IL DIALOGO CON SALVATI SULLA MOZIONE FRANCESCHINI E L’INTERVENTO DI LANFRANCO TURCI

COME MICHELE SALVATI, ANCH’IO IN QUESTO CONGRESSO DOVREI COLLOCARMI – PER COSI’ DIRE “NATURALMENTE” – DALLA PARTE DELL’ATTUALE SEGRETARIO DEL PD. MA MI TRATTENGONO DA QUESTA SCELTA DUE CONTRADDIZIONI IRRISOLTE TRA L’IDEA DI PARTITO CHE E’ ALL’ORIGINE DELLA SUA MOZIONE E IL MODO IN CUI EGLI AFFRONTA CONCRETAMENTE DUE QUESTIONI DI RILIEVO NIENTE AFFATTO SECONDARIO. NON MI SEMBRA, INVECE (ED E’ UN OTTIMO SEGNO) CHE IL CRITERIO DELLA LAICITA’ POSSA FAVORIRE L’UNO O L’ALTRO FRA I TRE CANDIDATI

Con il documento che segue (6 settembre 2009) Michele Salvati – a buon diritto considerato tra i padri del Partito Democratico – indica i motivi della propria scelta congressuale per la mozione Franceschini. Seguono alcune mie osservazioni critiche in proposito, una interessante replica dello stesso Salvati e una lettera di Lanfranco Turci, dal tono pessimistico, con la mia risposta.

