile in aderenza ai criteri scelti dagli accordi interconfederali di cui si è detto – in riferimento alla “contrattazione di prossimità”, al livello regionale, territoriale, o nei luoghi di lavoro, per individuare il sindacato o coalizione che in ciascuno di questi ambiti può negoziare con efficacia per tutti i dipendenti.

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