GUIDO BAGLIONI LEGGE E COMMENTA “LA CASA NELLA PINETA”

“[…] I precetti di una buona educazione borghese: le cose che facciamo vanno fatte bene, al momento giusto, senza sprechi e distrazioni; si cresce nella vita studiando, da giovani ma anche da adulti, alimentando una cultura ampia e aggiornata, senza pregiudizi ideologici […]”

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Recensione de
La casa nella pineta a cura di Guido Baglioni, professore emerito di Sociologia nell’Università Statale di Milano, in corso di pubblicazione sulla rivista Mondoperaio, giugno 2018  – Le altre recensioni e i comenti sul libro sono raccolti nella pagina a esso dedicata   
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Il prof. Guido Baglioni

1. Il libro che presento riguarda la vita di un protagonista del diritto del lavoro, Pietro Ichino, dall’infanzia al momento della morte dell’amatissimo padre Luciano avvenuta nel 1997. A questa data, Pietro non aveva ancora cinquant’anni, era nel pieno del suo impegno civile e professionale; come lo è ancora adesso.

Il sottotitolo del libro, Storia di una famiglia borghese del Novecento, mostra subito il legame ricco e costante fra l’autore ed il suo contesto anche se egli compie importanti scelte autonome; principalmente quella di non lavorare nello studio paterno di avvocato per un lungo periodo.

Il titolo del libro si riferisce alla casa di Forte dei Marmi e, indirettamente, alla casa di Courmayeur. La prima è quella del riposo, dei giochi, del passaggio da bambini a fanciulli ed a giovani. La seconda ruota intorno alla passione degli adulti e dei figli per la montagna. Qui gli Ichino esprimono disciplina, rispetto delle regole, precetti domestici, procedure empiriche. Cosa che avviene ugualmente per molte altre loro attività.

Queste due case in particolare hanno un peso incisivo nella esistenza degli Ichino, soprattutto perché lì si trovano tutti (o quasi tutti) assieme, in più il giro dei parenti, degli amici, degli ospiti (meno o più importanti: Giovanni Gentile, Enrico Pea, Ardengo Soffici, i Treccani, i De Grada, i Longanesi, i Malaparte). L’ospitalità, frequente e multiforme, rappresenta una delle migliori qualità della famiglia di Pietro.

2.Forse è meglio che parliamo di famiglie oltre che di quella appena detta.

All’inizio del libro troviamo due utilissimi Alberi Genealogici: quello dei Pontecorvo e quello dei Pellizzi. I Pontecorvo sono una nota famiglia ebrea, con alcuni di essi trucidati alle Fosse Ardeatine o morti ad Auschwitz, comprendente personaggi importanti, come il fisico Bruno (che passerà all’Unione Sovietica), il regista Gilberto, Eugenio Colorni e Piero Sraffa.

Essi si imparentano con i Pellizzi perché Paola Pontecorvo sposa Carlo Pellizzi.

I Pellizzi sono costituiti da due gruppi: in uno di essi ci sono due sottogruppi:

  • Paola e Carlo Pellizzi negli anni ’20

    quello cui appartiene, fra altri, Camillo Pellizzi, sociologo di rilievo nel secondo dopoguerra,

  • quello dovuto al matrimonio di Paola e Carlo, che diventeranno i nonni di Pietro.

Essi hanno due figli. Giangiotto e Francesca. Giangiotto insegna all’Università Cattolica ed era per me un caro collega.

Francesca sposa Luciano Ichino, proveniente da una famiglia più modesta. Essi sono i genitori di Pietro, che sposerà Costanza.

Nella vita di Pietro contano molto i nonni, lo zio Giangiotto, i genitori, Costanza, le sue due sorelle e il fratello. Poi arriveranno le figlie Giulia ed Anna. Il tutto all’interno della  loro “grande famiglia”.

Quali sono le caratteristiche principali di questo gruppo familiare?

Mi sembra che siano brevemente queste.

