“[…] Ho sempre trovato i suoi scritti chiari, scorrevoli – evidentemente ha fatto tesoro dei consigli di don Milani e Giuseppe Pera -, ma molto seri […]; è leggendo La casa nella Pineta che sto gustando pienamente anche il suo umorismo […]”
.
Messaggio di Enrico Castellano pervenuto il 23 aprile 2018 – Per altri documenti e interventi sullo stesso tema v. la pagina dedicata a La casa nella pineta .
.
Caro professore, oggi non la disturbo per parlare di politica. Sto leggendo con grande interesse e piacere il suo libro e voglio ringraziarla per la ricchezza e la qualità dei contenuti e della forma, ma soprattutto per il contributo di valore/i che sta dando a me e penso a tantissimi (le auguro) lettori .
Vi sto trovando un lessico familiare che non ha nulla di invidiare a quello della Ginzburg, anche perché molto più ricco e approfondito. Leggerlo per me è importante anche perché mi fa riflettere sui valori lasciatimi dalla mia famiglia (meglio tardi che mai, visto che ho pochi anni meno di lei).
Le analogie sono impressionanti. Quattro figli (unica differenza, un solo maschio) nati negli anni ‘50. Una famiglia borghese (da più generazioni quella di mio padre, di più recente progresso sociale quella di mia madre, grazie ai sacrifici di genitori di umili origini, ma di grande intelligenza e cultura). Una rigorosa e rigidissima educazione cattolica (come mi sono ritrovato nelle regole e nella “sorveglianza” nei rapporti con l’altro sesso!). Genitori fortemente impegnati nel sociale e nell’associazionismo di matrice cattolica (prima FUCI, poi Equipes Notre Dame, di cui furono con altre coppie gli iniziatori in Italia, portando a Torino l’esperienza francese). Un cattolicesimo praticato includendovi valori più “protestanti”, come il merito, la responsabilità individuale, la sobrietà e il sacrificio, l’impegno sociale praticato non come “assistenza” ma con forte attenzione a contribuire a formazione/educazione/crescita, e quindi alla responsabilizzazione ed all’autonomia di chi ne beneficiava. Valori riflessi soprattutto nella nostra educazione (mi sono ritrovato anche nel ritornello “non ciondolare”, che sovente per noi si alternava col “non rimandare a domani quello che puoi fare oggi”), con una continua preoccupazione a contrastare la perdita di tempo (che sono convinto fosse associata anche ai rischi nella frequentazione dell’altro sesso) e che li portava a cercarci continuamente impegni, da quelli sportivi agli scout, ed a resistere all’ingresso in casa del televisore, che da noi non arrivò col Concilio, ma solo nel ‘68. Ma anche a pretendere il massimo nell’impegno scolastico (mia madre passava il tempo, nei colloqui con i professori, a cercare di convincerli che non studiavo abbastanza). E anche, soprattutto in vista dell’Università, ad assillarci sulla velocità (rimandare un esame da luglio a settembre era già visto come una colpa). Velocità che già prima era sottolineata con le storie della famiglia di mia madre dove tutte le sorelle (anche per rispetto dei sacrifici dei genitori) avevano finito le elementari un anno prima (una addirittura due, per poi, laureatasi a 21 anni, andare a fare la suora di clausura, con grande dispiacere del padre, non per la suora, ma per la clausura).
Tornando alle analogie, ricordo genitori che, senza rinnegare tradizioni ed educazione (né mollando di un centimetro sulle regole per noi figli: almeno io non ho “avuto risarcimenti” dal ‘68!) hanno saputo vedere i limiti della Chiesa pre-conciliare. Amici del Cardinal Pellegrino fin da quando era un giovane professore di patristica, frequentatori della sinistra cattolica ben prima che fosse sdoganata, ma al tempo stesso pronti a riconoscerne i limiti e gli errori quando invece era diventato politically correct appartenervi. E al tempo stesso aperti a dialogare con tutti (per fare un esempio significativo, la messa del funerale di mio padre fu concelebrata da don Primo Soldi, sacerdote di riferimento di Comunione e Liberazione a Torino e da don Carlo Carlevaris, uno dei primi preti-operai).
