PER FAR DECOLLARE IL COLLOCAMENTO SERVONO GLI SPECIALISTI

“Il confronto con la Germania non sta in piedi. Da noi si spendono ancora troppi soldi per la Cassa integrazione, che è la misura sbagliata se si vuole sostenere i lavoratori nella transizione dal vecchio lavoro al nuovo”

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Testo integrale dellì’intervista ad Alessandra Sartori, docente di diritto del mercato del lavoro nell’Università degli Studi di Milano, a cura di Michela Giachetta, pubblicata sul quotidiano
Libero il 25 maggio 2019 con qualche taglio per ragioni di spazio – In argomento v. anche Lavoro: i risultati di questa legislatura e le priorità per la prossima    .
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Scarica la pagina di Libero con l’intervista

 

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Alessandra Sartori

Professoressa Sartori, lei si è occupata dell’organizzazione del mercato del lavoro di diversi Paesi (Gran Bretagna, Germania e Svezia), cosa caratterizza il caso Italia? Ci sono analogie con gli altri Paesi?
Fino al d.lgs. n. 150/2015 (Jobs act) la situazione italiana si caratterizzava per essere eccentrica sul piano comparato. Non esisteva una regia nazionale e avevamo venti sistemi regionali per l’impiego; inoltre in ogni regione le province creavano dei sub-modelli (gli studiosi hanno efficacemente definito il sistema come “acefalo” o “policefalo”). In genere la capacità di intermediazione del sistema era bassa (5% se si includono anche le agenzie private di placement), non solo per ragioni organizzative, ma anche per la scarsità di risorse umane e materiali dedicate. Negli altri Paesi europei, anche nelle esperienze più decentrate (Danimarca), esistevano Agenzie nazionali (con diverso grado di autonomia rispetto all’esecutivo), col compito di gestire i servizi per l’impiego, le politiche attive e, talora, anche l’indennità di disoccupazione e eventualmente altri benefits (in quest’ultimo caso è diffusa l’espressione anglosassone di one-stop shop: esempi sono il Regno Unito, la Francia, I Paesi Bassi, la Germania).
Con il d.lgs. n. 150/2015 questa anomalia viene in parte superata, in quanto compare un’istanza di coordinamento centrale, l’Agenzia per le politiche attive del lavoro (ANPAL). Nel corso dell’iter di approvazione del decreto si è discusso se allinearsi ai modelli europei di one-stop shop, attribuendo all’ANPAL anche un ruolo di gestione della Naspi, ma poi si è deciso di lasciare questa funzione in capo all’INPS; così ANPAL si configura come un’agenzia leggera, con compiti di coordinamento (dei SPI, anche per i disabili, delle politiche attive e delle politiche passive). Gli SPI sono affidati alla gestione delle regioni, che stipulano a tal fine convenzioni con il Ministero, eventualmente delegando alcuni compiti ai soggetti privati; all’Anpal spetta un potere di sostituzione in caso di riscontrate inefficienze.

La riforma del Jobs Act non ha funzionato, secondo Lei perché?
La riforma dei SPI non ha dato risultati soddisfacenti rispetto alle aspettative per almeno due ragioni.
Anzitutto, si è sovrapposta alla riforma delle province, gli organismi locali cui era affidato il compito di gestire i centri per l’impiego, caratterizzata da continui stop and go (compresa la mancata revisione costituzionale); e ciò ha ovviamente inciso sulla funzionalità dei CPI, abbandonati in una sorta di limbo, privi di un vertice e di risorse. Tale situazione è venuta meno soltanto con la legge di stabilità 2018 (l. n. 205/2017), che ha trasferito formalmente alle regioni il personale, stanziando le relative risorse e attuando finalmente il disegno del decreto n. 150.
In secondo luogo, non vi sono stati fino all’ultima legge di stabilità stanziamenti sufficienti per sostenere l’attività dei CPI, che si caratterizzano per dotazioni economiche inadeguate e risorse umane carenti, spesso di età avanzata, non adeguatamente qualificate, talora assunte con contratti precari (il che è ovviamente paradossale, se si pensa che potenziali disoccupati dovrebbero assistere coloro che già lo sono …).

