Un lettore mi interroga, oltre che sui miei rapporti recenti con il vertice del Pd, anche su quello che è stato fatto e che ho fatto io personalmente per correggere i difetti più gravi della nostra burocrazia statale – Gli rispondo punto per punto
.
Lettera pervenuta il 14 marzo 2018 – Seguono le mie risposte, che per maggiore immediatezza sono inframezzate alle domande del lettore, evidenziate con il margine rientrato, il carattere corsivo e il colore blu; e una replica dello stesso autore della lettera
.
.
Caro Ichino, mi spiace che non si presenti candidato alle prossime elezioni. Capisco le sue ragioni e le apprezzo. Ho letto l’intervista di Libero [Dieci anni in Parlamento: luci e ombre, del 5 febbraio 2018 – n.d.r.] e se permette vorrei aggiungervi alcune domande. La prima attiene agli usi civili, validi anche per i partiti. Quando un parlamentare di lungo corso come lei annuncia con mesi di anticipo la sua intenzione, anche irrevocabile, di non ripresentarsi alle prossime elezioni, di regola il capo del partito (o un suo delegato) dovrebbe, all’apertura della campagna elettorale, chiedergli di ripensarci. Può essere un atto formale. Ma ha la sua (grande) importanza perché segna sia l’apprezzamento per il lavoro svolto dal dimissionario sia il rammarico per la perdita di un valido parlamentare. La mia prima domanda è dunque la seguente: “Il segretario del Pd, Renzi, le ha chiesto all’inizio della campagna elettorale di tornare sulla sua decisione e di ripresentarsi come candidato del Pd?”
Non me lo ha chiesto. E non mi aspettavo che me lo chiedesse. Per diversi motivi: il primo, di carattere generale, è che fin dall’anno passato tutti nel Pd si attendevano una drastica riduzione dei seggi parlamentari a seguito delle elezioni: in una situazione di quel genere, un parlamentare uscente che rinuncia alla candidatura applicando spontaneamente la regola delle tre legislature, senza discussioni bizantine sulla loro durata effettiva, è un benemerito, non certo uno da scoraggiare. Il secondo motivo, riguardante specificamente la persona dell’allora segretario del Pd, è che negli ultimi due anni mi era accaduto più volte di vedere del tutto disattese da lui alcune mie critiche e proposte di correzione del modo in cui la riforma del lavoro stava essendo attuata (per quel che riguarda il sistema dei servizi al mercato del lavoro e in particolare la gestione dell’ANPAL), o parzialmente depotenziata (per esempio con la reintroduzione di un regime di job property nel settore pubblico); e soprattutto la raccomandazione di correggere la vera e propria “sbandata” politica contenuta nel suo ultimo libro (poi per fortuna superata all’inizio della campagna elettorale), là dove aveva proposto la nuova parola d’ordine del “ritorno a Maastricht”, intendendo con questo teorizzare il ritorno alla possibilità di aumentare il debito pubblico anche nei periodi di congiuntura economica favorevole: ciò che significherebbe abbandonare il processo di costruzione di un nuovo governo europeo dell’economia. Tutto questo per dire che c’è stato, nel corso di questi ultimi tre anni, un periodo in cui a Matteo Renzi è un po’ “mancato l’ascolto”, nel quale comunque i miei rapporti con lui non sono stati idilliaci.
