IL LAVORO NELL’ERA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Nel prossimo futuro il lavoro umano avrà bisogno innanzitutto di un sistema capillare di servizi capaci di offrire ai lavoratori un sostegno e un’assistenza efficace nella transizione dal vecchio al nuovo lavoro, ivi compresa la riqualificazione continua: la sicurezza e la parità di opportunità dovranno essere garantite sempre di più nel mercato e nei suoi percorsi, piuttosto che nel rapporto di lavoro

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Intervista a cura di Giacomo Govoni, pubblicato nell’inserto
Dossier de Il Giornale, giugno 2018 – In argomento v. anche , I diritti del lavoro nella gig economy, del 13 aprile, e Il diritto del lavoro nell’epoca di Internet e dei robot, del 19 settembre 2017
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Professor Ichino, è vero che l’evoluzione tecnologica e l’automazione industriale hanno l’effetto di disumanizzare il lavoro?
Direi proprio di no. Semmai lo rendono meno faticoso e più sicuro. Per esempio: i 600 robot che sono entrati in funzione alla FCA di Pomigliano d’Arco hanno sostituito gli operai nelle mansioni più pericolose e nocive per la salute: la verniciatura e la saldatura, consentendo di azzerare gli infortuni e le malattie professionali. In molti casi sono proprio le nuove tecnologie a consentire e potenziare il lavoro di persone disabili, che altrimenti sarebbero condannate all’esclusione dal tessuto produttivo.

Ma i bracciali progettati da Amazon per i magazzinieri non corrispondono a una organizzazione del lavoro più costrittiva?
Se l’organizzazione diventa più costrittiva oppure no, dipende da come si usa quel dispositivo. Di per sé esso può essere anche un modo per facilitare il lavoro, aiutando il magazziniere a individuare il pacco da prelevare e a non fare errori. Viceversa, era molto più costrittiva la catena di montaggio descritta da Charlie Chaplin rispetto a quella di oggi, in cui l’uomo interagisce con computer e robot.

Sul piano occupazionale, strumenti digitali, robotica e conseguente distruzione di posti di lavoro preoccupano soprattutto i giovani che in quel mondo devono entrarci. Quali sono per loro i reali aspetti penalizzanti di questo scenario e quali invece i risvolti favorevoli?
Senta, nel 1977 in Italia avevamo 19 milioni e mezzo di persone al lavoro; dopo quarant’anni di evoluzione tecnologica continua ne abbiamo più di 23 milioni. Almeno fin qui, il progresso tecnologico non sembra proprio aver prodotto effetti complessivamente negativi per l’occupazione. Certo, l’accelerazione del ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate impone una capacità di aggiornamento e formazione continua, che trent’anni fa non era richiesta. È indispensabile attrezzare il nostro mercato del lavoro con una rete di servizi capaci di sostenere e assistere efficacemente i lavoratori nella transizione dal vecchio al nuovo lavoro. E su questo terreno l’Italia è gravemente indietro.

Tra gli effetti più vistosi dell’avvento delle nuove tecnologie c’è la cosiddetta gig economy, che destruttura il vecchio rapporto di lavoro e vanifica i vecchi strumenti di protezione. Come deve ristrutturarsi il diritto del lavoro per far fronte a questa sfida?
Il lavoro organizzato mediante le piattaforme digitali sfugge totalmente alle categorie giuridiche tradizionali. Per esempio, in quest’area non ha molto senso applicare i criteri di distinzione fra lavoro subordinato e autonomo, in base ai quali fin qui si è definita l’area di applicazione del diritto del lavoro. Il sistema delle protezioni deve essere ripensato da cima a fondo; e la sua area di applicazione in futuro sarà probabilmente determinata in riferimento a una nozione di “dipendenza economica” del prestatore dal creditore, di contenuto molto diverso rispetto alla nozione di “subordinazione” che è stata centrale fin qui.

Come pensa che vadano riviste la formazione e la riqualificazione professionale?
È indispensabile costruire un sistema di rilevazione a tappeto del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi, per ciascun centro di formazione, istituto scolastico, facoltà universitaria. Lo si può realizzare istituendo una anagrafe degli utenti dei corsi, i cui dati poi vengono incrociati con quelli delle Comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro. Ma per questo occorre superare alcune resistenze fortissime.

Resistenze da parte di chi?
Di molte componenti del sistema della formazione professionale e dell’istruzione, i cui vertici e i cui addetti non gradiscono di essere messi sotto stress da un meccanismo che consenta la valutazione sistematica e capillare della qualità del servizio che essi rendono. Ma i policy-makers devono smettere di privilegiare l’interesse degli addetti al servizio, e incominciare a privilegiare quello degli utenti, che in questo caso coincide con l’interesse generale del sistema economico.

Dopo una vita dedicata al diritto del lavoro, lei ultimamente ha pubblicato un libro, La casa nella pineta, non dedicato a questa materia, bensì alla “storia di una famiglia borghese del Novecento” (ed. Giunti), la sua. Perché questo cambiamento brusco di genere letterario?
In realtà, anche in questo libro parlo di lavoro. Uno dei motivi per cui l’ho scritto è stato quello di rispondere a una domanda che mi viene rivolta spesso: “perché tu, che sei stato allievo di don Lorenzo Milani, oggi sei così critico nei confronti del sistema delle protezioni del lavoro conquistate dai lavoratori”.

E a questa domanda come risponde?
Nel libro, raccontando il mio decennio di lavoro come sindacalista della Cgil negli anni ’70, poi la mia esperienza parlamentare nella ottava legislatura nel Gruppo comunista della Camera, cerco di mostrare le contraddizioni, le crepe interne del vecchio sistema di protezione del lavoro, in cui mi imbattei nel corso di quelle esperienze, e il grave ritardo della sinistra italiana e del movimento sindacale nell’individuarle e porvi rimedio.

Quali indicazioni ne trae per il lavoro del futuro, per una sua integrazione armonica con il sistema dell’Information Tecnology, dell’automazione e dell’intelligenza artificiale?
Nel futuro, anche prossimo, il lavoro umano avrà bisogno innanzitutto di formazione e riqualificazione continua: perché il ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate sarà sempre più rapido. E avrà bisogno di un sistema capillare di servizi capaci di offrire ai lavoratori un sostegno e un’assistenza efficace nella transizione dal vecchio al nuovo lavoro. La sicurezza e la parità di opportunità dovranno essere garantite sempre di più nel mercato e nei suoi percorsi, piuttosto che nel rapporto di lavoro. Anche la lotta contro le disuguaglianze crescenti, in seno alla nostra forza-lavoro, passa attraverso questa trasformazione del sistema di protezione. Questo significa che la protezione sarà affidata sempre meno a norme e sempre più a capacità di implementazione dei servizi. Sempre meno a giudici e avvocati, sempre più a buoni formatori, buoni collocatori, buoni orientatori, buoni economisti, sociologi e psicologi del lavoro.

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