IL DOCUMENTO DI MICHELE SALVATI

La scelta fra i tre candidati alla segreteria nazionale non è facile. Non è facile sulla base delle tre mozioni congressuali, in larga misura condivisibili e spesso sovrapponibili nella loro (inevitabile) genericità: data la natura di questi documenti, sottolineare frasi più o meno felici, affermazioni più o meno efficaci, reticenze o silenzi più o meno sapienti, è un modo di selezione poco affidabile. Un criterio migliore sarebbe quello di guardare alle storie dei dirigenti che si sono schierati per ognuno dei tre candidati: sono storie note, che raccontano di scelte (e non scelte) effettive e rivelano convinzioni e atteggiamenti più significativi di qualsiasi dichiarazione programmatica. Ma anche utilizzando questo criterio il giudizio continua a restare difficile. Come ricordiamo tutti, quasi l’intera nomenclatura dei due partiti costituenti si era schierata a suo tempo per Veltroni, anche quella parte che certamente non condivideva le idee da lui esposte al Lingotto, cosa che non poco ha contribuito alla confusione e alle incertezze successive. Ora la nomenclatura si è divisa più nettamente di allora tra i due principali candidati, ma le linee di divisione non sono affatto chiare.
          E’ una fortuna, ed è un successo del progetto PD, che la linea di divisione non sia più quella delle vecchie provenienze partitiche e neppure quella, ancor più insidiosa, tra credenti e non credenti (è priva di senso la contrapposizione tra laici e cattolici: un credente cattolico del nostro partito dovrebbe essere, ed è di solito, altrettanto laico di un non credente quando si tratta di distinguere tra la sfera della politica e delle istituzioni e quella delle convinzioni morali e religiose). Qual è allora la linea di demarcazione, quella che spiega perché Bindi e Letta stanno con Bersani, mentre Rutelli e Fassino stanno con Franceschini? E’ forse quella tra un atteggiamento di riformismo più liberale ed uno più socialdemocratico? In parte forse si, ma non quadra del tutto né con i nomi che abbiamo appena fatto, né con i testi delle mozioni. Calcoli di carriera, situazioni locali, legami contingenti, ragioni di opportunità le più varie confondono le acque, e poi una parte non piccola delle personalità più significative non si sono ancora schierate. E allora? Una qualche ragione deve pur esserci che spieghi schieramenti così insoliti, nonché le perplessità di tanti. A mio modo di vedere una ragione c’è, anche se certamente non è l’unica ed è offuscata da dichiarazioni tattiche dei candidati e dei loro principali sostenitori. Scusandomi con Marino – non è segno di scarsa considerazione – per ragioni di chiarezza mi limito ai due candidati che hanno maggiori probabilità di successo. E avverto che la nostra è una interpretazione, che probabilmente né Bersani, né Franceschini accetterebbero per intero.
          “Diamo un senso a questa storia”, la storia del PD -afferma Bersani- dimenticando forse che Vasco Rossi aveva aggiunto: “perché un senso questa storia non ce l’ha”. Questa è una battuta, naturalmente, ma dei due candidati a me sembra che effettivamente Bersani sia quello che muove le critiche più radicali alle scelte operate nel recente passato. Non soltanto alla brevissima vicenda del PD – neppure due anni – ma all’intera storia che dall’Ulivo ha condotto al PD, e alle convinzioni sulle quali questo partito è stato costruito. Un partito di iscritti e di elettori. Aperto a primarie per la scelta dei candidati a cariche istituzionali, ma anche al coinvolgimento degli elettori nella scelta finale dei suoi dirigenti. Un partito che raccoglie, fonde e soprattutto adegua e rinnova tutte le grandi tradizioni riformistiche. E un partito grande, che si vuole misurare con un suo candidato Premier in un confronto bipolare. Vocazione maggioritaria non significa “correre da solo”, ma esprime una ambizione egemonica all’interno della coalizione, se questa è necessaria per vincere. Critiche alla segreteria Veltroni possono e debbono essere fatte. Ma la mozione originale di Bersani, la storia e molte dichiarazioni di suoi autorevoli sostenitori, significativi consensi da parte dell’UDC, hanno fatto sorgere in me la preoccupazione che le critiche non riguardino solo le discutibili scelte tattiche del recente passato, ma la stessa linea strategica, lo stesso impianto culturale sul quale il PD è stato costruito e che ho appena riassunto in modo sommario.
          La mia preoccupazione è che il PD guidato da Bersani – per ora costretto in un contesto bipolare dalla legge elettorale voluta dal PDL – si rassegnerebbe più facilmente del PD di Franceschini a un mutamento di quel contesto, ed anzi lo favorirebbe se si presentasse l’occasione. In questo caso “il senso della storia” sarebbe un ritorno al proporzionale, dove un PD più nettamente “laico” e “di sinistra” lascia il compito di conquistare gli elettori più moderati a un rinnovato e irrobustito partito centrista, neo-democristiano, sperando che poi questo si allei con lui. Per carità, congettura più che legittima. E anche attraente e famigliare per quelli di noi che provengono da tradizioni riformistiche non cattoliche e che provano simpatia vera per la sinistra e i valori che rappresenta. Ci ritroveremmo “fra noi”, e probabilmente ci ricongiungeremmo a compagni che ci hanno lasciato per partiti più radicali, ma che ora dovrebbero aver appreso la lezione e tornare all’ovile. Insomma: basta con la fatica di mediare con le iniziative o le resistenze clericali che talora emergono nel riformismo cattolico! Basta con le auto-limitazioni che ci dobbiamo imporre per non spaventare, se non per attirare, elettori moderati. Similes cum similibus: agli elettori di centro ci pensi un partito di centro. Contenti noi, ancor più contenti Casini e Tabacci.
          Ho un po’ colorito le mie preoccupazioni per renderle più evidenti. Per ora resto convinto che un PD guidato da Franceschini corra meno il rischio di un rovesciamento di strategia di un PD guidato da Bersani. E non auspico questo rovesciamento, perché sono anche convinto che – nonostante le difficoltà, gli errori e le sconfitte di questa prima fase – l’intuizione originaria del PD sia ancora feconda, più feconda della comprensibile nostalgia per il calduccio familiare dei vecchi partiti. E’ una intuizione ambiziosa e difficile, che sconta una profonda trasformazione della nostra società e la perdita di senso di molte categorie sulle quali si basavano le distinzioni tra la destra e la sinistra di un tempo, e tra i partiti che le impersonavano. La sinistra riformista, il centrosinistra, è in crisi in tutta Europa. In Italia ci aspetta un compito immenso, in cui tutte le energie culturali e morali di coloro che soffrono per le condizioni in cui Berlusconi ha ridotto il nostro paese devono essere riunite in un unico sforzo, in un unico grande partito. Berlusconi non è eterno, e il bipolarismo dopo Berlusconi sarà una cosa profondamente diversa da quello che è stato sinora. Perché gettare la spugna proprio adesso?