La seconda domanda riguarda la sostanza e non le forme della politica. Libero voleva sapere che cosa l’abbia delusa nella sua attività di parlamentare e lei ha risposto: “La cosa più deludente è stato constatare quanto poco le amministrazioni siano pronte a implementare le nuove leggi varate dal Parlamento, e, per altro verso, quanto siano più potenti del Parlamento”. Lei dunque afferma che le burocrazie statali (le definisce “le amministrazioni”) sono poco pronte ad applicare e a rendere operative le nuove leggi. E spiega: possono farlo perché “sono più potenti del Parlamento”. Detto bene, con la massima chiarezza. La sua denuncia, senatore Ichino, è la coraggiosa e certo sofferta testimonianza di un legislatore. Che forse la porta a concordare con chi vede in una simile profonda destabilizzazione dell’ordine democratico una delle cause prime della crescente sfiducia della gente nelle istituzioni dello Stato. Ecco dunque la mia seconda domanda: “Nessun ordine dello Stato può essere più potente di un Parlamento eletto democraticamente dal popolo. Che cosa hanno fatto concretamente negli ultimi sei anni i governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni per contrastare, fino a eliminarli, i comportamenti delle burocrazie anche da lei denunciati, che consentirebbero ai vertici amministrativi di operare come un organo più potente del Parlamento?”
Il Governo Renzi si è occupato, eccome, di questo problema; e anche molto incisivamente. Lo ha fatto con diversi decreti attuativi della legge-delega per la riforma delle Amministrazioni pubbliche, n. 124/2015, di cui uno dedicato a rendere più incisiva la valutazione e ad aumentare la mobilità dei dirigenti pubblici, in particolare – ma non soltanto – con la regola ivi contenuta della rotazione quadriennale dei dirigenti stessi. Grava sulla Corte costituzionale la responsabilità non piccola di aver azzerato proprio questo decreto (sentenza n. 251/2016), sul presupposto di una pretesa violazione della ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni (ciò che avrebbe, semmai, giustificato la disapplicazione del decreto nelle Amministrazioni regionali, non certo la sua disapplicazione anche in quelle statali).
Se la sua risposta fosse: “Non hanno fatto niente; o poco; o troppo poco”, dovrei domandarle (e sarebbe il terzo mio quesito): “Quali sono, a suo parere, i motivi dei mancati interventi correttivi e anche repressivi da parte di chi, premier e ministri, possiede gli strumenti per interrompere e punire eventuali comportamenti pericolosi per il nostro sviluppo democratico e in ogni caso contrari alle leggi dello Stato? E quali i provvedimenti da prendere?
La realtà è che non soltanto il Governo Renzi nel 2014-15, ma nel 2009 anche il Governo Berlusconi si è proposto di responsabilizzare le Amministrazioni pubbliche circa l’implementazione di quanto la legge stabilisce e il conseguimento degli obiettivi stabiliti dai vertici politici, in modo che anche questi ultimi finalmente incomincino a poter essere tenuti responsabili della realizzazione di quanto promettono agli elettori. Ma è questa forse, oltre che la riforma più importante di cui l’Italia avrebbe bisogno, anche la più difficile da attuare.
Se i governi e i loro ministri fingessero di ignorare la situazione, oppure si limitassero a denunciarne l‘esistenza ma non intervenissero, darebbero al Paese una pericolosa (per il Paese e anche per loro) dimostrazione di impotenza politica.
Infine una quarta domanda: che cosa ha fatto lei di concreto, nel suo decennio al Parlamento, per contrastare e ridurre lo strapotere della burocrazia, sia in Aula sia nelle commissioni sia nei suoi rapporti con i governi della Repubblica? Dedicherò a questo tema la ma prossima “lettera agli amici”.