Quella di Pietro non è una famiglia borghese di produttori industriali, di grossi commercianti, di possessori di robusti patrimoni. La grande parte dei Pellizzi- Ichino sono professori universitari e/o avvocati, qualche medico, altre professionisti.

Il reddito ed i beni immobiliari non sono al centro dei loro interessi e delle loro preferenze. Sono lavoratori tenaci con guadagni sufficienti, benestanti o agiati (come risponde Francesca ad una domanda di Piero in argomento), parsimoniosi e piuttosto frugali (salvo per casi eccezionali).

Sono tutti credenti, cattolici praticanti, si interessano delle vicende della Chiesa e lo si vede quando pongono critiche al Magistero.

Con modalità differenti, esprimono una forte e concreta sensibilità sociale verso chi soffre o ha bisogno di aiuto, quasi mai con discorsi ed azioni squisitamente politici.

Grande rispetto per la libertà e l’autonomia ma seguendo regole e precetti fondati o consuetudinari: le cose che facciamo vanno fatte bene, al momento giusto, senza sprechi e distrazioni.

Si cresce nella vita, di età e di maturità, studiando (da giovani e da adulti), con una cultura ampia ed aggiornata, senza pregiudizi ideologici.

E i loro difetti? Non sembrano consistenti, mescolati con i grandi affetti, spesso si tratta di “pallini” o di aspetti caratteriali. Se è così, questi Pellizzi- Ichino sono proprio bravi.

La locandina di una recita in pineta degli anni ’50

3. L’autore non pone divisioni all’interno della sua narrazione. Il lettore però constata che, a suo modo, egli segna una prima parte (quella sopra descritta) che riguarda il    contesto familiare, ed una seconda parte che parla di Pietro adulto, delle sue intense attività, della sua solida carriera. In questa seconda parte, troviamo alcuni Intermezzi con i quali Pietro riprende il mondo e il sapore del contesto familiare.

Il più originale di tali Intermezzi è intitolato “L’arte di fare una festa”.  Sul punto la famiglia borghese sembra riproporre una classica istituzione della lunga tradizione aristocratica. La differenza essenziale si può riscontrare nel fatto che, nella tradizione detta, l’impianto organizzativo ed estetico era sostenuto dai collaboratori e dalla servitù. Nel caso degli Ichino le cose venivano impostate e seguite da loro stessi, con l’aiuto di una o due cameriere.

La festa era un elemento della vita e della cultura del clan, costituiva l’eccezione nel superamento della normale sobrietà e nel rispetto rigoroso dell’arredamento o delle stoviglie, metteva in luce una raffinata qualità nel ricevere e nell’intrattenere gli ospiti, coinvolgendo tutti i presenti (specie nei giochi).

La prima parte non va sottovalutata perché, come in altri casi, ci fa conoscere l’ambiente, i valori, i criteri di vita, nei quali Pietro si prepara a giocare in prima persona. Anche la scrittura è molto accurata.

La seconda parte resta ovviamente il baricentro della narrazione ed assume il tono di una buona autobiografia; con aspetti personali, collettivi, politici. Grande rilevanza è riservata alla esperienza di Pietro nei luoghi e sui temi della azione sindacale.

Questa parte mi è servita per arricchire notizie ed aspetti dell’autore, specie nel periodo della sua affermazione come studioso e come vivace attore nel dibattito. Infatti chi scrive lo ha conosciuto ed ha cominciato a confrontarsi con lui per Il lavoro e il mercato del 1996 e per A che cosa serve il sindacato? del 2005.

4. Ricordiamo brevemente i principali passaggi di Pietro, come sono da lui esposti.

La scuola di Barbiana

Cominciamo con l’incontro fra Pietro e Don Lorenzo Milani. Al ragazzo tredicenne, Milani dice: per tutto questo benessere “non sei ancora in colpa, ma dal giorno in cui sarai maggiorenne, se non restituisci tutto, incomincia ad essere peccato”. Questo radicale monito entrerà nel cuore di Pietro, che, nei primi anni di studio e di opere, si chiederà alcune volte se aveva cominciata l’operazione della restituzione. A mio giudizio, Pietro ha restituito molto, certo con modalità e finalità non drastiche, meno perentorie.