6 settembre 2009                                                                       Michele Salvati 

LE DUE RAGIONI DEI MIEI DUBBI 

Anch’io, come Michele Salvati, “sono convinto che – nonostante le difficoltà, gli errori e le sconfitte di questa prima fase – l’intuizione originaria del PD sia ancora feconda, più feconda della comprensibile nostalgia per il calduccio familiare dei vecchi partiti”. Dove per “intuizione originaria” intendo la “vocazione maggioritaria” che indusse Veltroni nell’inverno 2008 a realizzare da solo, senza leggi e senza accordi con la controparte, la più grande riforma politica effettiva che il nostro Paese abbia vissuto da mezzo secolo a questa parte (se un errore Veltroni commise nel compiere quel passo – con il senno del poi possiamo dirlo – fu nel non compierlo per intero: fece un’eccezione per il partito di Di Pietro, sulla base di un patto che quel partito tradì clamorosamente il giorno dopo le elezioni). “Partito a vocazione maggioritaria” significa essenzialmente questo: un partito che cerca voti più e prima che cercare alleanze, confidando di poterli conquistare dovunque, e non soltanto nella propria ristretta “area” di tradizionale appartenenza.
          Della bontà di quella intuizione originaria – che ha consentito al PD di conquistare più di un terzo dei voti alle politiche dell’aprile 2008 – sono profondamente convinto; e questo è il motivo per cui anche la mia collocazione naturale, in questo congresso, dovrebbe essere con Franceschini. E’ infatti Franceschini a sostenere, in linea generale, la continuità rispetto a quella scelta, cui consegue l’opzione netta  contro il ritorno al sistema proporzionale, a favore invece di un ordinamento elettorale fondato sul collegio uninominale in funzione di un sistema politico fondato sull’alternanza.
          Senonché, questa scelta presuppone la capacità del PD di proporsi come (e di essere per davvero) la casa comune di tutte le forze del centrosinistra: da Bruno Tabacci a Emma Bonino, da Savino Pezzotta ai socialisti come Lanfranco Turci e tanti altri. Questo implicherebbe che Franceschini enunciasse esplicitamente quanto meno l’obiettivo di portare Tabacci, Bonino, Pezzotta, Turci e tanti altri dentro al PD. E’ ovvio che alcuni di questi nell’immediato non accetterebbero l’invito; ma altri invece sì; e comunque questo deve essere l’obiettivo. Non può, invece, ostentare una “vocazione maggioritaria” genuina, nel senso politico dell’espressione che ho sopra precisato, un partito di centrosinistra nel quale, per sua scelta, non ci sia posto, insieme a popolari e cristiano-sociali, anche per socialisti, liberal-democratici, e radicali (che sono fondamentalmente dei liberal-democratici). Invece, nel suo discorso iniziale di presentazione della mozione, Franceschini deliberatamente omette l’appello a socialisti e radicali a entrare nel PD; e successivamente, alla domanda di un giornalista in proposito, risponde che con loro occorre “negoziare alleanze programmatiche”. Come dire: “nella stessa casa non possiamo stare, possiamo tuttavia fare un buon pezzo di strada insieme”. Se “nella stessa casa non possiamo stare”, dove va a finire l’intuizione originaria del “partito a vocazione maggioritaria”, di cui parlavamo prima? Non è forse questo un andar in giro a cercare alleanze, invece di confidare nella propria capacità di conquistare direttamente voti?