Nel mio decennio di lavoro in Senato ho sempre esposto in modo molto preciso le linee programmatiche cui intendevo ispirare la mia azione in Parlamento, sintetizzandole in una pagina apposita di questo sito intitolata Le proposte (qui il capitolo dedicato alla riforma delle Amministrazioni pubbliche è il primo dei nove). Ho poi documentato puntualmente, passo per passo, il lavoro compiuto secondo le linee indicate: sul terreno della riforma delle Amministrazioni pubbliche lo ho fatto collocando i miei disegni di legge, emendamenti, interventi, articoli e interviste in ordine cronologico nella sezione Lavoro pubblico di questo sito (274 post), e riordinandone la parte che mi è parsa più meritevole di segnalazione nel Portale della trasparenza e della valutazione nelle amministrazioni pubbliche. Tra le cose di maggior rilievo che ho fatto annovererei la presentazione del disegno di legge, a mia prima firma e seconde firme di Tiziano Treu e della capogruppo Pd Anna Finocchiaro, 5 giugno 2008 n. 746, che ha preceduto di qualche giorno il disegno di legge Brunetta 26 giugno 2008 n. 847, e che ha inciso in modo non insignificante sui contenuti della legge-delega n. 15/2009 e nel decreto legislativo n. 150/2009, frutto del dibattito parlamentare conseguitone. Paradossalmente, ha prodotto maggiori risultati pratici quella mia battaglia per l’introduzione dei principi di trasparenza e valutazione nel settore pubblico, condotta dai banchi dell’opposizione nella XVI legislatura, rispetto a quella condotta nella XVII dai banchi della maggioranza, per l’allineamento della disciplina del lavoro pubblico a quella dei rapporti di lavoro privato.
La ringrazio per l’attenzione e per le risposte che vorrà dare alle mie domande
Attilio Pandini
UNA REPLICA ALLE MIE RISPOSTE
Caro Ichino, la ringrazio della sua risposta, ampia e motivata. Per restare alla sostanza dei miei quesiti, mi sembrava di essere al corrente di alcune iniziative prese dai nostri governi, con Renzi e prima ancora con Berlusconi, sulla pubblica amministrazione, ma qui lei ne dà oggi un riassunto completo. Certo: prima la Corte costituzionale ha azzerato uno dei decreti più importanti; poi ci si è “proposti” di frenare se non di impedire l’invadenza della burocrazia centrale. Ma restando, visti i risultati da lei denunciati, nei limiti delle “proposte”. E tuttavia, come lei ammette, questa riforma, “forse la più importante di cui l’Italia avrebbe bisogno, è anche la più difficile da attuare”. E qui è il punto. Come si possono definire un governo e un parlamento che accettano, come lei ha detto a Libero, che la burocrazia centrale sia “più potente del parlamento”? Al punto di ritardare o addirittura di contrastare l’applicazione delle nuove leggi?
Dieci anni or sono Tommaso Padoa-Schioppa, allora ministro dell’Economia, in un’intervista al Corriere della sera denunciava “l’Italia delle rendite”: i professori universitari assenti dalla ricerca scientifica e spesso dall’insegnamento, gli impiegati pubblici intrasferibili e senza nessun controllo del rendimento, i due mesi di vacanza dei magistrati, ecc. In una nota su un periodico mi permisi di scrivere che un ministro dello Stato non può limitarsi all’indignazione: “al suo baleno polemico deve tener dietro il fulmine dei provvedimenti, alla sua denuncia delle cose storte deve seguire l’azione del governo per raddrizzarle. Se l’analisi critica non si traduce in atti di governo, essa finisce con l’esser letta come un’ammissione di impotenza politica”. Da quanti anni la burocrazia centrale romana è definita la serva-padrona della classe politica?
In quella stessa nota di dieci anni or sono citavo – mi sono sempre nutrito di buone letture – anche una frase del prof. Pietro Ichino, “uomo di punta dei riformisti”, il quale scriveva: “Il riserbo col quale da noi si occultano i dati analitici sul funzionamento delle nostre amministrazioni risponde all’antico principio di inaccessibilità degli arcana imperii che da sempre protegge i poteri autoritari, i sovrani assoluti”. È soltanto una repubblica di nome quella guidata da “poteri autoritari, da sovrani assoluti”; cioè da burocrati “più potenti del parlamento” e addirittura neppure eletti, come altri sovrani assoluti in altri Paesi, da uno straccio di voto popolare. Ma il problema non sembra essere all’odg nell’agenda dei candidati a guidare il prossimo governo di quella repubblica.
Grazie ancora e molti cordiali saluti e auguri da
Attilio Pandini