La contraddizione tra il comandamento di don Milani, di restituire tutto, e l’ammonizione del bisnonno, all’atto della divisione tra i cinque figli della tenuta in Versilia: “difficile non è costruire la casa, per quello sono buoni tutti; difficile è farne il luogo di una famiglia solida e unita: altrimenti, in un modo o nell’altro anche la casa si perde”
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Intervista a cura di Mauro Bonciani per il Corriere Fiorentino, 12 maggio 2018 – Gli altri commenti, recensioni e documenti relativi a La casa nella pineta sono raccolti nella pagina web dedicata al libro
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Più di tre anni di lavoro, in stretto dialogo con la moglie e i familiari. La casa nella pineta di Pietro Ichino, dal sottotitolo eloquente (“storia di una famiglia borghese del Novecento”) è una biografia familiare, con la casa nella ineta della Versilia baricentrica, e non solo. “Un libro scritto per i figli e i nipoti, perché la memoria e la conoscenza sono preziose”.
Professor Ichino, la casa della Versilia, oltre a essere il luogo degli affetti, che cosa rappresenta?
Per un verso è il luogo della ricchezza materiale, del privilegio; per altro verso è il luogo in cui si coltiva lungo i decenni l’unità di una grande famiglia, è il luogo dell’ospitalità, quindi anche della condivisione e del confronto con le persone più diverse. In questo senso la “casa nella pineta” rappresenta una contraddizione tipica delle migliori famiglie borghesi.
Cioè?
Il termine “borghese” nel secolo scorso è stato usato soprattutto nell’accezione negativa, per indicare la classe privilegiata, magari anche sfruttatrice. In questo libro ho voluto mostrare che, però, lo stesso termine ha anche un’accezione positiva: quella di un ceto consapevole delle proprie responsabilità verso la società circostante, attento ai segni dei tempi non per difendersene, ma per assecondare il cambiamento, il progresso. Anche quando questo comporta un proprio sacrificio.
Dunque, contraddizione risolta?
No, la contraddizione è sempre aperta. Perché il privilegio costituisce sempre un problema. Ho cercato di raccontare un contrasto, che rimane tale, tra il comandamento impartitoci da don Milani, quello di “restituire tutto”, e quello del bisnonno che, nel trasmettere ai cinque figli la grande pineta spiegava loro il valore essenziale della casa: “difficile non è costruirla o acquistarla, per quello sono buoni tutti; difficile è farla vivere, farne il luogo di una famiglia solida e unita. Se non c’è questa, prima o poi, in un modo o nell’altro, anche la casa si perde”.
Il privilegio della casa si aggiunge al privilegio della cultura. Nel libro lei dice di essere il “Pierino” della Lettera a una professoressa, che ha cercato di spogliarsi di questi privilegi.
E non c’è riuscito. Perché quando “Pierini” si nasce, per quanto si faccia si resta tali per tutta la vita. Uno dei primi sei allievi della scuola di Barbiana, Aldo Bozzolini, per lenire il mio senso di colpa mi ha scritto nei giorni scorsi una lettera – che ho messo online sul mio sito – nella quale dice di sentirsi anche lui un “Pierino”, ancorché per scelta e non per nascita; e aggiunge che anche il Priore era un intellettuale: se non fosse stato e rimasto tale non avrebbe potuto compiere il miracolo che ha compiuto a Barbiana.
Di Aldo Bozzolini e degli altri primi cinque allievi di don Milani, lei ha messo in appendice al libro anche la riproduzione anastatica dei temi che scrissero nel ’59, di ritorno da una settimana passata a Milano ospiti nella vostra casa.
E la riproduzione anastatica della lettera con cui lo stesso don Milani li inviò ai miei genitori, per ringraziarli dell’ospitalità. Una lettera straordinariamente tagliente, nonostante che fosse una lettera di ringraziamento. Anche i sei temi sono molto significativi, perché in essi si leggono in controluce quelli che evidentemente furono i commenti del Maestro a tutto quello che quei ragazzi videro, e io con loro, nel corso di quella settimana milanese.
Don Milani e la sua lezione: perché oggi tutti ne parlano?
Perché è una lezione ancora attualissima. Sia per la parte del precetto etico dell’“obbligo di restituire”, sia per la parte in cui individua nella cultura, e in particolare nella padronanza della lingua, il vero privilegio, la ricchezza a cui tutti devono avere pieno accesso.
Il libro è anche un racconto sul Novecento: cosa resta delle ideologie che lo hanno segnato, nel bene e nel male?
Poco, mi sembra, se si esclude la lezione gandhiana della non-violenza, che ha cambiato il modo di fare le rivoluzioni politiche, e che è stata al centro dell’insegnamento di don Milani; e l’idea dell’Europa unita, nata dalle rovine prodotte dalle catastrofi prodotte dalle ideologie di quel secolo e del precedente.
Lei è stato anche a lungo sotto scorta per le minacce dei terroristi rossi: pensa che oggi i ragazzi conoscano il periodo degli anni di piombo?
Pochissimo. Non mi riferisco soltanto alla malattia della violenza politica, ma anche ai grandi eventi della seconda metà del Novecento: dalla crisi di Suez all’invasione dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, dal ’68 al rapimento e assassinio di Moro, fino alla caduta del Muro. Ho scritto questo libro anche per raccontare come ho vissuto questi grandi eventi e quello che su di essi ho sentito frequentando alcuni grandi protagonisti della politica e del movimento sindacale, come Pietro Ingrao, Giorgio Napolitano, Bruno Trentin.
Centrale nel suo racconto, oltre che il rapporto con questi vari “maestri”, è anche quello con il suo babbo: contano più gli insegnamenti o l’esempio?
Per la mia esperienza, non c’è insegnamento senza l’esempio; cioè se chi insegna non sa conquistarsi la stima e anche l’affetto dei discepoli.
Il libro contiene, in modo molto pudico ma non reticente, anche delle pagine dedicate a vicende molto personali, addirittura intime. Perché ha compiuto questa scelta?
Perché ho voluto trasmettere ai miei figli e nipoti, e magari anche a qualcun altro della loro generazione, la memoria di una vita straordinariamente ricca, sotto tutti i punti di vista; e ho voluto farlo nel modo più veritiero. Se avessi raccontato soltanto quello che mi piace o mi fa comodo, non sarebbe stato un racconto veritiero. Perché se su di una vicenda ho due cose da dire e ne dico una sola, non dico la verità.