“La casa nella pineta è molto di più che il racconto di un’esperienza politica militante: è un viaggio alla ricerca delle radici e del significato di un’esperienza di vita, compiuto con grande onestà intellettuale ed evitando il più possibile emotività e soggettività autoreferenziale”
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Recensione a cura di Piero Meucci, pubblicata sul sito dell’Agenzia Stamp Toscana il 21 maggio 2018 — I link agli altri commenti a La casa nella pineta sono raccolti nella pagina web dedicata al libro .
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Firenze – Un pezzo di storia della generazione nata nei primi anni del dopoguerra è raccontato da Pietro Ichino nel suo ultimo libro “La casa nella pineta” (Giunti editore). Una generazione che si è nutrita degli ideali fioriti nei momenti della battaglia per la libertà e la democrazia attraverso i loro genitori e che si è onestamente impegnata a renderli concreti interpretandoli secondo le sfide del momento.
I suoi migliori esponenti hanno avuto la fortuna di essere stati a contatto con personaggi che hanno fatto della loro vita un forte atto di testimonianza per contribuire a creare una società più giusta e più uguale, fossero coloro che si riferivano al messaggio evangelico o quelli che si riconoscevano nella storia delle lotte del movimento operaio. Fossero don Lorenzo Milani e il suo messaggio di liberazione attraverso una scuola non classista, oppure quegli esponenti del partito comunista che cercavano di realizzare un modello più avanzato di democrazia sociale.
Sul punto di convergenza fra queste due visioni che nella sostanza avevano lo stesso fine, seppure partissero da premesse e convinzioni diverse, si svolge il racconto autobiografico di Ichino, testimone e operatore privilegiato, perché ha avuto l’opportunità di dare un contributo nella direzione di un’Italia più giusta e più attenta ai problemi dei ceti più svantaggiati. Il che significa anche la messa a punto di strumenti moderni ed efficienti, al di là delle categorie dogmatiche e degli interessi particolaristici e monopolistici che si nascondono dietro di essi.
Docente all’Università statale di Milano, avvocato, deputato nell’ottava legislatura e senatore dal 2008 al 2018, nella XVI e XVII, Pietro Ichino è uno dei massimi esponenti di quel gruppo di giuslavoristi che per più di trent’anni si sono battuti per adeguare norme e regole desuete e inefficienti di un mercato del lavoro in continua evoluzione e a rischio costante di diventare una macchina creatrice di privilegi e di emarginazione. E che hanno pagato con il sangue (Marco Biagi, Massimo D’Antona) o con una vita vissuta sotto la concreta minaccia di morte come l’autore del libro.
La “casa nella pineta” è tuttavia molto di più che il racconto di un’esperienza politica militante. E’ un viaggio alla ricerca delle radici e del significato di un’esperienza di vita, compiuto con grande onestà intellettuale ed evitando il più possibile emotività e soggettività autoreferenziale. Tutto è documentato e argomentato, anche le notazioni più familiari e personali.
Ichino vede il punto di svolta nella formazione che condizionerà le scelte dell’età matura nell’incontro con don Milani che la madre Francesca e lo zio Giangiotto avevano conosciuto giovanissimi a Milano. Dopo la pubblicazione di Esperienze Pastorali nel 1957, la famiglia aveva ripreso i contatti con il priore di Barbiana e aveva ospitato lui e i ragazzi della scuola in gita nel capoluogo lombardo. Siamo nel 1962 e don Lorenzo si rivolge a Pietro tredicenne indicando i libri e l’atmosfera di solidità materiale e affettiva che lo circonda: “Per tutto questo non sei ancora in colpa; ma dal giorno in cui sarai maggiorenne, se non restituisci tutto, incomincia a essere peccato”.
Un messaggio radicale che corrispondeva profondamente alla cifra educativa dei genitori che avevano fatto propri gli aspetti più profondi e coinvolgenti della professione di fede cristiana e delle radici ebraiche che provenivano da parte della madre.