Negli anni dell’autunno caldo, Pietro si dedica al lavoro politico nel Psiup, al quale era iscritto e con i compagni psiuppini è impegnato in seno alla CGIL. Fa il sindacalista nella zona di Cusano Milanino, in mezzo agli operai: pochi con antagonismi di classe, molti che chiedono soltanto di essere aiutati a star meglio, come facevano gli operai iscritti alla CISL.

Sui problemi di linea, Pietro incontra i primi contrasti. Egli invitava i Consigli di fabbrica a conoscere le loro imprese per capire quali fossero i margini rivendicativi. Ma gli veniva rimproverato il rischio di inserire l’azione del sindacato nel quadro delle compatibilità del sistema capitalistico. Che è ciò che Pietro voleva.

Nel ’73, Pietro passa alle dipendenze della struttura confederale della CGIL milanese e comincia ad occuparsi del coordinamento dei servizi legali e degli uffici vertenze dei sindacati di categoria. Nel frattempo accade per lui questa rilevante novità: lo Psiup confluisce nel PCI. Così egli si ritrova con la tessera comunista in tasca.

Pietro vive con forte intensità le conseguenze della strage di Piazza Fontana (1969); la morte di Pinelli e di Calabresi; la campagna di CGIL, CISL e UIL per l’isolamento dei terroristi nei luoghi di lavoro e nelle stesse strutture sindacali. Nel contempo, egli continua a parlare ed a scrivere di argomenti squisitamente normativi. Ad esempio, contrasta nettamente l’assenteismo abusivo, mentre qualcuno nel sindacato lo riteneva come una forma legittima di autodifesa contro lo sfruttamento.

Un giorno del ’79, poco prima di Pasqua, la Federazione del Partito Comunista lo candida improvvisamente nella lista per le elezioni politiche. Pietro è molto conosciuto anche a Roma e nel mondo universitario. Nel parlamento, dialoga con colleghi dei diversi raggruppamenti politici ma la sua area di appartenenza è quella del partito comunista. Qui incontra (come era prevedibile) persone con le quali Pietro si trova bene: Napolitano, Trentin, Chiaromonte. Ma la maggioranza dei colleghi e l’apparato non accettano le sue idee, lo sentono estraneo (in concreto, di destra), temono il suo intenso dinamismo innovativo. Trentin gli dice che bisogna avere pazienza: questa esortazione serviva solo per restare in attesa di tempi migliori. Ma Pietro non resterà in attesa, dato che, nelle elezione del 2003, risulta non casualmente il primo dei non eletti. Inoltre, era un tipo di pazienza lontana un miglio dalla sua sensibilità e dai suoi progetti.

Dopo questo passaggio si spalanca la possibilità di studiare di più e cioè la cosa che molto desiderava. Questa prospettiva viene temporaneamente turbata dal fenomeno del terrorismo, con il quale Pietro poteva essere preso di mira. Viene infatti protetto e seguito dalle Forze di polizia, non nasconde la sua preoccupazione e, per essere più chiari la sua paura. Perché i terroristi attaccano gli esperti della regolamentazione dei rapporti di lavoro?  Parliamo di Ezio Tarantelli, di Gino Giugni, di Massimo d’Antona, di Marco Biagi. Secondo Pietro, i terroristi pensavano che un incremento della flessibilità avrebbe compromesso il modello tradizionale (storicamente in declino) del posto fisso garantito a vita.

In effetti, Marco e Pietro volevano il superamento del dualismo fra lavoratori protetti e non protetti, la redistribuzione delle protezioni e della flessibilità indispensabile al sistema produttivo, la proliferazione delle imprese che hanno bisogno di lavoro e che producono elevando la produttività.