          La verità è che per realizzare una sintesi politica convincente e avanzata tra popolari, cristiano-sociali, liberali, socialisti e radicali occorre una leadership forte, capace di superare attriti e difficoltà di linguaggio tra questi gruppi politici. Se Franceschini non compie questo passo, evidentemente non si sente in grado di realizzare quel superamento. Probabilmente vede giusto, sa quel che fa, conosce le risorse di cui dispoone; ma a questo punto io vedo in tutto ciò un difetto di leadership adeguata al progetto di cui egli stesso dice di volersi far portatore; e ne traggo motivo per temere che il partito da lui guidato finisca col differire da quel progetto proprio per l’aspetto che secondo Michele Salvati dovrebbe invece essere considerato decisivo.
          Nell’intuizione originaria di Veltroni (rispetto alla quale, peraltro, anche la leadership dello stesso  Veltroni in qualche misura ha fatto difetto) c’era pure l’apertura a discorsi profondamente nuovi sul terreno della politica del lavoro: quelli che un anno e mezzo fa, nella campagna elettorale per le elezioni politiche, trovarono espressione nel manifesto “Per dare valore al lavoro”. Al centro di quel manifesto figurava l’obiettivo della flexsecurity e, sul terreno del lavoro pubblico, la rivoluzione fondata sui principi della trasparenza totale, della valutazione indipendente e del benchmarking. Di questi due grandi temi di politica del lavoro, che considero cruciali per il futuro del nostro Paese, nella mozione di Franceschini e nei suoi discorsi successivi ho trovato poco o nulla. E la cosa è tanto più sorprendente quanto più esplicite sono invece le aperture su questi temi da parte dei sostenitori delle altre due mozioni.
          Scrivo questo per spiegare ai miei lettori ed elettori:
   – perché non ho aderito alla mozione Bersani, la quale sembra voler affidare al PD il compito essenziale di presidiare l’area politica in precedenza occupata da DS e DL; quindi cerca fin d’ora gli alleati con i quali raggiungere la maggioranza, e per trovarli deve promettere loro la disponibilità al ritorno al sistema elettorale proporzionale;
   – perché mi sono astenuto anche dal compiere la scelta di campo congressuale in favore di Franceschini, che pure molti da me si attendevano;
   – perché, viceversa, ho dichiarato il mio sostegno alla candidatura di Maurizio Martina alla segreteria regionale lombarda, nonostante la sua adesione alla mozione Bersani: nella politica di Martina verso socialisti e radicali, così come nelle sue prese di posizione sulla politica del lavoro vedo (e non soltanto da oggi) più coerenza con l’intuizione del partito a vocazione maggioritaria, di quanta non ne veda nella condotta concreta di Franceschini, almeno in queste prime settimane congressuali.
          D’altra parte, non è male che al congresso partecipino anche dei militanti incerti, come lo sono io oggi, sul voto finale: questo rende i giochi più realmente aperti; e più interessante e sostanzioso il dibattito. Per quel che mi riguarda – in una situazione nella quale mi pare che, per quanto ho detto sopra, le posizioni di Franceschini e Bersani tendano molto ad assomigliarsi – saranno decisivi i comportamenti concreti che i due candidati terranno nelle prossime settimane, soprattutto sui due terreni  che ho qui indicato: apertura a socialisti e radicali e politica del lavoro. Non escludo nemmeno una possibile opzione per Ignazio Marino. E’ una persona che stimo moltissimo, alla quale però – forse sbagliando – riconosco competenze e capacità diverse da quelle di cui deve essere dotato il leader di un grande partito a vocazione maggioritaria; Marino è un politico di complemento, come me; il voto congressuale per lui può forse risultare alla fine la scelta meglio corrispondente alle mie posizioni, ma sarebbe comunque un second best dal punto di vista politico.                           (p.i.)