A Pietro non mancavano certo i modelli eccellenti in una famiglia di protagonisti della cultura italiana. Nella letteratura (Camillo Pellizzi), nella scienza (Bruno Pontecorvo), nell’arte cinematografica (Gillo Pontecorvo), nell’economia (Piero Sraffa), nella psichiatria (Giovanbattista Pellizzi, Aldo Cassano).
Il luogo dove precipita questo patrimonio di idee, conoscenze, fede, ideali, esperienze segnate da scelte ed eventi drammatici è quella casa nella pineta del Forte dei Marmi acquistata dal bisnonno Giovanbattista.
In questo bosco versiliese rimasto pressoché intatto si svolge la rappresentazione di una storia familiare e di un’educazione sentimentale costruite su convinzioni e principi vissuti con sincerità e rigore, ma anche con umorismo e dolcezza: “Nella vita non sappiamo mai se quello che ci accade è per il nostro bene o per il nostro male. Dipende dal modo in cui lo vivi se quel che ti accade è per il tuo bene o per il tuo male”. L’insegnamento della nonna Paola è sottolineato diverse volte nel libro, quasi a fare da complemento e da completamento alla raccomandazione di Milani. Rendendola in qualche modo più sostenibile.
Il racconto di Ichino non soffre della densità dei ricordi e della precisione dei dettagli descrittivi grazie a uno stile piano e oggettivo che lo rende interessante anche dal punto di vista letterario. Segnalo in particolare le pagine sul rapporto con il padre Luciano, figura raccontata senza celare alcun aspetto della sua personalità, dei suoi sogni perduti, del suo ruolo di solido pilastro sul quale la moglie e i quattro figli (oltre a Pietro, Andrea, Maria Paola e Giovanna) costruivano relazioni, iniziative, impegno civile.
Bellissime e coinvolgenti le pagine sul ritorno di Pietro dalla sua esperienza di deputato comunista conclusasi per l’ostilità di settori del Pci nei confronti delle sue idee innovative sulle relazioni industriali. Il recupero del rapporto con il padre, l’inizio della collaborazione nel suo studio di avvocato e poi i mesi della malattia nei quali Pietro si propone di raccogliere il più possibile di ricordi ed esperienze del genitore, come i mesi terribili del campo di concentramento in Germania: “La domanda è sempre perché sono sopravvissuto – gli diceva – mentre i miei compagni morivano di fame e di tifo, oppure perché uno di quei supplizi non è stato inflitto me. I sensi di colpa mi tendono agguati”.
Il libro si conclude con la morte di Luciano che chiude il cerchio della storia familiare cominciata con l’acquisto della pineta di Forte dei Marmi. Nel mezzo l’autore racconta delle sue esperienze sindacali e politiche, dei libri scientifici e di quelli divulgativi che hanno contribuito a creare una nuova cultura del lavoro in Italia.
Ricorda le dure battaglie come quella che portò alla riforma del collocamento pubblico. Le sue idee sono stati “semi che hanno attecchito e portato frutti” secondo le parole che gli suggerisce Bruno Trentin in un dialogo che è fra le pagine più belle del libro. Nonostante sia stato oggetto di condanne ideologiche e indifferenze, le sue battaglie “sono state difficili e molto lunghe, durate anche quindici o vent’anni, ma le mie proposte hanno sempre finito con l’essere largamente condivise e in gran parte anche accolte sul piano legislativo”.
Battaglie che lo hanno messo nel mirino delle Brigate Rosse costringendolo a vivere sotto scorta, privato “di una parte rilevante della libertà”.
“La mia speranza – così si conclude la parte pubblica del libro – è che, anche in conseguenza di questi cambiamenti profondi compiuti per armonizzare il nostro ordinamento con quello degli altri Paesi europei per fare dell’Italia una società aperta e moderna, i nostri figli e nipoti godano di una possibilità effettiva di scelta in un mercato del lavoro ricco di opportunità e capace di offrire loro percorsi facili e sicuri tra un impiego e l’altro, in un’area grande quanto il continente intero. Che di tutto questo io non sia riuscito a convincere una parte dei miei interlocutori era ed è inevitabile; che il dissenso scateni l’odio personale, no”.
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