Parliamo dei Centri per l’impiego, spesso si confrontano i numeri del personale impiegato in Italia con quello della Germania, di che cifre parliamo? La diversità è soltanto una questione di numeri?
In Italia il personale dei CPI è notoriamente poco nutrito: sugli 8700 operatori suddivisi in 536 CPI, oltre sportelli e sedi distaccate (i dati provengono dal Monitoraggio Isfol 2015). Tuttavia, il confronto con la Germania, che ha oltre 10 volte il personale impiegato dai SPI italiani, è poco pertinente: in Germania i CPI hanno anche il compito di amministrare l’indennità di disoccupazione, e quindi è naturale che lo staff sia notevolmente più numeroso. Lo stesso vale per la Francia e il Regno Unito, entrambi contraddistinti dallo one-stop shop. Un paragone più calzante potrebbe essere la Svezia, che non ha implementato tale modello di erogazione integrata delle politiche attive e passive (infatti l’indennità di disoccupazione è erogata da Casse collegate con le organizzazioni sindacali – c.d. Modello di Ghent). Anche in questo confronto, peraltro, l’Italia risulta perdente: lo staff dei SPI svedesi conta 10.000 unità (più 2000 fra specialisti, medici, psicologi, ecc.) per 9 milioni di abitanti, e 320 CPI dislocati sul territorio. Le cifre parlano da sole…
Tuttavia, come ho anticipato nella risposta precedente, non si tratta solo di numeri, ma anche di qualificazione degli operatori. Ad es., in Svezia e in Germania sono organizzati percorsi di studio specifici, mentre in Italia la selezione degli operatori prescinde da particolari requisiti di specializzazione. E persiste uno zoccolo duro di addetti non particolarmente qualificati, e di età avanzata.

Guardando alle esperienze estere, c’è un modo di rafforzare i nostri Centri per l’impiego?
Nell’ambito dei SPI è fondamentale l’efficacia e l’efficienza dell’attività svolta. Qui il tessuto normativo è importante, ma, ancora di più, l’impiego di risorse umane e materiali adeguate ai compiti da svolgere. I Paesi che hanno affrontato meglio la grande crisi iniziata nel 2008 hanno distribuito risorse ingenti ai CPI, incrementando il personale; per converso, nel nostro Paese le risorse dedicate alle politiche attive (se si eccettuano gli incentivi all’occupazione) sono diminuite, drenate verso gli ammortizzatori sociali.  Ora che i margini di bilancio sono maggiori, è fondamentale che non si ripeta lo stesso errore. Maggiori risorse permetterebbero tra l’altro una modernizzazione delle infrastrutture, rendendo i centri non solo più funzionali, ma anche più appetibili per il grande pubblico, e ovviamente consentirebbero il potenziamento e la riqualificazione dello staff. Tale rafforzamento determinerebbe, ça va san dire, una diminuzione del carico di utenti per operatore, realizzando il modello ideale del tutor individuale (radicato in Svezia per esempio),  o comunque consentendo un notevole avvicinamento ad esso; e sul lato dell’offerta consentirebbe di destinare figure ad hoc alle imprese, segmento di utenza che all’estero viene sempre più “coccolato”, nella duplice ottica di migliorare l’immagine e la reputazione del servizio pubblico e creare occasioni di occupazione per i disoccupati, specie con maggiori barriere.

Cosa ne pensa della proposta del contratto di Governo che prevede un investimento di 2 miliardi?
Sicuramente la proposta va nella direzione di quanto da me indicato e in realtà nel solco tracciato dalla legge di stabilità 2018, che ha appunto stanziato nuove risorse, sebbene attestate su numeri ben inferiori (220 milioni per trasferire alle regioni i dipendenti dei CPI a tempo indeterminato, 16 milioni per i lavoratori a tempo determinato e co.co.co.). Insomma, sarebbe certo auspicabile un incremento così ingente dei finanziamenti riservati ai SPI, ma temo che una cifra di tale entità sia difficilmente raggiungibile.

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