Altra analogia è l’esistenza di un “luogo dello spirito”, per noi costruito dalla generazione successiva (mio padre, non mio nonno). Luogo dove, grazie a lunghi soggiorni estivi, sono cresciuti tredici cugini, che poi vi hanno regolarmente portato i loro amici e i loro fidanzati/e, e che adesso inizia a essere frequentato da una nuova generazione, a oggi 6 bambini fra i pochi mesi e i 5 anni. Più due in arrivo, perché, come per la generazione precedente, questa è di nuovo la consuetudine e l’argomento di annunci/conversazioni di ogni ritrovo estivo ed invernale (oltre che fonte di complicazioni logistiche, come l’estremità del lungo antico tavolo fratino costantemente adibita, anche durante i pasti, a fasciatoio). E un’altra coincidenza è che nel suo libro ho ritrovato proprio questo luogo: si tratta della Val d’Ayas, e in particolare di uno storico rascard ad Antagnod, sulla strada di Barmasc. Luogo dello spirito soprattutto per i miei genitori, perché proprio ad Antagnod usufruirono delle prime libertà dopo la guerra, frequentando i campeggi del Raggio del Politecnico (con alloggiamento rigorosamente separato per maschi, nelle tende, e femmine, nelle baite, strettamente sorvegliati da un sacerdote che li accompagnava). Controlli che ovviamente non impedirono quello che doveva accadere, tanto che molte famiglie di professionisti torinesi, oggi ormai come la nostra alla quarta generazione, nacquero proprio in quei campeggi. E poi molte vi stabilirono ovviamente il loro “luogo dello spirito”, continuando così a frequentare regolarmente la valle (fra l’altro, molti di loro, come i miei, frequentando sovente gli incontri di don Do). A proposito di montagna, leggendo il suo libro (e vedendo le foto) ho rivisto anche le foto dei tanti album di un padre appassionato fotografo: gite, scalate sui 4.000 del Rosa, tutte fatte con un grande gusto dell’impegno e della sfida, che fecero di molti di loro, come i miei genitori, provetti alpinisti che continuarono a frequentare la montagna. Tanto da infliggere severe lezioni alla mia pigrizia, come quando, arrivato direttamente dalla pianura al Rifugio Sella per fare il Castore, il giorno dopo “scoppiai” e dovetti attendere sonnecchiando sul ghiacciaio i miei compagni che proseguirono verso la cima, per poi andare alla baita e trovarvi i miei genitori, entrambi già “over60”, che mi raccontarono che pochi giorni prima, nella stessa giornata, avevano fatto sia il Castore che il Polluce. O come quando, in un’impegnativa gita di sci-alpinismo (3 salite di circa 500 metri l’una), l’ultima fatta assieme a mio padre (sarebbe morto poco dopo in un incidente stradale), su ogni salita lui, ormai più che 70enne, m’inflisse mezz’ora di distacco.
Voglio concludere questo lungo messaggio ricordando con invidia qualcosa che invece nella mia famiglia purtroppo non trovo: i cromosomi dissacratori, “festaioli” e soprattutto di grande umorismo del nonno Pellizzi. Glie lo dico perché sto gustando questo umorismo nel suo libro. Ho sempre apprezzato i suoi scritti, dai “Nullafacenti” ad “A che cosa serve il sindacato”, da “Inchiesta sul lavoro” a “Il lavoro spiegato ai ragazzi”. Li ho trovati chiari, scorrevoli (evidentemente ha fatto tesoro dei consigli di don Milani e Giuseppe Pera), ma molto seri, prevalentemente tecnici. Ho intravvisto qualche volta il suo senso dell’umorismo emergere con parsimonia qua e là negli interventi sul suo sito; ma è leggendo “La casa nella Pineta” che lo sto gustando pienamente. Sarà l’argomento, saranno i ricordi familiari (non sono ancora a metà), ma qui lo trovo generosamente distribuito in ogni pagina. Un esempio per tutti: pur nella serietà dell’evento, in particolare se si pensa che è basato sulle preoccupazioni, il senso responsabilità, il senso etico di un bambino di 10 anni: la descrizione dei battesimi di suo fratello è veramente esilarante.
Chiudo qui, mi scuso per la prolissità, ma scrivere mi ha fatto anche scavare nei ricordi, così che molte riflessioni si sono aggiunte mentre scrivevo, tanto che, indegnamente, ho finito anch’io per scrivere un mini lessico familiare. Ancora grazie
Enrico Castellano