Il Tribunale, applicando la legge vigente, nega ai fattorini di Foodora la qualifica (e i diritti) di lavoratori subordinati – Resta così insoddisfatta un’esigenza di protezione, alla quale però in altri Paesi si incominciano a dare risposte modellate secondo nuovi schemi
.
Articolo pubblicato su lavoce.info il 13 aprile 2018 – In argomento v. anche il mio post di un anno e mezzo fa, Sulla questione dei fattorini di Foodora, e la mia relazione al congresso dell’Associazione Giuslavoristi Italiani, Le conseguenze dell’evoluzione tecnologica sul diritto del lavoro
.
.
La sentenza del Tribunale di Torino, che respinge le rivendicazioni dei ciclofattorini di Foodora aspiranti a essere riconosciuti come lavoratori subordinati, non costituisce una novità sul piano giurisprudenziale. Una questione molto simile era stata affrontata dai giudici del lavoro italiani negli anni ’80, in riferimento ai motofattorini collegati via radio con la centrale operativa, i cosiddetti pony express. Allora, dopo una prima sentenza di merito che li qualificava come subordinati, prevalse nettamente l’orientamento opposto sulla base della constatazione che il contratto lascia liberi questi lavoratori di decidere volta per volta se rispondere o no alla chiamata: questo – dissero i giudici del lavoro trent’anni fa e dice oggi il giudice torinese – è incompatibile con il carattere continuativo della prestazione e il suo assoggettamento all’obbligo di obbedienza verso il creditore, che costituiscono elementi essenziali del contratto di lavoro subordinato. L’esigenza di una protezione almeno essenziale di questi lavoratori è rimasta così senza risposta.
I tentativi di soluzione
Il legislatore si è proposto di estendere la protezione anche a casi come questi, al di fuori dell’area tradizionale del lavoro subordinato, in un primo tempo nel 2012, con la Legge Fornero (l. 28 giugno 2012 n. 98), che ha disposto l’ampliamento dell’area di applicazione del diritto del lavoro a tutti i rapporti caratterizzati essenzialmente da due elementi: a) la monocommittenza, cioè il fatto che il lavoratore traesse dal rapporto almeno tre quarti del proprio reddito; b) la retribuzione annua non superiore a una soglia medio-bassa (circa 18.000 euro). Questo criterio, che pure ha prodotto alcuni primi effetti positivi, tuttavia consentiva ancora l’abuso del magazziniere a partita Iva, o della segretaria d’ufficio assunta come co.co.co., purché con una retribuzione annua superiore alla soglia. Per questo nel 2015, con l’articolo 2 del decreto legislativo n. 81, è prevalsa la scelta di sostituire il criterio della dipendenza economica con quello del coordinamento spazio-temporale del lavoro a discrezione del creditore: oggi dunque il diritto del lavoro subordinato si applica in tutti i casi in cui la prestazione deve svolgersi nel luogo e nei tempi stabiliti dal creditore. Il nuovo criterio si è rivelato notevolmente efficace, se è vero che nel triennio 2015-2017 si è registrata una riduzione drastica dei co.co.co.; torna, però, a essere difficile ricondurre sotto l’ala protettiva del diritto del lavoro un rapporto contrattuale come quello dei platform workers, che lascia a questi ultimi una piena libertà di decidere, ogni giorno e ora per ora, se e quando essere effettivamente a disposizione del creditore.
Che cosa accade negli altri Paesi
Il problema, ovviamente, si è posto anche nel resto del mondo. Nel Regno Unito una sentenza della Royal Court of Justice del 2017 e una di un Employment Tribunal del 2016 hanno qualificato come worker a norma dell’Employment Rights Act 1996, ma non come employee, rispettivamente un idraulico operante con la catena Pimlico e alcuni autisti operanti con Uber: oltre Manica sembra dunque prendere piede la classificazione di questo tipo di organizzazione del lavoro in un tertium genus, distinto sia dal lavoro subordinato sia dal lavoro autonomo tradizionale. Un orientamento simile si registra in alcune sentenze pronunciate in California, dove pure se ne sono registrate di negative sulle rivendicazioni di platform workers. Nei Paesi dell’Europa continentale si osserva invece il nascere delle umbrella companies, che offrono ai platform workers, come ad altri che si collocano a pieno titolo nell’area del lavoro autonomo ma senza un regime assicurativo di categoria, il servizio di riscossione dei compensi e la possibilità di attivare una propria posizione previdenziale, attraverso la simulazione di un rapporto di lavoro alle proprie dipendenze. In Belgio una di queste, la Smart, ha negoziato un accordo con Deliveroo, che prevede per i fattorini ciclisti un compenso minimo garantito indipendente dal numero delle consegne compiute, un contributo per l’uso ed eventuale riparazione della bicicletta e dello smartphone, tutti versati da Deliveroo alla stessa Smart, che li utilizza per il pagamento di retribuzione e contributi per lo più nell’ambito di un contratto di lavoro intermittente. Questo oggi in Italia non sarebbe consentito, stanti gli spazi strettissimi entro i quali questa forma di contratto è utilizzabile; l’anno scorso è stato presentato in Senato un disegno di legge (S-2934) mirato a favorire, invece, lo sviluppo di iniziative come questa, anche con la previsione che, dove il lavoratore non possa o non intenda avvalersene, i suoi compensi siano versati mediante la piattaforma Inps istituita per il lavoro occasionale, quindi con garanzia di una retribuzione minima, dell’assicurazione pensionistica e di quella antinfortunistica.
Spazi per l’iniziativa del sindacato
Ma proprio l’esperienza dell’accordo Smart-Deliveroo in Belgio mostra quanto spazio ci sarebbe, su questo terreno, per una iniziativa sindacale di organizzazione e contrattazione, che potrebbe dar vita a un sistema di protezione rispettoso delle peculiarità di questa nuova forma di organizzazione. Certo, questo presuppone che essa non venga demonizzata.
.