Sul piano normativo, Pietro sottolinea i non pochi risultati raggiunti: il superamento del monopolio pubblico del collocamento, il riconoscimento legislativo del part-time, l’apertura delle agenzie del lavoro temporaneo, il decentramento della contrattazione collettiva, ed altro. Nel 1986 vince il concorso a cattedra. Nello stesso anno, o poco dopo, noi due ci conosciamo nella facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano.

La famiglia Ichino al Forte nell’agosto 1989

5. Concludiamo con alcune brevi e semplici osservazioni sul nostro autore. Credo che colleghi ed amici, nonché altre categorie o soggetti che si occupano di temi lavoristici, concordino sul fatto che Pietro Ichino è uno studioso, un professore, un saggista di elevato livello. Eppure egli non è solo questo. C’è qualcosa di più che fa di lui un personaggio. Ciò non intacca tale livello, ma lo espande, lo rende più noto, lo sottopone al confronto con le idee e le preoccupazioni degli altri. Così accresce il consenso intorno al suo operare ma, nel contempo, può suscitare resistenze e critiche.

Pietro è cresciuto in un ambiente dell’alta borghesia milanese e manifesta certe sue positive caratteristiche: è molto educato, gentile, vuole mantenere il timbro del dibattito anche quando la distanza del suo interlocutore è spiccata. I borghesi vestono con gusto: non come quella sua collega parlamentare che indossava “un tailleur scuro, troppo elegante, per una riunione di lavoro mattutina” (pag. 268).

Pietro, come dicevamo, è gentile, suadente ed attento; cerca il dialogo ed il confronto ma, spesso fa tutto ciò con una forte determinazione, utilizzando bene i dati che confermano la sua tesi; soprattutto non concede molto spazio alle tesi che lui non condivide e che combatte.

Ma la sua impostazione tende al conseguimento dell’accordo fra le parti delle relazioni industriali; il conflitto regolato può manifestarsi ma non è inevitabile nel circuito delle relazioni dette; la logica dell’accordo, della convergenza, del compromesso riduce positivamente il conflitto industriale, specie quello con finalità non attinenti al rapporto di lavoro.

Pietro non fa grandi discorsi sul presente e sul futuro del sistema, principalmente composto dalla democrazia politica, dal pluralismo delle rappresentanze, dall’economia capitalistica. Questa economia forte o fragile nell’ambito degli stessi “paesi ricchi”, non ha alternative e perciò va difesa, bisogna che funzioni a pieno ritmo, deve essere competitiva ed innovativa. Può essere corretta ma senza compromettere il motore della crescita, dell’efficienza e della produttività. Per conseguire questo obiettivo è necessaria la collaborazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, senza rivendicazioni non realistiche, senza indifferenza rispetto all’andamento delle imprese.

Pietro ritiene da tempo che quella appena indicata sia la strategia che offre la possibilità di migliorare occupazione e tutela del lavoro; nonché di sperimentare la strada della partecipazione dei lavoratori e dei sindacati alla vita delle imprese.

Cambiando tono, si può tranquillamente dire che Pietro è un personaggio piuttosto atipico nel suo percorso politico. Nasce e vive come un attore della sinistra, un attore del riformismo con impronta moderata (i suoi critici dicono anche troppo). Fin dall’inizio non ha tentazioni antagonistiche nel senso che forti rivendicazioni sindacali possono produrre più velocità al sistema e, tanto meno, nella diffusa speranza di avviarsi verso il superamento del sistema, come si sosteneva a lungo negli ambienti del PCI e della CGIL. Tuttavia comincia l’impegno sindacale in questi ambienti, apprezza l’unità sindacale fra la CGIL e le altre confederazioni, a causa di una fusione fra due forze politiche si ritrova temporaneamente con la tessera del PCI in tasca, entra per una legislatura nel palazzo del Parlamento su mandato del partito.

Pietro compie questa attraversata ma non si lascia “corrompere”. Anzi non poche caratteristiche di quel mondo lo spingono a rafforzare il suo orientamento negoziale-partecipativo per una migliore valorizzazione del lavoro. E ciò che faceva e fa con la sua riconosciuta determinazione.

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