 

LA REPLICA DI MICHELE SALVATI

Caro Pietro,
grazie per l’attenzione che hai dedicato al mio endorsement per Franceschini: se tu sei ora un “politico di complemento”, io lo sono stato in passato ormai abbastanza lontano e ora sono un semplice appassionato di politica. Le cose che scrivi mi hanno colpito, soprattutto quella relativa a radicali e socialisti. È vero che talora non è facile trattare con loro – spesso hanno però buone ragioni per essere difficili – ma che senso ha un partito che aspira a riunificare, per poi superare (aufheben, ti ricordi?), le grandi culture riformistiche senza che siano inclusi radical-liberali e i socialisti?
          Su questo le diffidenze e le esitazioni all’interno dell’attuale PD sono colpevolmente forti, e non credo siano minori tra i sostenitori di Bersani che tra quelli di Franceschini. Il che ci riporta al problema da cui sono partito nel mio endorsement: scegliere tra le mozioni congressuali è difficile perché la nomenclatura ex-Ds e ex-Dl non si è divisa secondo linee programmatiche chiare. Per venire ai punti che sottolinei – il rapporto con socialisti e radicali e le politiche del lavoro – ci sono innovatori e conservatori tra i sostenitori di entrambi i candidati più forti. In che proporzioni non so: so soltanto che nessuno dei due prende posizioni nette per non inimicarsi coloro che la pensano diversamente e possono essere determinanti per la vittoria. Marino può concedersi il lusso di fare proposte secche e chiare, ma se lo può concedere perché, come tu dici, è un politico di complemento come tu sei e io sono stato. Insomma, perché tutti sanno che non può vincere e forse neppure lui lo spera. Per ora il nostro non è un partito in cui possano emergere leader che, al tempo stesso, abbiano la storia e le doti per dirigere credibilmente una grande organizzazione e siano radicali e innovatori. Un altro paio di batoste e poi, forse, ci arriveremo.
          L’unica differenza seria cui sono arrivato studiando le mozioni e la storia dei due candidati principali e dei loro sostenitori è quella che sta alla base della mia dichiarazione di sostegno per Franceschini. Mi piacerebbe essere più entusiasta, e in particolare poterti dire che Franceschini è più aperto a socialisti/radicali e a una legislazione innovativa in materia di lavoro di quanto tu lo rappresenti, comunque molto più favorevole di Bersani. Questo non mi sento di dirtelo. Ma quella che ho chiamato differenza seria per me è più che sufficiente per scegliere.
Michele Salvati
10 settembre 2009

 

LA LETTERA DI LANFRANCO TURCI  

Caro Pietro,
ho letto con interesse lo scambio di idee fra te e Michele Salvati sul congresso del PD. La cosa che più mi ha colpito – e in ciò trovano ragione le mie scarse aspettative su quel congresso e quello che a me sembra uno stato di scetticismo e di demoralizzazione diffuso fra i militanti – è la mancanza di chiarezza del dibattito e il fatto che pure un superesperto del Pd, come il nostro amico Michele, sia costretto a trovare il principale punto di differenza fra i due candidati più papabili nel non detto. Cioè nel dubbio che Bersani punti a un nuovo assetto politico che superi il bipolarismo con una futura alleanza fra il PD e il Centro di Casini.
          Premetto che non sono per il proporzionalismo puro, ma non capisco la pretesa di ingabbiare i soggetti politici più diversi,a forza di sbarramenti e premi di maggioranza, in contenitori onnicomprensivi,confusi e paralizzati. Aggiungo che non  mi pare che l’esperienza tedesca sia stata finora dominata da partiti centristi opportunisti,nonostante quella legge elettorale che non piace agli ingegneri elettorali del PD. Ma a prescindere da ciò non mi pare un segno di buona salute il fatto che si debba cercare in ciò che non è esplicitamente affermato la ragione del contendere fra Bersani e Franceschini. Dalla considerazione sui partiti onnicomprensivi  derivo anche un certo scetticismo sulla tua proposta di aprire le porte del PD a socialisti,radicali e a centristi come Tabacci e Pezzotta. Mentre sui primi vedrei la cosa come naturale (a parte il modus operandi dei radicali) se collocata su una più netta opzione laica e socialista del PD, ai secondi credo convenga guardare come possibili alleati su punti programmatici chiari, condivisi e limitati. C’è infatti qualche problema di laicità di mezzo!
         
