“Borghese” è anche una famiglia consapevole della propria responsabilità sociale, attenta ai segni dei tempi, non per difendersene ma per assecondare il progresso
.
Intervista a cura di Francesco Mannoni pubblicata sul Giornale di Brescia il 14 maggio 2018 – Gli altri documenti, recensioni e commenti su La casa nella pineta sono raccolti nella pagina dedicata al libro
.
.
Scarica la pagina del Giornale di Brescia in formato pdf
.
La casa nella pineta (Giunti, 420 pp., 18 euro) è la casa delle vacanze della famiglia Pellizzi-Ichino. Si trova in Versilia, al Forte dei Marmi, luogo simbolo per il giuslavorista Pietro Ichino, che ne ha fatto lo sfondo della propria autobiografia, ricordando il nonno Carlo che costruì la casa e il resto della sua famiglia, di cui ricostruisce le vicende (compresa la visita di don Milani ai suoi genitori), fino alla morte del padre avvenuta nel 1997. Scorrono nelle sue pagine evocative i ricordi privati e le vicissitudini di un Paese in trasformazione, che passa dalle persecuzioni razziali al Concilio Vaticano II, dal ’68 all’omicidio Calabresi, attraverso avvenimenti che hanno influito duramente sulla storia italiana. Lo abbiamo intervistato.
Professor Ichino, del termine “borghese“, che lei usa nel sottotitolo del libro per qualificare la sua famiglia, nel tempo sono state date diverse interpretazioni. Lei in che senso lo ha usato? Come dire: la sua famiglia che cosa è stata veramente?
La cultura marxista ha caricato il termine “borghese” di una valenza negativa, in contrapposizione al “proletaria” che qualifica la classe sfruttata. Anche don Lorenzo Milani, che marxista non era, usava questo termine con la stessa accezione negativa; quindi come una accusa. A me però sembra che lo stesso termine abbia anche un altro significato meno negativo. Mi sembra che la mia famiglia sia stata “borghese” anche in quest’altro senso.
Si riferisce al fatto che nella sua famiglia i nomi importanti – Pontecorvo, Sereni, Colorni, Sraffa – sono un segnale di genialità, di integrità morale e di professionismo serio?
Sì, ma pure a qualche cosa di più. Anche prima dell’incontro con don Milani la mia famiglia aveva molto viva la consapevolezza della propria responsabilità sociale, del dovere di porsi al servizio della società e in particolare della parte più debole di essa. Insomma, il “dovere di restituire”, cui don Milani poi ci ha richiamati in modo imperioso, in qualche misura è sempre stato presente nella cultura familiare; e questa è una caratteristica della “borghesia” nella sua accezione migliore.
Però la “casa nella pineta” della Versilia era ed è un privilegio non da poco.
È vero. Ma il libro si apre con il monito del mio bisnonno ai discendenti: “Difficile non è tanto comprare o costruire una casa: per questo sono buoni tutti. Molto più difficile è farla vivere, farne il luogo di una famiglia solida e unita”. La nostra “casa nella pineta”, che ha compiuto da poco un secolo, è stata intesa così. Anche questo, se vogliamo, è un valore borghese; ma di una borghesia nell’accezione migliore del termine.
Lei considera il suo libro più come una autobiografia, o più come una sorta di storia del Novecento visto “in soggettiva”?
Tutte e due le cose. I rivolgimenti politici del secolo scorso, le lotte sindacali dei suoi ultimi decenni e la minaccia del terrorismo sono il contesto in cui sono vissuto: non avrebbe avuto alcun senso cercare di spiegare la mia vita, le mie scelte, senza spiegare che cosa mi stava accadendo intorno.
Don Milani è stato uno dei capisaldi emozionali della sua vita, esempio concreto di un cattolicesimo progressista e intransigente. Che cosa considera ancora attuale della sua predicazione, e che cosa no?
È sempre attualissima la sua idea-forza della povertà concepita essenzialmente come difetto di istruzione. E lo è anche il suo monito tratto da S. Tommaso: “in extremis omnia sunt communia”, e l’imperativo di stabilire quale sia l’“extremum” senza avarizia, mettendosi nei panni dei più poveri. La parte “inattuale” del pensiero di don Milani, invece, è forse la sua ecclesiologia ancora preconciliare: lui stesso diceva di sentirsi “scavalcato a sinistra da Papa Roncalli”.
Come si sente di fronte a questa Italia per la quale tanto s’è speso, che ora sembra scivolare lentamente in un disastroso degrado civile e politico?
La crisi culturale e civile che il nostro Paese sta attraversando è figlia legittima della crisi della politica del secolo scorso: crisi di una sinistra divenuta sempre più conservatrice dell’esistente, che quando fa propria la necessità dell’integrazione europea si sente in colpa; crisi di una destra che perde troppo facilmente il proprio ancoraggio ai valori liberal-democratici e si rifugia in un “sovranismo” regressivo.
Di fronte a questa crisi profonda, qual è oggi il sogno, la speranza o il desiderio di un riformista come Pietro Ichino?
È che da questa crisi l’Italia esca facendo propria con forza la scelta fondamentale di partecipare da protagonista alla costruzione di una Europa unita. Solo da questa scelta può derivare la guarigione delle grandi piaghe tradizionali che affliggono il nostro Paese.
.