Mi lascia interdetto infatti l’affermazione di Salvati: “è priva di senso la contrapposizione tra laici e cattolici: un credente cattolico del nostro partito dovrebbe essere, ed è di solito, altrettanto laico di un non credente quando si tratta di distinguere tra la sfera della politica e delle istituzioni e quella delle convinzioni morali e religiose”. Magari fosse così. Ciò vale per molti cattolici, ma non per tutti. Come possiamo rimuovere il fatto che il PD non riesce a sciogliere nodi come il testamento biologico?Che dire dell’eredità di Fioroni sugli insegnanti di religione al tavolo degli scrutini? Non a caso le mozioni dei due candidati più forti sul tema della laicità restano ambigue.
          Per fortuna che c’è un cattolico laico e coraggioso come Marino a dirci che il re è nudo! Per dire verità ovvie occorrono ormai politici di complemento perché gli altri sono imprigionati in un gioco di specchi.

          Caro Pietro io però credo che il malessere del PD abbia ragioni più profonde.Che esse risiedano in quella mancanza di identità su cui ci invita a riflettere un acuto libricino pubblicato recentemente da Salvatore Biasco (Per una sinistra pensante). Credo che egli sopravvaluti la presa della cultura liberale sul PD, ma abbia ragione quando segnala il caos imperante e invoca una correzione in direzione socialdemocratica. Più in generale sulla necessità di una cultura per un partito trovo efficace la sintesi di Gianni Cuperlo quando scrive:”Per fare un partito serve una cultura politica. Un ventaglio di ragioni destinato a fondersi in una appartenenza. Serve una lingua,una lettura del tempo. Togliete una di queste tessere o più di una e avrete un prodotto diverso”. Ecco, questo non c’è nel PD di oggi e il mantra dell’unione di tutti i riformismi lascia il tempo che trova, cioè un confronto ambiguo e a tratti incomprensibile per la paura di rompere quell’amalgama mal riuscito di cui parlò a suo tempo D’Alema. Sollecitare oggi il radicamento dell’identità dei PD in direzione della famiglia socialista europea può sembrare paradossale nel momento in cui essa è alle prese con forti difficoltà elettorali e con la crisi economica e finanziaria mondiale che, se è vero che mette in crisi i paradigmi del neoliberismo imperante, sollecita anche nuove risposte che ancora non ci sono. Eppure quello è ancora il campo dentro cui bisogna lavorare. Quella koinè di culture, DI linguaggi e di storie è imprescindibile se si vuole uscire dal cul de sac paralizzante in cui si è cacciato il PD a causa del sentimento di superiorità berlingueriana proprio dei DS e dell’idiosincrasia dei cattolici popolari verso la socialdemocrazia.
Lanfranco Turci
16 settembre 2009

 

Caro Lanfranco, comprendo il tuo pessimismo, anche se non lo condivido: in questo anno e mezzo in cui ho girato intensamente tutta l’Italia, incontrando la base del PD in tutte le salse, ho trovato quasi dappertutto quella profonda e matura laicità di iscritti e militanti, cattolici e no, che giustamente ti sta a cuore. Per questo credo che i tempi siano più che maturi per una proficua cooperazione nel PD tra popolari, cristiano sociali, socialisti, radicali e tutti gli altri liberal-democratici. Non vedo, comunque, oggi in Italia una base più solida e ricca di risorse ideali di quanto non offra il PD (per quanto indebolito dal difetto di leadership sofferto in quest’ultimo anno), da cui partire per ricostruire un centrosinistra pronto a vincere alle prossime elezioni.
Grazie della tua lettera. E lavoriamo entrambi perché in un prossimo futuro possiamo militare insieme in un grande partito moderno, capace di cogliere i segni dei tempi.           (p.i.)

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